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Messaggi di Aprile 2018

ASTRO....

Post n°1622 pubblicato il 26 Aprile 2018 da blogtecaolivelli

 

Le ultime cinque scoperte scientifiche più interessanti

 Non è facile, dato un elenco di scoperte e di ricerche nel campo scientifico, stabilire quale sia la più importante. A volte, per carità, una novità è così sconvolgente che si comprende subito che rivoluzionerà il nostro modo di guardare al mondo. In altri casi, però, le scoperte migliori portano ad effetti che si sviluppano un po' alla volta nel tempo. Così, sarebbe sempre utile aspettare, prima di lanciarsi in sperticati elogi.È anche vero, però, che tenersi aggiornati è importante, e anche non lasciarsi sfuggire le novità nei campi della medicina, della fisica, dell'astronomia, della chimica, delle scienze umane. Non solo per sognare ad occhi aperti riguardo alle possibilità che si apriranno in futuro, ma anche per ricordarsi come le nostre conoscenze siano sempre momentanee e passibili di revisioni.

Per questo abbiamo raccolto cinque scoperte che, nell'ultimo anno e mezzo, hanno fatto sensazione. Ve ne diamo conto, cercando di spiegarvele in modo semplice ma corretto.

 

Dopo trent'anni, un nuovo antibioticoLe speranze attorno al teixobactin

Il terreno da cui, con la tecnologia iChip, gli scienziati hanno estratto il teixobactinAll'inizio del gennaio del 2015 la prestigiosa rivistaNature ha annunciato sul proprio sito la scoperta di un nuovo antibiotico. Cosa da poco, penserete voi. Ebbene no, perché era da trent'anni che non se ne trovavano di nuovi e si iniziava a temere che la lotta agli agenti patogeni non avrebbe fatto più passi in avanti. Anzi, sarebbe regredita, perché si è notata una aumentata resistenza delle malattie agli antibiotici già usati. Insomma, c'era un deciso bisogno di aria fresca nel settore.

Come si legge su Nature 517, uscito in versione cartacea il 22 gennaio 2015, dall'analisi di un terreno del Maine è stata individuata una nuova classe di antibiotici. Chiamata teixobactin, questa nuova sostanza ha già dato buoni risultati con la membrana cellulare dei batteri Gram-positivi, tra l'altro manifestando un comportamento diverso da quello degli altri antibiotici conosciuti. La speranza è di iniziare la sperimentazione sull'uomo entro il 2017 e riuscire a commercializzare il prodotto per il 2020.

GLI ESPERTI DI BOSTON

La scoperta è merito di un team di ricercatori composto da studiosi della Northeastern University di Boston e della NovoBiotic Pharmaceutical. Allo studio hanno però partecipato anche esperti dell'Università di Bonn. Anche grazie a loro, gli esperimenti finora condotti sui topi hanno dato risultati molto incoraggianti, soprattutto nel fronteggiare le infezioni da Staphylococcus aureus e Streptococcus pneumoniae.

L'arrivo dell'Homo naledi

Migliaia di fossili trovati in Sudafrica

Una ricostruzione del possibile volto dell'Homo nalediLa conoscenza di noi comuni mortali riguardo all'evoluzione umana è abbastanza cristallizzata. Prima i primati, poi gli ominidi che cominciavano a camminare su due gambe, poi ancora gli Australopitechi - come Lucy - e infine gli Homo. Prima l'Homo abilis, poi l'Homo erectus, l'uomo di Neanderthal, infine l'Homo sapiens. Una linea che abbiamo imparato a scuola e che, quando la ricordiamo, un po' ci rassicura. Una nuova scoperta, anche questa datata 2015, però porterà forse a rivedere in parte questa successione.

Già nel 2013, in Sudafrica, era stato scoperto un vasto complesso di grotte chiamato Rising Star Cave. Al suo interno c'erano 1.500 reperti fossili, che sono stati catalogati e studiati nei mesi successivi. In un articolo pubblicato su eLife nel settembre del 2015 si sono presentati gli esiti di questo ampio studio. Che si possono riassumere così: nella catena evoluzionistica umana bisogna introdurre un nuovo elemento, che possiamo chiamare Homo naledi. Il nome, e in particolare la parola naledi, deriva dal luogo del ritrovamento, visto che nella lingua indigena locale quel termine significa "stella", con riferimento al nome delle caverne.

