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Messaggi del 27/03/2020
Post n°2656 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: Focus Sorpresa, i Neanderthal mangiavano pesce Trovati resti di cibo di mare in una grotta abitata da Neanderthal 80-100.000 anni fa circa, in Portogallo: cade l'ipotesi che la dieta marinara fosse essenzialmente tipica dei Sapiens.Illustrazione - Una famiglia di Neanderthal cucina la selvaggina in una grotta : una ricerca ha scoperto che mangiavano anche cibo di mare. Gli uomini di Neanderthal mangiavano le cozze alla brace. E anche le vongole, i granchi, le orate, i cefali. In una grotta a sud di Lisbona, un gruppo internazionale di archeologi ha scoperto che la dieta dei nostri cugini preistorici non si basava solo sulla selvaggina cacciata sulla terraferma. Il menu, invece, comprendeva anche cibi di origine marina. La sc operta, pubblicata su Science, è rivoluzionaria: perché modifica l'immagine che avevamo di questi ominidi, ritenuti a torto meno intelligenti e più arretrati rispetto ai Sapiens. Fino a oggi, infatti, i paleoantropologi erano convinti che la dieta a base di pesce - ricca di omega 3 e di altri acidi grassi che favoriscono un buon sviluppo del cervello - avesse permesso ai Sapiens di potenziare le proprie capacità cognitive, il linguaggio e il pensiero astratto, prevalendo così sull'Homo neanderthalensis. Invece, almeno dal punto di vista della dieta (e degli insediamenti sulle coste) i Neanderthal lottavano ad armi pari coi Sapiens. L'ingresso della grotta di Figueira Brava (Portogallo), oggi a picco sul mare: circa 100mila anni fa distava un km dalla spiaggia ed era abitata da una comunità di uomini di Neanderthal. | PEDRO SOUTO La scoperta è frutto di 10 anni di lavoro da parte di un gruppo di archeologi di varie nazionalità guidato dal professor João Zilhão (Università di Barcellona, Spagna) E vede fra i partecipanti anche un italiano, il professor Diego Angelucci, archeologo dell'Università di Trento. «Per molto tempo», spiega Angelucci, «si è pensato che gli insediamenti costieri fossero un'esclusiva dell'Homo Sapiens, nell'Africa meridionale. E che solo i nostri diretti antenati si nutrissero di pesce.» Alcuni dei resti di animali marini trovati dagli archeologi nella grotta di Figueira Brava: (A) patelle, (B) vongole, (C) granchio, (D) vertebra di delfino, (E) vertebra di squalo. | AC M. NABAIS, D ANTUNES ET AL. 2000, EJP RUAS Due convinzioni cancellate dalle campagne archeologiche svolte nella grotta di Figueira Brava, 30 km a sud di Lisbona: la grotta era frequentata da neandertaliani fra 106mila e 86mila anni fa, in un'epoca interglaciale con un clima temperato: la grotta, oggi a picco sul mare, distava all'epoca oltre 1 km dalla costa. Gli archeologi hanno trovato, sepolti dalle rocce, resti di pesci, molluschi e crostacei (con segni di cottura rilevati al microscopio), ossa di uccelli marini (germani reali, oche, cormorani) e di mammiferi acquatici (delfini e foche). Come facevano gli ominidi a catturare queste prede? «Resta un mistero», risponde Angelucci: «forse usavano giavellotti con punta in selce scheggiata, ma è probabile che usassero strumenti in legno e fibre vegetali, che non son o sopravvissuti fino a noi. Va ricordato, comunque, che le coste portoghesi sono molto ricche di pesce grazie alla circolazione delle correnti dell'Atlantico e alla presenza di ampi estuari dei fiumi che vi sfociano: qui pescare è relativamente facile.» A conferma della loro ingegnosità, c'è un altro dettaglio: le pigne. I Neanderthal raccoglievano pigne mature dai rami più alti dei pini domestici, per conservarle nelle grotte. Quando avevano bisogno di cibo, le avvicinavano al fuoco per aprirle ed estrarne i pinoli. .Resta da scoprire come combinassero questi ingredienti per le loro ricette preistoriche. 26 MARZO 2020 | VITO TARTAMELLA |
Post n°2655 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
