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Messaggi di Maggio 2018

Marcel Aymé........

Post n°1672 pubblicato il 24 Maggio 2018 da blogtecaolivelli

 Fonte: Internet

ALL SECTIONS   SEARCHEXPLICIT / FICTIONIl più grande scrittore francese di cui non avete sentito parlaredi CARLO MAZZA GALANTI12.07.2016
Marcel Aymé  Chi si ricorda di Marcel Aymé? Autore di culto per lettori non convenzionali, in Italia erano stati tradotti solo i suoi libri per ragazzi. Finalmente ora arriva un'antologia dei suoi racconti umoristici e fantastici: Martin il romanziere (L'orma editore)Autore di culto per lettori esorbitanti, fonte di ispirazione per artisti e scrittori dai gusti non convenzionali, Marcel Aymé si è ritagliato nel corso dei decenni una solida nicchia di classico minore. Les contes du chat perché sopravvivono in mezzo mondo tra gli scaffali della letteratura per ragazzi, la sua opera intera è stata canonizzata dai volumi della Pléiade e uno dei suoi personaggi più noti continua ad attraversare un muro davanti a quella che fu la sua casa a Montmartre, oggi diventata una piazza che porta il suo nome: turisti e passeggiatori occasionali toccano gli arti metallici, stringono la lunga mano sottile che sporge lustrandone il bronzo, fissano gli indecifrabili occhi sporgenti, ipertiroidei, del volto a cui lo scultore ha voluto dare le sembianze dello scrittore. Pochi di loro saprebbero associare Marcel Aymé ad altro che a un autore di fiabe strampalate o a qualche vecchio e ingiallito ricordo di manuali scolastici, eppure fu uno dei più prolifici e originali scrittori di una generazione che conta tra le sue fila alcuni dei maggiori letterati del Novecento.
Uomo di teatro, letteratura, cinema, all'apice della carriera Aymé godeva, intorno agli anni Cinquanta, del plauso popolare e della stima di molti critici e colleghi. Mai accondiscese tuttavia all'insidioso privilegio di diventare una figura "istituzionale". Nel 1949 rifiutò la Legion d'onore e nel 1959 fu perfino invitato a entrare nel novero esclusivissimo dei membri dell'Académie française, ma avendola già discretamente presa in giro in alcune sue opere scelse di declinare l'invito: «Non vedo quale piacere ci possa essere nel far parte di una società dove si incontra una quarantina di persone che non si è scelto di frequentare» scrisse alla sorella. Ingessatura e pompa istituzionale mal si accordavano allo spirito dissacrante e corrosivo di uno scrittore che probabilmente avrebbe più volentieri accettato un invito al Collège de 'Pataphysique. Cresciuto tra il Giura e la Franca Contea, Aymé si portava appresso un bagaglio di provincialismo orgogliosamente minoritario, insieme a un'immediatezza di modi (e scrittura) che mal si conciliava coi toni sostenuti e ambiziosi dell'intellighenzia parigina o con l'enfasi del gaullismo nazionale.
Allergico a combriccole e consorterie mondane, poco incline a bazzicare la bohème dorata di artisti e scrittori, Aymé fu spirito libero e anticonformista, animato da un bisogno perfino autolesionista di indipendenza. La sua tendenza ad abbracciare cause ideali idiosincratiche, poco politicamente inquadrabili, e comunque distanti dall'agenda degli intellettuali impegnati non contribuì a procurargli la notorietà che reclamavano le sue opere. Alle epurazioni selvagge dell'immediato dopoguerra è dedicato uno dei suoi romanzi più apprezzati: Uranus. Inutili furono i suoi sforzi per salvare Robert Brasillach dalla condanna a morte. Costante e coerente fu la sua ferma opposizione alla pena capitale - abolita in Francia solo nel 1981 - e oggetto di un'opera teatrale che all'epoca fece scalpore e ancora oggi è spesso rappresentata sulle scene d'oltralpe: La tête des autres. Nel 1935, fino a quel momento considerato scrittore di sinistra, firmò un manifesto insieme a una nutrita schiera di autori di destra (tra cui lo stesso Brasillach) mosso da motivazioni tangenziali rispetto ai contenuti del documento, e a dispetto della propria totale estraneità al razzismo e alle bieche rivendicazioni identitarie espresse in quelle righe (che oggi - e presumibilmente anche allora - appaiono decisamente impresentabili). Durante l'occupazione non si peritò di pubblicare racconti su una rivista autorizzata dal regime, «Je suis partout», senza peraltro, ancora una volta, condividere l'orizzonte politico dei suoi animatori. Furono scelte di questo tipo, che oggi sembrano mosse più da una sorta di sprezzo anti-ideologico che da convinzioni concrete, ad alienargli definitivamente la simpatia e il patrocinio di figure ingombranti (e influenti) come Sartre o Aragon. A ciò si aggiungano amicizie e frequentazioni considerate poco raccomandabili, come l'antisemita Céline. Quest'ultimo stimava Aymé e lo accolse regolarmente a Meudon nella stretta cerchia dei suoi confidenti. Dal canto suo, Aymé fece il possibile per riabilitare agli occhi del mondo letterario quello che considerava «il più grande scrittore francese vivente e forse il più grande lirico che abbiamo mai avuto» (a lui è dedicato un rapido e ironico cammeo ne La carta del tempo, uno dei racconti di questa raccolta).
Ad ogni modo, ideologie e lotte politiche non furono un elemento fondante della sua poetica: «I miei racconti non sono politici» puntualizzava. Non che rifiutasse qualsiasi forma di critica o conflitto, al contrario, ma perlopiù nella veste della satira e di una acuminata "etnografia" letteraria, in una spontanea inclinazione verso l'ingenua frugalità del popolo urbano e provinciale, nella messa a distanza umoristica dei tic e delle pose tipiche della borghesia parigina dell'epoca. Poco a che fare, tutto sommato, con l'etichetta di «anarchico di destra» che qualcuno volle affibbiargli suscitando il suo divertito dissenso.