TRA L'AUSTRALOPITECO E L'HOMO

I reperti trovati appartengono a 15 esemplari diversi e sono molto numerosi. In generale, si tratta della più corposa scoperta di sempre in campo evoluzionistico. Gli studiosi affermano che questa nuova specie potrebbe essere una specie di anello di passaggio dall'Australopiteco all'Homo. Alto circa 150 centimetri, l'Homo naledi aveva ancora il piccolo cervello del suo progenitore ma cranio, mandibola e denti simili a quello del suo discendente. Anche in altri elementi - come la cassa toracica, le mani e gli arti inferiori - questa ambiguità tra le due altre specie conosciute rimane evidente.

Scoperti nella zona della celebre Culla dell'umanità dai dilettanti Rick Hunter e Steven Tucker, i fossili sono stati analizzati da un team internazionale. A guidarlo è stato chiamato Lee Berger, paleoantropologo dell'Università del Witwatersrand, a Johannesburg. I suoi risultati, giudicati stupefacenti da molti esperti, necessitano però di ulteriori conferme e studi.

C'è acqua su Marte

Lo studio di Lujendra Ojha e la conferma della NASA

Lujendra Ojha presenta i suoi risultatiImmagini di Marte già ne avevamo. E soprattutto avevamo tanti racconti e film di fantascienza, che ci paventavano di misteriosi marziani dotati di una grande tecnologia e pronti ad invaderci in ogni momento. Puro lavoro di fantasia, perché, da quel che sapevamo, segni di vita su Marte non sembrano essercene. Anche se qualche indizio lasciava aperta la porta a un futuro ripensamento.

L'elemento più grosso, comunque, è arrivato nel settembre 2015, quando Nature Geoscienceha pubblicato un articolo firmato da Lujendra Ojha. E quando, allo studio del ricercatore del Georgia Institute of Technology di Atlanta, è seguita una conferenza stampa esplicativa della NASA. Perché tanto clamore? Perché si è dimostrato che le linee scure che, nelle fotografie, uscivano da numerosi crateri di Marte sono in realtà composte da acqua. E che quindi il liquido che nel nostro pianeta è sinonimo di vita è presente anche lì.

LE IPOTESI SULLA SUA ORIGINE

Quest'acqua, probabilmente salata, si presenta solo stagionalmente sulla superficie. Sul perché di questo comportamento gli studiosi sono ancora divisi. Un'ipotesi è che esista del ghiaccio che, in corrispondenza dell'estate marziana, si sciolga e generi l'acqua, che poi evaporerebbe molto in fretta. Ma non si è parlato solo di ghiaccio: si sono ipotizzate anche falde acquifere, geyser e vapore acqueo atmosferico.

Un'indagine più approfondita e la ricerca di ulteriori segni di vita su Marte saranno compiti di Astrobiology Field Laboratory, la nuova missione NASA condotta tramite robot che dovrebbe partire in questo 2016.

La scoperta di nuovi pianeti grazie al telescopio Kepler

I molti cugini della Terra

Simulazione che mostra come potrebbe essere Kepler-438 b, il pianeta più simile alla Terra finora conosciutoRimaniamo per un attimo in un ambito che fino a qualche mese fa avremmo definito fantascientifico. Di sicuro avrete visto film o letto libri in cui gli umani, in un futuro non troppo lontano, decidono di lasciare la Terra e di andare a colonizzare un altro pianeta. Anche Interstellar, il recente e bel film di Christopher Nolan, si basa su questa idea di partenza. Esistono altri pianeti, là fuori, dove un giorno l'umanità potrà trasferirsi? Esistono altri pianeti abitabili?

Ebbene, la domanda non interessa più solo la fantascienza. Come abbiamo appena visto, la NASA e gli scienziati studiano sì Marte, ma non smettono di cercare - a distanze più ampie - pianeti il cui ecosistema sia compatibile con la vita umana. Negli ultimi anni, da questo punto di vista, si sono fatti progressi importanti. Nel marzo 2009 è stato lanciato in orbita il telescopio spaziale Kepler che ha proprio il compito di individuare pianeti della Via Lattea che gravitino attorno a una stella simile al nostro Sole.

L'EARTH SMILARITY INDEX

Proprio nel 2015 la NASA ha annunciato infatti risultati importanti. Basandoci sull'Earth Similarity Index, cioè su una scala di misura che indica la somiglianza di questi nuovi pianeti con la Terra, è stato scoperto infatti il pianeta più simile al nostro mai individuato. Si tratta di Kepler-438 b, che gira attorno alla stella Kepler-438. Si trova a circa 472 anni luce da noi, nella costellazione della Lira. Ha un raggio che è il 12% più grande di quello terrestre e compie un giro attorno alla sua stella madre (una nana rossa) in appena 35 giorni.