(foto: Rhona Wise via Getty Images) 26 morti, cinque città isolate, 830 persone contagiate. Questi sono i numeri aggiornati al 24 gennaio delle persone colpite dalla nuova polmonite in Cina, causata da un coronavirus finora sconosciuto (qui i rischi). Per ora non si tratta di un'emergenza globale, rassicura l'Organizzazione mondiale della sanità, dato che il problema è circoscritto alla Cina. Ma gli scienziati si stanno dando da fare in tutti i modi per cercare di avere il maggior numero possibile di informazioni sull'epidemia. Uno studio condotto da ricercatori cinesi e uscito il 22 gennaio mostra che il coronavirus proverrebbe da serpenti e sarebbe il frutto di una ricombinazione di un coronavirus del pipistrello con un altro coronavirus di origine sconosciuta. In pratica, i passaggi sarebbero: da pipistrello a serpente e da serpente a essere umano , senza dimenticare che poi il virus passa da uomo a uomo. La ricerca è pubblicata sul Journal of Medical Virology. Ma altri scienziati esprimono dei dubbi sul fatto che l'animale responsabile sia il serpente e le loro considerazioni sono pubblicate su Nature. Ecco tutte le ipotesi. Da dove viene il coronavirusIl virus appartiene al genere dei coronavirus. Questi patogeni possono causare un semplice raffreddore ma alcuni sono molto temibili, come quelli che causarono la Sars provocando quasi 800 morti, e la Mers almeno 500. In questo caso si tratta di un virus diverso e nuovo. Quando si è manifestato, i primi contagiati risultavano tutti assidui frequentatori di un ampio mercato a Wuhan, il Huanan Seafood Wholesale Market, che vende sia pesce e frutti di mare, sia animali selvatici vivi, inclusi pipistrelli, marmotte, rane, ricci, uccelli, serpenti. Per questo l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e altre autorità hanno ritenuto che l'epidemia sia partita dal contatto con specie animali presenti in questo mercato, che è stato chiuso dal 1° gennaio 2020. Il coronavirus da serpenteUna volta capito questo, gli scienziati si sono subito messi all'opera per cercare di capire quale sia l'animale che più probabilmente ha trasmesso il virus all'essere umano. I ricercatori cinesi hanno comparato la sequenza di rna del coronavirus dei pazienti cinesi con le sequenze di altri 276 coronavirus rintracciati in varie specie animali in tutto il mondo. I risultati mostrano che si tratta di un coronavirus affine a quello che causò la Sars e che il serpente risulta essere il principale serbatoio di questo virus. Inoltre, si tratta di un virus ricombinante, ovvero il risultato di una combinazione , una sorta di miscuglio genetico, di un coronavirus del pipistrello con un coronavirus di origini sconosciute. Infine, secondo i ricercatori è avvenuta quella che si chiama una trasmissione cross-specie, dove il patogeno salta da una specie a un'altra e si stabilizza nel nuovo ospite. Lo stesso processo è avvenuto nel caso della Sars, trasmessa dalla civetta delle palme all'essere umano per poi passare alla trasmissione uomo-uomo. I dubbiMa alcuni scienziati dubitano dell'ipotesi che la trasmissione del coronavirus sia stata fra serpente ed essere umano. "Nessuna prova supporta il fatto che i serpenti siano coinvolti", ha affermato su Nature David Robertson, virologo dell'università di Glasgow. L'idea di Robertson, riportata sulla prestigiosa rivista, è che è molto improbabile che il nuovo coronavirus, che sicuramente proviene da mammiferi (nel nostro caso dal pipistrello), abbia infettato per un periodo un animale secondario, non mammifero, come il serpente, così a lungo che il genoma del virus possa risultare modificato. "Non ci sono prove coerenti della presenza di coronavirus , ha aggiunto Paulo Eduardo Brandão, dell'università di San Paolo in Brasile. Anche secondo Cui Jie, virologo del Pasteur Institute di Shanghai, la provenienza è da mammiferi, e nel caso della Sars i coronavirus sono stati trovati soltanto in questa classe di animali, quindi l'ipotesi più probabile è il pipistrello. Ma il lavoro sul campo e analisi approfondite, che richiedono più tempo, sulle gabbie in cui erano tenuti gli animali al mercato di Wuhan, potranno dare una risposta, secondo i ricercatori. Il tempo, insomma, fornirà un'indicazione più certa. |
Post n°2654 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Serpenti arrostiti in vendita in un mercato cinese. | SHUTTERSTOCK AGGIORNAMENTO AL 24 GENNAIO, ORE 10:50. L'ipotesi che i serpenti abbiano fatto da "ospiti secondari" del coronavirus non convince parte della comunità scientifica. Come spiega un articolo su Nature, lo studio pubblicato sul Journal of Medical Virology ha sollevato critiche e perplessità nei ricercatori che studiano i coronavirus, e che avevano analizzato da vicino il virus della SARS. Il virus in Cina (2019-nCOV) sembrerebbe strettamente imparentato con il virus della SARS e fa parte di un sottogruppo di coronavirus, quello dei Betacoronavirus, trasmessi soprattutto da mammiferi. Inoltre, storicamente non ci sono prove di nessun coronavirus ospitato da animali