Parigi, Place Marcel Aymé. La statua del Passamuri, protagonista di una raccolta di racconti dello scrittore francese (Le Passe-muraille, 1943)AFPAncora oggi, nell'affollato pantheon degli autori francesi novecenteschi, Aymé paga lo scotto di una non facile integrazione nella società artistica del tempo, volutamente propiziata dal quel modo di recitare la parte «del tipo muto, piuttosto incolto, sperduto nel mondo letterario», come lo descrive il suo biografo Michel Lécureur. Passate le temperie ideologiche del dopoguerra, Aymé si offre alla lettura come un autore umilmente e genialmente "pop", lontano dai fasti e dalle paludi delle sacre lettere.
Oltre ad aver firmato diciassette romanzi, una decina di pièce teatrali, molti articoli e qualche sceneggiatura cinematografica, Marcel Aymé è stato un prolifico autore di novelle. Esclusi i Contes du chat perché, sono sette le raccolte pubblicate in vita, tra il 1932 e il 1967, a cui si aggiunge un'ultima pubblicata postuma nel 1987 che raccoglie testi inediti e sparsi. La ricezione italiana dello scrittore non è si è spinta molto oltre le numerose edizioni dei Contes du chat perché in versione integrale o selezionati in libretti illustrati per un pubblico esclusivamente infantile. L'unico romanzo che ha goduto di una qualche attenzione editoriale è stato La jument verte, tradotto in diverse edizioni tra il 1952 e il 2006. Alcune pièce teatrali furono tradotte tra gli anni Cinquanta e Sessanta e poche novelle appaiono in antologie di racconti fantastici o umoristici come la garzantiana Umoristi del Novecento del 1967, con prefazione di Attilio Bertolucci. Le passe-muraille, unica raccolta tradotta per intero, è stata pubblicata nel 1994 dalla Biblioteca del Vascello.
I racconti proposti in questa antologia (Martin il romanziere, L'orma editore, 2016) sono tratti da quattro raccolte: Derrière chez Martin (1938), Le passe-muraille (1943), Le vin de Paris (1947), En arrière (1950), tutti usciti in Francia per i tipi di Gallimard. La forma breve fu particolarmente congeniale alla versatilità narrativa di questo autore dotato di un'immaginazione debordante, una propensione sfrenata alla continua invenzione di soggetti, situazioni, personaggi e sviluppi imprevedibili. Il gusto per la parabola beffarda, per l'apologo urticante, per la fetta di vita virata al surreale è palpabile e pienamente godibile in ogni singolo racconto. Un'inventiva certamente espressa anche nei romanzi, complessivamente molto diversi tra loro, ma è nelle storie brevi che Aymé sembra dare libero corso a tutta la sua incontenibile libertà immaginativa e non pare esagerato considerarlo tra i maggiori novellieri francesi del ventesimo secolo. Alla fulminea capacità di caratterizzare personaggi in pochi tratti, alla disinvoltura con cui sa muoversi tra atmosfere, contesti estremamente diversi, fa da contraltare uno stile relativamente piano, trasparente, certamente sorvegliato ma poco incline alla sofisticazione, poco descrittivo e molto più affidato all'uso magistrale del dialogo (da qui la naturalezza con cui negli anni Cinquanta e Sessanta dedicò sempre più spazio alla produzione teatrale). Ciò non toglie che, spinto da un onnivoro e inappagato eclettismo narrativo, Aymé giungesse saltuariamente ai confini della parodia e della sperimentazione verbale: non mancano tra le sue pagine cenni di pastiche e caricature stilistiche dai tratti simbolisti, naturalisti, modernisti, esistenzialisti, noir.
Di Aymé è stata spesso elogiata la bravura nel rappresentare spaccati sociali: la campagna, la provincia, la città. Eppure il suo mondo, i suoi quadri di costume e i suoi personaggi così immersi nel loro tempo esibiscono una fisionomia piacevolmente familiare. Aymé è stato un moralista meno nel senso normativo del termine (come chi si eleva, per stigmatizzarli, al di sopra dei vizi comuni) che per l'attenzione costante con cui ha scandagliato e messo a nudo la vita interiore dei suoi personaggi, sollecitando reazioni morali alle situazioni più o meno anomale ideate nei suoi racconti. Ne emerge un'umanità nella quale, fatte le dovute distinzioni ambientali, è ancora facile rispecchiarsi. L'abilità di quei piccoli borghesi nell'escogitare ingegnosi accomodamenti della coscienza è forse mutata nei valori di riferimento ma non nella sostanza psicologica, e simili ai nostri sono gli abissi nei quali scivolano tra un raggiro e un'autoassoluzione. L'invidia diffusa e certe piccole malignità che ricorrono tra queste pagine somigliano sorprendentemente a quelle che la socialità contemporanea ha moltiplicato e reso ancora più infide e sfuggenti. La vanagloria, grande e luminosa presenza in quell'autentica radiografia degli spiriti vanesi che emerge da questi racconti, continua a parlarci di noi: gli artisti e sedicenti tali che incontriamo nella Montmartre dello scrittore non sono molto diversi dagli attuali creativi di una neo-bohème che imperversa.