Purtroppo, però, non è detto che Kepler-438 b sia realmente abitabile, nonostante i valori di temperatura e abitabilità vicini al nostro. Infatti gli scienziati hanno ipotizzato che vi sia un alto livello di radiazioni che renderebbe superflua anche la presenza di acqua. Alcuni stimano che il pianeta possa essere simile, anzi, a una versione più fresca di Venere.

KEPLER-442 B E KEPLER-452 B

Comunque sono stati scoperti altri due pianeti oggetto di studio, anche se con valori dell'Earth Similarity Index lievemente minori: Kepler-442 b e Kepler-452 b. Il primo è il 34% più grande della Terra, si trova anch'esso nella costellazione della Lira ed ha un periodo orbitale di 112 giorni. La gravità dovrebbe essere quindi il 30% circa più forte e relativamente tollerabile anche per gli umani. Ulteriori studi sono però necessari.

Per quanto riguarda Kepler-452 b, invece, questo pianeta è stato scoperto solo nel luglio scorso e compie un giro attorno alla propria stella in 384 giorni. Quello che però lascia perplessi è proprio il suo raggio, che è 1,63 volte più grande di quello terrestre; inoltre la massa potrebbe essere cinque volte maggiore della nostra. Questo fa ipotizzare che il pianeta abbia un'attività vulcanica molto intensa e che sia ricoperto da una spessa coltre di nubi. Inoltre sia il pianeta che la sua stella sono più vecchi rispettivamente della Terra e del Sole.

Le onde gravitazionaliUna conferma alle teorie einsteiniane che arriva anche dall'Italia

Lo scontro tra buchi neri simulato al computerConcludiamo con una scoperta datata 2016 che ha avuto una grande eco sui giornali, anche perché ha visto il coinvolgimento di ricercatori italiani. Una scoperta che però viene in un certo senso da un secolo fa. Era infatti il 1916 quando Albert Einstein, all'interno della sua teoria della relatività generale, prevedeva l'esistenza di onde gravitazionali, cioè di deformazioni della curvatura dello spaziotempo che si propagano come onde.

La previsione era che al passaggio di un'onda gravitazionale le distanze tra i punti dello spazio si sarebbero contratte e allungate in maniera ritmica. Il problema è che era difficile rilevare sperimentalmente questo effetto, visto che anche gli strumenti usati per misura le distanze avrebbero subito gli stessi effetti. L'11 febbraio di quest'anno, però, il team che lavora all'osservatorio statunitense LIGO è riuscito a misura le onde causate dalla collisione di due buchi neri.

IL RILEVATORE DI PISA

Per quanto riguarda il ruolo italiano nella scoperta, bisogna ricordare che la conferenza stampa di presentazione dei risultati è stato condotta assieme dagli scienziati di LIGO e da quelli di VIRGO. Quest'ultimo è il nome di un rilevatore interferometrico di onde gravitazionali che sorge a Cascina, in provincia di Pisa. Il progetto è frutto di una collaborazione italo-francese ed è finanziato dall'ERGO (l'Osservatorio Gravitazionale Europeo).

 
 
 

ASTRO....

Post n°1621 pubblicato il 26 Aprile 2018 da blogtecaolivelli

fonte:Internet

Astronews a cura di Massimiliano Razzano

  • Sempre più lontano, grazie alle lenti gravitazionali

    Non avevamo mai visto una stella così lontana.

    Infatti il team internazionale di astronomi, 

    Durante le osservazioni dell'ammasso, i ricercatorI

  •  hanno notato la presenza della nuova stella, 

  • denominata LS1, nell'aprile 2016. Dopo aver 

  • scoperto LS1, gli astronomi ne hanno anche 

  • misurato lo spettro, che suggerisce che la stella 

  • sia una supergigante blu di classe spettrale B.