Marcel AyméAFPSono molti gli spunti attualizzanti che affiorano spontanei alla lettura di questi racconti, spesso incoraggiati da uno degli aspetti che si sono privilegiati nella presente selezione, ovvero la componente fantastica e a tratti precocemente fantapolitica che caratterizza una buona parte dei testi narrativi di Aymé. La carta del tempo è certamente ispirato ai razionamenti della guerra ma sembra proiettarsi in pieno produttivismo neoliberista e nella progressiva mercificazione del tempo privato. La lotta generazionale di Ricaduta pare alludere alle nostre società giovanilistiche e figurare un conflitto che forse deve ancora avverarsi. Mentre davanti a Martin il romanziere si deve convenire che la metafiction non è affatto un'invenzione del postmodernismo americano.
Per quanto riguarda la tecnica narrativa, l'aspetto forse più sorprendente è l'abilità con cui, una volta assunto un postulato di ordine fantastico, il narratore sa trarne in poche pagine una serie spiazzante di conseguenze verosimili. La sintassi fantastica ne ricava una logica paradossalmente stringente, la storia si dipana con coerenza e semplicità materializzando scenari che, seppure basati su presupposti del tutto assurdi, si reggono perfettamente in piedi. Lo scrittore riesce insomma a far coincidere con esattezza, ed è forse una delle sue cifre più caratteristiche, l'invenzione fantastica della struttura narrativa con il materiale quotidiano, realistico e sociologico à la Zola, delle sue ambientazioni predilette. In tal senso si potrebbe forse definire quello di Aymé come un realismo fantastico, o un realismo magico ante litteram. Ovviamente la deformazione fantastica non si limita ad assolvere la funzione di semplice cornice, e lo straniamento che ne deriva è ottimo carburante per le più spericolate interpretazioni del lettore contemporaneo. Che dire ad esempio, in questi tempi tornati a essere popolati di supereroi e superpoteri, delle "innumerabili" Sabine? Aymé è riuscito negli anni Quaranta ad adattare un topos del fantastico dalle radici mistiche (l'ubiquità) in una sorta di commedia sexy dove è il desiderio femminile che prende la strada di un nomadismo proto-deleuziano. Qui come altrove l'explicit moralista ha tutta l'aria di una burla, di una discreta perversione dei cliché della coscienza e della narrativa edificante.
È evidente, in buona parte dei racconti qui presenti (e in molte altre pagine dell'autore), un innato e spontaneo libertinismo, un interesse di matrice boccaccesca o rabelaisiana per la sensualità creaturale dell'uomo espressa nella sua dimensione più grottesca e inevitabilmente comica. In quasi ogni racconto il piacere si manifesta con mirabile candore, sotto la specie peccaminosa della lussuria o sotto quella della più ingenua e innocente sensibilità erotica. Nei frequenti soprassalti temporali dei racconti di Aymé, ricorre il desiderio sessuale sotto spoglie di ogni genere ed età: uomini assatanati e donne fameliche, ma anche vecchie bramose e perfino pargoli e pargole attraversati da irrefrenabili impulsi. La voluttà e la guerra dei sessi sono i propulsori di molte delle vicende che vengono qui narrate con un allegro cinismo tale da affilare il pensiero e rinfrescare l'animo, ma che al tempo non mancò di sollevare cipigli e scatenare ire tra i sorveglianti della pubblica decenza. L'antibigottismo e l'anticlericalismo di Aymé non furono d'altronde mai disposti al compromesso, e la religione (probabilmente anche in virtù del suo corredo di elementi fantastici: angeli, aureole, oltremondi) è spesso al centro delle novelle migliori e più dissacranti.
Pur avendo scandalizzato molti dei suoi contemporanei, Aymé non sembra animato dal desiderio della provocazione frontale e da quell'accanimento antiborghese che tanta parte ha avuto nella letteratura e nell'arte francesi. Al di là della sua originalissima vena fantastica, ciò che resta alla fine della lettura di queste storie è il senso di una profonda e generosa solidarietà verso i propri simili, la qualità umana di una voce e di uno sguardo mai alteri o supponenti. Aymé recluta i suoi personaggi tra gli ultimi, i perdenti, i fanfaroni, i qualunquisti e i deboli di spirito, tutta un'umanità antieroica e gogoliana, schiacciata dagli eventi, ostaggio del conformismo e di forze sociali pressanti alle quali non sa opporre che reazioni goffe e occasionali, lievi e perlopiù egoistici sussulti di rivolta. Eppure non c'è traccia di disprezzo da parte dello scrittore. Lo si direbbe troppo affezionato ai difetti dell'essere umano per trattarli con sufficienza, troppo consapevole della forza che la sua ispirazione ricava dalla linfa della medietà. Il debito che l'artista contrae con il proprio soggetto, qualunque ne sia la statura morale, Aymé lo risarcisce con la leggerezza empatica di una scrittura certamente affilata e sardonica, ma anche affabile e gentile (e vengono in mente autori come Alphonse Allais o quel Raymond Queneau che infatti lo conobbe e apprezzò). Alla pochezza dei vari Martin - nome feticcio ricorrente in molte delle sue novelle - si accompagna la coscienza che lo sguardo più acuto non proviene da chi frequenta pulpiti o abissi, bensì da colui che sa muoversi raso terra, sulla superficie del mondo, nella sua aurea mediocrità.
Pubblichiamo la prefazione al libro di Marcel Aymé, Martin il romanziere (L'orma editore, 2016).Traduzione e cura di Carlo Mazza Galanti216 pagine 16 euro

 
 
 

Altra opera di Anatole France...

Post n°1671 pubblicato il 24 Maggio 2018 da blogtecaolivelli

Fonte: risorse Internet

LA RIVOLTA DEGLI ANGELI

La rivolta degli angeli

 di una nobile dinastia conservatrice ed ex magistrato,

è proprietario di una enorme e prestigiosa biblioteca

di quasi 500.000 volumi nel campo delle scienze naturali

, morali, filosofiche e religiose. Una collezione iniziata da

un suo antenato - il barone Alexandre d'Esparvieu - e che

in passato aveva anche rischiato di finire dispersa. Ma che

ora occupa un intero piano della elegante dimora di famiglia,

nel centro della città. Conservatore della bilioteca e archivista

è dal 1895 un certo Julien Sariette, uomo di origini modeste

ma preciso e cocciuto. Ha catalogato ed etichettato tutti i

volumi (purtroppo seguendo un criterio che solo lui è in

grado di decifrare) e li ama di un amore geloso. Tutte le

mattine alle 7 Sariette è alla sua scrivania in mogano, in

biblioteca, e si alza solo a mezzogiorno in punto per un

breve pranzetto in trattoria, al ritorno dal quale lavora

fino a sera: poi una cena frugalissima, una partita a domino,

una passeggiata e via a nanna. Durante la sua gestione della

biblioteca nemmeno un foglio è andato perso, e Sariette è

riluttante persino a permettere la consultazione dei volumi,

come fossero figli che ha la missione di proteggere dagli

estranei. Figuratevi la sua costernazione quando la mattina

del 10 settembre, aprendo come sempre la biblioteca alle 7

precise, l'uomo trova una quantità di libri - tra i quali preziose

edizioni antiche della Bibbia o del Talmud, trattati rabbinici e

manoscritti armeni - gettati alla rinfusa, spiegazzati, ammucchiati

senza garbo. Orrore! Chi può essere responsabile di un tale

scempio? Chi si è introdotto in biblioteca di notte, e come ha

fatto ad andare e venire, se la porta e le finestre erano e

sono chiuse? Forse il vecchio domestico Hyppolite? O Maurice,

il giovane viziato e vizioso rampollo degli d'Esparvieu? Ma anche

se fosse (e appare assai improbabile), che interesse avrebbero

quei due per testi del genere? Il misterioso fenomeno si ripete

ancora e ancora nei giorni seguenti: Sariette ha i nervi a pezzi,

e anche passare la notte in biblioteca a fare la guardia non lo

aiuta a risolvere l'enigma. Nel frattempo Maurice ha avviato una

relazione clandestina con la bella e insoddisfatta Madame des

Aubels: un sabato pomeriggio, mentre i due sono impegnati in

un languido amplesso, in camera da letto appare un uomo nudo.

E, cosa ancora più incredibile, costui afferma di essere Arcade,

l'angelo custode di Maurice, e annuncia lo scoppio di una rivolta

contro Dio, anzi contro Ialdabaoth, il crudele demiurgo che

l'umanità crede suo dio...

Messo all'indice dal Vaticano nel 1920 e insignito del Nobel per

la Letteratura nel 1921 - ah, i bei tempi dell'isolamento pre-

Concordato della Chiesa cattolica! - Anatole France in questo

romanzo usa lo gnosticismo (l'antica 'eresia' cristiana secondo