  •  Si tratterebbe quindi di una stella blu e molto 

  • luminosa, con una temperatura che va dagli 11

  •  ai 14 mila gradi, più del doppio della temperatura 

  • del Sole. "La luce di LS1 non è stata ingrandita

  •  solamente dalla grandissima massa totale

  •  dell'ammasso, ma anche da un oggetto compatto

  •  di circa tre masse solari all'interno dell'ammasso,

  • secondo un effetto chiamato microlensing gravitazionale",

  •  ha aggiunto Diego. La lente potrebbe esser stata

  •  prodotta da una stella normale, oppure un oggetto

  •  compatto come una stella di neutroni o un buco 

  • nero di massa stellare, e pertanto studiare questi

  •  fenomeni di microlensing, seppur molto rari, ci

  •  permette di fare un censimento degli oggetti 

  • che altrimenti risulterebbero invisibili, come ad

  •  esempio i buchi neri. Conoscere la composizione

  •  degli ammassi di galassie, soprattutto degli oggetti 

  • più difficili da osservare con i telescopi, può aiutarci

  •  anche a capire meglio la percentuale di materia

  •  non visibile, raccogliendo così importanti indizi 

  • sulla materia oscura.

  • coordinato da Patrick Kelly dell'Università del 

  • Minnesota, Jose Diego dell'Istituto di Fisica di

  •  Cantabria in Spagna e Steven Rodney 

  • dell'Università della Carolina del Sud, stava

  •  utilizzando il telescopio spaziale "Hubble" per 

  • osservare la supernova "Refsdal", così sopran-

  • nominata in onore dell'astronomo norvegese

  •  Sjur Refsdal, che nel 1964 suggerì la possibilità 

  • di utilizzare la combinazione di supernovae e lenti

  •  gravitazionali per studiare l'espansione dell'Universo.

  •  Un oggetto impossibile da vedere con gli attuali 

  • telescopi, se non fosse che questa volta la fortuna 

  • ci ha messo lo zampino. Grazie al fenomeno delle

  •  lenti gravitazionali, l'immagine della stella LS1 è 

  • stata ingrandita più di duemila volte, rendendola 

  • visibile con il telescopio spaziale "Hubble".

  •  Le immagini di questa nuova stella da record 

  • sono state pubblicate e discusse in un articolo 

  • apparso su Nature Astronomy, e il loro studio

  •  ci permetterà di capire più fondo l'evoluzione

  •  delle stelle nell'Universo primordiale, la struttura 

  • degli ammassi di galassie e la natura della materia 

  • oscura.

 
 
 

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Post n°1620 pubblicato il 26 Aprile 2018 da blogtecaolivelli

fonte: Internet

Astronews a cura di Massimiliano Razzano

  • Scoperta una

    Non tutte le galassie sono maestose come 

    La scoperta è stata condotta con il Dragonfly Telephoto Array,

    Nell'immagine: La galassia NGC 1052-DF2 ripresa dal 

  • telescopio spaziale Hubble (NASA, ESA, and P. van Dokkum

  •  (Yale University))

  •  un sistema di obbiettivi a grande campo appositamente 

  • sviluppato per scoprire le galassie più deboli ed 

  • evanescenti. La galassia è stata poi analizzata più in 

  • dettaglio con i telescopi dell'Osservatorio Keck alle 

  • Hawaii, che hanno permesso di misurare il moto di 

  • 10 ammassi globulari nella galassia. La velocità di 

  • questi ammassi è legata al campo gravitazionale della 

  • galassia, che dipende dalla quantità di materia

  •  (visibile e oscura) presente nella galassia. Le

  •  velocità sono circa un terzo di quanto atteso, e 

  • secondo gli astronomi questo dipende dal fatto 

  • che nella galassia c'è molta meno materia oscura

  •  di quanto atteso. Come si possa formare una

  •  galassia come DF2 è ancora tutto da scoprire, 

  • anche se la causa potrebbe essere nella presenza 

  • di forti venti stellari che hanno "spazzato via" la 

  • materia oscura, oppure nella frammentazione di 

  • una galassia più grande, da cui sarebbe poi nata

  •  questa curiosa isola cosmica.

  • la Via Lattea o la Galassia di Andromeda. Alcune 

  • contengono pochissime stelle e hanno un aspetto

  •  così evanescente da essere a malapena visibili.

  •  E fra queste "galassie fantasma" ce n'è una

  •  ancora più strana, che sembra quasi completamente

  •  priva di materia oscura. A scoprirlo è stato un team

  •  coordinato da Peter van Dokkum dell'Università di Yale,

  •  che si è concentrato sulla galassia NGC 1052-DF2 a

  •  65 milioni di anni luce da noi. Secondo i dati di van

  •  Dokkum, la galassia contiene infatti 400 volte meno

  •  materia oscura di quanto atteso. La scoperta,

  •  pubblicata su Nature, potrebbe aiutarci a scoprire

  •  nuovi fenomeni che portano alla creazione di una galassia.

 
 
 

ASTRO...