la quale - molto sinteticamente - il reale è uno stato di decadenza

del divino che va superato ed è dominato da una semi-divinità

malvagia, non dalla Provvidenza) come pretesto per tratteggiare

un grande affresco sociale e politico. Alla vigilia del massacro

della Grande Guerra, le aristocrazie e le elite economiche, perse

nella loro visione antiquata, decadente, reazionaria e criminale

del mondo stanno per precipitare l'Europa in un abisso senza

fondo, e la ribellione degli angeli che si confondono tra la piccola

borghesia e i bohemienne, innamorati del popolo (e della sua

sensualità) è una metafora libertaria fin troppo evidente.

La narrazione di France non cade nella trappola della magniloquenza

- sempre dietro l'angolo con una trama così - e si manrìtiene

leggera e ironica, con qualche sprazzo di erotismo.

Meridiano Zero ripropone l'edizione italiana del 1928

(con le deliziose illustrazioni originali di Carlègle), impreziosendola

con una prefazione di Roberto Saviano che restituisce a questo

romanzo il ruolo centrale che gli compete nel panorama letterario

della prima metà del '900. 

 

 

 
 
 

Le opere di Anatole France....

Post n°1670 pubblicato il 24 Maggio 2018 da blogtecaolivelli

Fonte: risorse di rete

Gli dèi hanno sete di Anatole France

1912. Anatole France, di lì a poco Nobel per la Letteratura (1921), pubblica una lettura scolastica dei giorni dell'odio e della decadenza della Rivoluzione Francese: non snatura gli eventi, ma li semplifica cancellando, per quanto possibile, contrasti e sfumature. L'intento è abbastanza limpido: prendere le distanze dalla violenza, dal fanatismo, dagli sciagurati eccessi dei giorni del Terrore. Un pizzico di approfondimento delle dinamiche psichiche dei personaggi avrebbe senza dubbio assicurato un salto di qualità dell'opera, così costretta, a distanza di un secolo dalla pubblicazione, a un'esistenza preclusa al grande pubblico e limitata agli studiosi e agli appassionati del genere (romanzo storico). "Gli dèi hanno sete" è un romanzo manierista, d'un'eleganza scabra e semplice, appena sporcata dalla ripetuta ed enfatica lettura della ossessa psiche del protagonista. Poco per poter ambire all'immortalità; abbastanza per assicurare un intrattenimento discreto e relativamente disimpegnato.

Sono molto costernata dall'apprendere che Anatole France è stato praticamente dimenticato. Le ristampe dei suoi libri sono come mosche bianche, nonostante in vita abbia avuto un grande successo e nel 1921 abbia pure vinto il Nobel per la letteratura. Era anche un autore "pericolosamente" ateo, visto che la Chiesa cattolica mise all'indice la sua intera produzione letteraria.

L'oblio pare davvero una sorte ingrata per chi ispirò addirittura Proust, eppure France pare non filarselo più nessuno. Che peccato: a me Gli dei hanno seteha colpito molto e mi sento di consigliarlo a chiunque voglia leggersi un romanzo sulla Rivoluzione francese o approfondire il tema del fondamentalismo.