Post n°1619 pubblicato il 26 Aprile 2018 da blogtecaolivelli

fonte: Internet

Astronews a cura di Massimiliano Razzano

  • Tutto il ferro di Kepler 229bTutto il ferro di Kepler 229b

    A prima vista sembra un semplice gemello della Terra, ma al suo interno nasconde un pesante segreto. Pesante in senso letterale perché il pianeta K2-229b, poco più grande della nostra Terra, sembra racchiudere un gigantesco nucleo ferroso, che rende questo pianeta molto simile a Mercurio piuttosto che al nostro. A scoprirlo è stato un team internazionale, che ha sfruttato i dati della fase estesa di osservazione del telescopio spaziale "Kepler" e dello strumento Harps installato al telescopio riflettore da 3,6 metri installato all'Osservatorio Australe Europeo. La scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, ci aiuterà a capire la formazione dei pianeti, in particolare di quelli rocciosi come la Terra e Mercurio.

    Il lavoro, a cui hanno partecipato Francesca Faedi e Aldo Bonomo dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, è partito dai dati di "Kepler", che ha osservato la stella K2-229 fra luglio e settembre 2016, scoprendo tre pianeti fra cui K2-229b, che è il più vicino dei tre e orbita intorno alla stella in appena un giorno. Grazie all'analisi delle velocità radiali del pianeta è stato possibile determinarne la massa, che sembra essere 2,6 volte quella del nostro pianeta. Secondo i ricercatori ciò è dovuto al fatto che in K2-229b circa il 70% della massa è costituita da ferro, analogamente a quanto accade per Mercurio. Non è chiaro come si possa esser formato un pianeta così pesante, e secondo gli scienziati la spiegazione potrebbe essere in un violento scontro planetario che avrebbe strappato gli strati più esterni del pianeta, un episodio simile a quanto ci aspettiamo sia accaduto nel lontano passato di Mercurio.

    Nell'immagine: Raffigurazione artistica di K2-229b (NASA/JPL)

 
 
 

ASTRO....

Post n°1618 pubblicato il 26 Aprile 2018 da blogtecaolivelli

fonte: Internet

Astronews a cura di Massimiliano Razzano

  • Ariel, la nuova missione europea studierà i pianeti extrasolarAriel, la nuova missione europea studierà i pianeti extrasolari

    Sarà lanciata nel 2028 e studierà in dettaglio

    Oggi conosciamo migliaia di pianeti extrasolari,

    La missione ha avuto la meglio su altri due progetti: 

    Nell'immagine: Raffigurazione artistica di un pianeta 

  • extrasolare di fronte alla sua stella principale

  •  (ESA/ATG medialab, CC BY-SA 3.0 IGO)

  • Turbulence Heating Observer (THOR), dedicato allo 

  • studio del vento solare e alle turbolenze del plasma

  •  nello spazio, e X-ray Imaging Polarimetry Explorer

  •  (XIPE), un telescopio spaziale dedicato alla polarimetria 

  • nei raggi X. Ariel verrà posizionato nel punto lagrangiano

  •  L2, a circa 1 milione e mezzo di chilometri dalla Terra, 

  • e osserverà per almeno quattro anni con il suo telescopio

  •  principale da un metro di diametro. Nell'occhio di Ariel 

  • ci saranno le atmosfere dei pianeti extrasolari, di cui

  •  verrà fatta un'analisi chimica con una precisione senza 

  • precedenti, per capire più a fondo quali sono le condizioni 

  • necessarie alla formazione dei pianeti e allo sviluppo della vita.

  •  ma diversi aspetti non sono ancora chiari, ad esempio 

  • quale sia il legame con la stella principale, e quali siano

  •  i rapporti fra la composizione chimica di un pianeta e 

  • quella dell'ambiente circostante. Si tratta di problemi 

  • ancora da risolvere e che ci aiuteranno a capire meglio

  •  la formazione e l'evoluzione dei pianeti.

  •  le atmosfere dei pianeti extrasolari. E' questo il profilo

  •  dell'Atmospheric Remote-sensing Infrared Exoplanet 

  • Large-survey (Ariel), la nuova missione di classe 

  • media selezionata dall'Agenzia Spaziale Europea 

  • nell'ambito del programma spaziale Cosmic Vision.

  •  Ariel ci aiuterà a capire più in dettaglio i meccanismi

  •  alla base della formazione degli esopianeti, analiz-

  • zando in particolare le atmosfere dei pianeti extrasolari.

 
 
 

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