Gli dei hanno sete, infatti, ci racconta dell'evoluzione (o forse sarebbe meglio dire: involuzione) di una mente integralista, quella di Evariste Gamelin, che, da semplice cittadino innamorato della rivoluzione, diventerà uno dei più spietati giurati del Tribunale rivoluzionario, contribuendo a mandare a morte in maniera arbitraria centinaia di persone.

L'inizio è lento e un pizzico noioso: si fa fatica a entrare in sintonia con la storia, dato che il protagonista è così smaccatamente odioso, ma, a mano a mano che entrano in scena gli altri personaggi, ci si ritrova a divorare le pagine.

Un personaggio molto particolare è Elodie, la fidanzata di Evariste. Di primo acchito sembra la tipica fanciulla innamorata e sospirosa, ma, proseguendo nella lettura, ci si rende conto che in qualche modo si tratta di una sorta di personificazione della Francia sotto il Terrore. Elodie, infatti, aborre ciò che Evariste è diventato, lo spietato giurato che manda i fantomatici nemici della Repubblica a morte, ma è anche perversamente eccitata da questo spettacolo disumano.

Il personaggio migliore del romanzo, e che forse rispecchia il pensiero dell'autore, è Maurice Brotteaux, filosofo epicureo sempre in compagnia del suo Lucrezio, ateo e amante della vita e delle donne. La maggior parte dei momenti memorabili del romanzo lo vedono come protagonista. Fin dall'inizio, si dimostra assai consapevole dove finirà per condurli il Terrore: "L'umanità si fabbrica i suoi dei copiando i tiranni, e voi, che ripudiate l'originale, serbate la copia! [...] Io ho amore per la ragione, ma non ne ho per il fanatismo. La ragione ci guida e ci illumina, ma quando ne avrete fatto una divinità, essa vi accecherà e vi indurrà al delitto."

Una menzione d'onore è infine meritata dalla sorella di Evariste, Julie: ragazza ribelle e in rotta con la famiglia, sarà l'unica a manifestare pubblicamente il suo disprezzo per il fratello moralista e sanguinario. Julie è un personaggio molto forte e, sebbene compaia pochissimo e quasi alla fine, di certo lascia il segno nella mente del lettore.

"Scellerato! Mostro! Assassino! Colpiscimi, vigliacco! Sono una donna! Fammi arrestare, fammi giustiziare, Caino! Sono tua sorella."
E gli sputò in faccia.

 
 
 

Il giglio rosso di Anatole France....

Post n°1669 pubblicato il 24 Maggio 2018 da blogtecaolivelli

Fonte: risorse di rete

Il giglio rosso di Firenze

Una ricca, giovane e bella signora, Thérèse, figlia di un fortunato finanziere di umile origine, Montessuy, è spinta dal padre a sposare il conte Martin-Bellème, un aristocratico tutto preso dalla politica (è parlamentare preconizzato ministro). Il matrimonio, contratto senza amore per ragioni di promozione sociale, fallisce. Thérèse ha una relazione clandestina con Robert Le Ménil. Indispettita dalla decisione di Robert di lasciare Parigi per partecipare a una caccia alla volpe, Thérèse accetta l'invito di recarsi in Italia fattole da Vivian Bell, una poetessa inglese sua amica che vive a Fiesole.

Thérèse si reca perciò in Toscana accompagnata dalla virtuosa M.me Marrnet et dal vecchio poeta ribelle Choulette. A Firenze (il "giglio rosso" del titolo fa riferimento al giglio di Firenze) Thérèse incontra Jacques Dechartre, uno scultore che Thérèse aveva già conosciuto a Parigi, e i due si innamorano e si abbandonano all'ebbrezza di un grande amore. Robert, che ha intuito qualcosa, giunge in Italia e scongiura invano Thérèse a ritornare da lui. La passione di Thérèse e di Jacques continua a Parigi. Thérèse è felice ma Jacques, geloso e violento, conosciuto il legame che Thérèse aveva con Robert, diventa sempre più sospettoso finché non rompe il legame con la donna.

Genesi dell'opera e critica

Anatole France scrisse una prima stesura di questo romanzo, a cui diede il titolo di "La Terre des morts" ("La terra dei morti") nel 1889. La versione finale, col titolo definitivo di Le lys rouge apparve a puntate sulla Revue de Paris da aprile a giugno 1894. Il romanzo fu pubblicato in volume nel mese di luglio dello stesso anno dall'editore Calmann-Lévy.

La pubblicazione nel 1984 delle Lettres intimes (Lettere intime) scambiate da Anatole France e dalla sua amante Léontine Lippmann, meglio nota come Madame Arman de Caillavet, non lasciano dubbi sull'ispirazione di alcuni episodi del romanzo riconducibili al legame sentimentale fra i due. Anche altri personaggi del romanzo sarebbero ispirati a personaggi reali; per esempio, nel personaggio del poeta Choulette è stata vista la figura di Paul Verlaine

Il successo del libro fu travolgente, soprattutto presso il pubblico femminile, testimoniato d'altronde dalle centinaia di edizioni in Francia e dalle numerose traduzioni nelle varie lingue. Un sondaggio svolto nel 1956 su Le Figaro littéraire fra i letterati su quali fossero i più grandi romanzi d'amore apparsi in Francia fra il 1871 e il 1939 mostrò come Il giglio rosso fosse il più citato.

 
 
 

Anatole France........

Post n°1668 pubblicato il 24 Maggio 2018 da blogtecaolivelli

Risorse Internet

BiografiaLa giovinezza

Anatole Thibault nacque in un quartiere parigino di editorilibrai e antiquari al numero 19 del quai Malaquais dove il padre François Thibault, originario della Beauce e già sottufficiale monarchico, si faceva chiamareFrance Libraire e aveva il proprio negozio di libri. Da lui Anatole prese lo pseudonimo di France con il quale è soprattutto noto.

Ricevette un'istruzione classica presso l'Institution Sainte Marie prima e al Collège Stanislas poi, uscendone nel1862 senza aver brillato e ottenendo il baccellierato nel 1864. Fin da giovanissimo aiutò il genitore nel suo commercio, prendendo gusto alla conoscenza erudita e avendo modo di conoscere nella libreria paterna, specializzata in opere e documenti sulla Rivoluzione francese, tanti studiosi i quali, con la loro erudizione, lo scetticismo ironico e l'umorismo disincantato, saranno di modello ai personaggi dei suoi romanzi.

Già dal 1863 iniziò a collaborare a riviste bibliografiche, come il Bullettin du bouquiniste, lo Chasseur bibliographe e l'Intermediaire des chercheurs et des curieux, finché non fu assunto nel 1867 dall'editore parigino Lemerre come lettore, ossia con l'incarico di proporre e curare la pubblicazione di nuove opere; al1868 risale il suo primo scritto, un saggio su Alfred de Vigny.

In occasione della rivoluzione comunarda non prese posizione, preferendo allontanarsi da Parigi, dove rientrò solo alla fine del 1871. Cominciò a scrivere poesie, due delle quali furono pubblicate nel 1872 nel Parnasse Contemporain, cui fece seguito, l'anno dopo, il volume di poesie, di fattura parnassiana, i Poèmes dorés (Poemi dorati). Nel 1875 curò la terza antologia poetica de Le Parnasse contemporain, e l'anno dopo, tratto da unaballata di Goethe, pubblicò il dramma in versi Les noces corinthiènnes (Le nozze di Corinto).

Raggiunta una stabile posizione economica con l'assunzione alla Biblioteca del Senato nel 1876, poté sposare l'anno successivo Marie-Valérie Guérin de Sauville, dalla quale avrà nel 1881 la figlia Susanne. Dopo la pubblicazione, nel 1879, dei due racconti Jocaste e Le chat maigre (Il gatto magro), nel 1881 ottenne il primo grande successo con la pubblicazione del romanzo Le crime de Sylvestre Bonnard membre de l'Institut (Il delitto dell'accademico Sylvestre Bonnard), premiato dall'Académie française.

Il successo

Scrittore ormai affermato e ricercato nei salotti, legato di amicizia con Ernest Renan, pubblicò nel 1882 Les désirs de Jean Servais (I desideri di Jean Servais) e nel 1883 Le livre de mon ami (Il libro del mio amico) e collaborò comecritico letterario a diversi quotidiani. Il risultato di queste collaborazioni furono i quattro volumi de La Vie littéraire pubblicate dal 1888 al 1893 dove egli,classicista, non esitò a polemizzare apertamente con il creatore del naturalismoÉmile Zola e con il poeta parnassiano Leconte de Lisle, come lui bibliotecario del Senato e dal quale fu perfino sfidato a duello.

Intanto il suo matrimonio conobbe una grave crisi e France iniziò, nel 1888, una relazione con Arman de Caillavet, una donna non più giovane che sembra aver avuto un importante influsso sull'orientamento delle proprie idee politiche; da unprogressismo illuminato di matrice settecentesca lo scrittore si orientò infatti verso le posizioni socialiste che avevano allora, in Francia, il più popolare rappresentante nella figura di Jean Jaurès.

Nel ventennio seguente France realizzò le opere di maggiore qualità: nel 1890 pubblicò Thaïs (Taide), la vicenda di una prostituta convertita al cristianesimo dal monaco eremita Pafnuzio che, preso da un'insana passione per Taide, quando questa ha ormai rinnegato il suo passato e vive santamente, finisce per dannare la sua anima; nel 1893 appare La rôtisserie de la reine Pédauque (La rosticceria della regina Piedoca), una sorta di romanzo filosofico che ebbe un seguito, quello stesso anno, con Les opinions de M. Gérôme Coignard.

Insignito della Legion d'onore, celebre in tutta la Francia, amante dell'antichità classica, visitò anche l'Italia e proseguì la produzione letteraria con il romanzo Le lys rouge (Il giglio rosso) del 1894 e con i racconti Il pozzo di Santa Chiara (1895), mentre ne Le jardin d'Épicure (Il giardino di Epicuro) affrontò con ironia temi filosofici, volgendosi a dimostrare quanta irrazionalità vi fosse nella società contemporanea.

L'impegno politico

Divenuto accademico di Francia nel 1896 al posto di Ferdinand de Lesseps, iniziò a scrivere la tetralogia dellaStoria contemporanea (1897-1901), quattro romanzi - L'orme du Mail (l'olmo del viale), Le mannequin d'oisier (il manichino di vimini), L'anneau d'améthyste (L'anello d'ametista) e M. Bergeret à Paris (Bergeret a Parigi) - che hanno per protagonista il signor Bergeret, modesto e disilluso, ma colto e arguto professore di un liceo di provincia, attraverso i cui occhi France descrive la società del suo tempo, le sue miserie e le sue ipocrisie, mantenendo tuttavia fiducia nella possibilità del riscatto e dell'elevamento umano.

L'ultimo volume della serie è dedicato all'affare Dreyfus, il celebre caso giudiziario dell'ufficiale francese ebreo, accusato ingiustamente di spionaggio e deportato alla Caienna, sul quale la Francia si divise in colpevolisti - i clericali e inazionalisti - e innocentisti, a capo dei quali fu Émile Zola, che denunciò il complotto ai danni di Dreyfus, con il celebre articolo «j'accuse», ottenendo il sostegno di Anatole France, che ruppe ogni rapporto con intellettuali colpevolisti come François CoppéePaul Bourget e Maurice Barrès.

Da quell'episodio l'impegno politico di Anatole France si fece più stringente: plaudì alla Rivoluzione russa del 1905 e condannò la repressione zarista; con laVita di Giovanna d'Arco, del 1908, attaccò uno dei miti cattolici e nazionalistici, quello della pulzella d'Orléans; nello stesso anno pubblicò L'île des Pinguins, una satira sulla storia e i destini della Francia, e nel 1909, oltre a Les contes de Jacques Tournebroche e Les sept femmes de Barbebleu, raccolse i suoi scrittipolemici nel tre volumi di Vers les temps meilleurs.

Nel gennaio 1910 morì la sua compagna, la signora de Caillevet. France pubblicò molte meno opere ma nel1912 ottenne un vero trionfo con Les Dieux ont soif (Gli dei hanno sete), ambientato ai tempi della Rivoluzione francese, dove al fanatico terrorista Evariste Gamelin, France contrappone il saggio e scettico Brotteaux des Ilettes. Dopo i saggi de Le génie latin (Il genio latino) del 1913, con La révolte des anges (La rivolta degli angeli), del 1914, si concluse l'impegno narrativo dello scrittore: protagonisti sono gli angeli del mito e il loro capo, Satanaarcangelo benigno e generoso, il quale rinuncia a dare la scalata al cielo per sostituirsi a Dio, perché, dice, «la guerra genera la guerra e la vittoria la sconfitta. Il Dio vinto diventerà Satana, Satana vincitore diventerà Dio. Possa il destino risparmiarmi questa sorte spaventosa! Io amo l'inferno che ha formato il mio genio, amo la terra dove ho fatto un po' di bene, se è possibile farne in questo mondo terribile dove gli esseri non esistono che per l'assassinio».

Si ritirò nella sua residenza di campagna della Béchellerie, presso Tours, con la moglie Emma Laprévotte - già cameriera della signora de Caillevet - e, mentre giustificava la guerra della Francia contro la Germania, approvò la Rivoluzione russa del 1917 e scrisse libri di memorie, come Le petit Pierre (Pierino) nel 1918 e La vie en fleur(La vita in fiore) nel 1922, dopo aver ottenuto, nel 1921, il premio Nobel per la letteratura.;

Anatole France era ateo. Nel 1920 la Chiesa cattolica mise all'indice tutte le sue opere. Morì nel 1924, all'età di 80 anni, ed ebbe grandiosi funerali di Stato a Parigi. È sepolto nel cimitero di Neuilly-sur-Seine.

 
 
 

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