diversi da mammiferi e uccelli. Anche il metodo utilizzato per chiudere il cerchio sui serpenti è contestabile. Una delle strategie di adattamento dei virus consiste nel codificare proteine usando le stesse triplette di nucleotidi (le unità base di DNA e RNA) dell'animale ospite. Gli autori dello studio sui serpenti hanno confrontato i nucleotidi scelti dal 2019-nCOV con quelle di diversi animali, risalendo così ai rettili. Tuttavia, è improbabile che il coronavirus, in origine ospitato dai pipistrelli, abbia infettato un ospite secondario abbastanza a lungo da mutare di nuovo il suo DNA in modo significativo. Mentre le autorità locali e internazionali mettono a punto una strategia per arginare il coronavirus, cercando di contenere il contagio del virus in Cina, uno studio pubblicato su Journal of Medical Virology formula un'ipotesi sulla sua origine. Secondo i cinque ricercatori, autori dello studio, un ruolo importante nella diffusione del nuovo coronavirus (i cui sintomi, nella prima fase, vennero associati a una "misteriosa polmonite") sarebbe stato giocato da serpenti - in particolare il cobra cinese e il bungaro cinese - che entrano nella dieta di molti cinesi. Secondo gli scienziati "i serpenti sono i più probabili animali selvatici serbatoi del virus 2019nCoV (il nome dato al virus dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, ndr)". Molte persone infettate dal cononavirus, infatti, risulterebbero aver mangiato animali selvatici acquistati al mercato di Wuhan (ora chiuso), dove venivano venduti, oltre a frutti di mare, anche pollame, serpenti, pipistrelli e altri animali da allevamento.
Come accadde con le epidemie provocate da SARS e MERS (che provocarono centinaia di morti), anche con questo nuovo coronavirus i primi pazienti hanno dunque acquisito il virus direttamente dagli animali. Ciò è stato possibile perché il virus stesso, mentre si trovava nell'ospite animale, deve aver mutato il suo codice genetico, circostanza che gli ha poi permesso di infettare anche l'uomo. Alcuni studi sul campo rivelarono poi che la fonte originale di SARS e MERS era stata il pipistrello e che le civette della palma mascherate (mammiferi originari dell'Asia e dell'Africa) e i cammelli avevano fatto da ospiti intermedi tra pipistrelli e umani. Lo studio del codice genetico di 2019-nCoV ha rivelato che anche in questo caso il pipistrello potrebbe anche essere all'origine della diffusione del virus: quest'ultimo sarebbe "passato" ai serpenti (lo confermerebbe un'analisi dei codici proteici) per poi arrivare all'uomo. A supporto di questa ipotesi c'è il fatto che i serpenti sono "cacciatori" di pipistrelli e che i serpenti stessi venivano venduti nel mercato locale dei frutti di mare a Wuhan. |
Post n°2653 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Il Coronavirus 2019-nCoV è arrivato all'uomo dai serpentiLo indica l'analisi della mappa geneticaRedazione ANSA ROMA 29 gennaio 202013:37 FOTOIl virus della Cina è arrivato all'uomo dai serpenti - RIPRODUZIONE RISERVATA+CLICCA PER INGRANDIRE Il virus cinese 2019-nCoV è arrivato all'uomo dai serpenti: sarebbero questi gli animali nei quali il virus, trasmesso dai pipistrelli, si sarebbe ricombinato e poi passato all'uomo. Lo indica l'analisi genetica pubblicata sul Journal of Medical Virology da Wei Ji, Wei Wang, Xiaofang Zhao, Junjie Zai, e Xingguang Li, delle università di Pechino e Guangxi. La ricerca è stata condotta su campioni del virus provenienti da diverse località della Cina e da diverse specie ospiti. e con la Sars, anche questa volta l'indice è puntato sui mercati di animali vivi molto comuni in Cina, dove accanto agli animali allevati nelle fattorie e ai pesci si vendono animali selvatici, come serpenti e pipistrelli. "I risultati della nostra analisi evoluzionistica suggeriscono per la prima volta che il serpente è il più probabile animale selvatico serbatoio del virus 2019-nCoV", scrivono i ricercatori. Le analisi genetiche aggiungono così una tessera fondamentale al mosaico della composizione genetica del virus 2019-nCoV, nel quale finora era chiaramente riconoscibile solo la sequenza della parte di virus ereditata dai pipistrelli e identificata fin dall'inizio come appartenente alla famiglia dei coronavirus, la stessa che comprende il virus della Sars, comparso nel 2002, e della Mers, del 2015; restava da risolvere il mistero della provenienza dell'altra metà del virus. coronavirus proveniente dai pipistrelli e di uno che arriva dai serpenti e che da questi ultimi sarebbe passato agli esseri umani, adattandosi al nuovo ospite e acquisendo la capacità di trasmettersi da uomo a uomo. Ricombinandosi geneticamente nei serpenti, quindi, il nuovo virus ha fatto il cosiddetto 'salto di specie', acquisendo nuovi recettori che gli permettono di legarsi alle cellule del sistema respiratorio umano. "Le nuove informazioni ottenute dalla nostra analisi evoluzionistica - rilevano i ricercatori - sono molto importanti per il controllo dell'epidemia causata dalla polmonite indotta dal virus 2019-nCoV". RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA |
Post n°2652 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze. 06 febbraio 2020Comunicato stampa Coronavirus 2019-nCoV: la più grande meta-analisi di tutti i genomi sequenziati Fonte: Università di Bologna © Agf/Science Photo Library RF Realizzata all'Università di Bologna, conferma l'origine del virus nei pipistrelli e mostra una bassa eterogeneità: il virus è poco mutabile. Ma individua anche un punto di elevata variabilità La più grande meta-analisi realizzata di tutti i genomi finora sequenziati del coronavirus 2019-nCoV conferma la sua origine nei pipistrelli e mostra una bassa eterogeneità: il virus è poco mutabile. Al tempo stesso è stato però individuato un punto di elevata variabilità nelle proteine del virus, con l'esistenza di due sottotipi virali. Lo studio, pubblicato sul Journal of Medical Virology, è stato guidato da Federico M. Giorgi, ricercatore di bioinformatica al Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell'Università di Bologna. coronavirus 2019-nCoV ha infettato fino ad oggi 24.554 persone, con 492 decessi confermati. Questo nuovo studio ha analizzato i genomi dei 56 coronavirus finora sequenziati da vari laboratori nel mondo, inclusi quelli derivanti dai due pazienti ricoverati in Italia, all'Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani: si tratta dello studio più esteso di genomica comparativa per questo nuovo virus finora realizzato. Albero filogenetico dei coronavirus analizzati nello studio. La linea blu raggruppa le sequenze del neocoronavirus 2019-nCoV umano. Evidenziate anche le sequenze del coronavirus di pipistrello (Bat CoV) e, a distanza evolutiva più elevata, dei virus responsabili per le patologie umane SARS e MERS I ricercatori hanno confermato la probabile origine del coronavirus da una variante animale: il parente più stretto dei virus isolati in queste settimane corrisponde infatti alla sequenza EPI_ISL_402131 di un coronavirus di Rhinolophus affinis, un pipistrello asiatico di medie dimensioni, rinvenuto nella provincia dello Yunnan (Cina). Il genoma del nuovo coronavirus umano condivide almeno il 96,2% di identità con il suo probabile progenitore nel pipistrello, mentre si discosta molto di più dal genoma del virus umano responsabile della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), con una somiglianza dell'80.3%. sequenziati fino ad oggi sono molto simili fra di loro, anche se provenienti da regioni diverse della Cina e del mondo: tutti i genomi ottenuti dai pazienti infettati dall'inizio dell'epidemia condividono un'identità di sequenza superiore al 99%. "Il virus è poco eterogeneo e mutabile: un dato ottimistico", spiega Federico M. Giorgi. "Il fatto che la popolazione virale sia uniforme ci dice che un'eventuale terapia farmacologica dovrebbe funzionare su tutti". punto di elevata variabilità nelle proteine del virus, con l'esistenza di due sottotipi virali. Questi differiscono per un singolo aminoacido in grado di cambiare sequenza e struttura nella proteina accessoria ORF8, una componente del virus che non è ancora stata caratterizzata. titolo "Genomic variance of the 2019-nCoV coronavirus". Gli autori sono Federico M. Giorgi, ricercatore al Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell'Università di Bologna, e Carmine Ceraolo, studente della laurea internazionale in Genomics dell'Università di Bologna. |
Post n°2651 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze 10 febbraio 2020 Quanto tempo servirebbe all'Iran per costruire una bomba atomica? di Davide Castelvecchi/Nature Centrale nucleare di Bushehr, in Iran (© IIPA via Getty Images) Con un accordo internazionale seriamente in pericolo, le capacità dell'Iran di costruire armi nucleari stanno di nuovo aumentando. Tuttavia non ci sono prove solide che il paese stia lavorando attivamente verso questo obiettivo o che sia già in grado di farlo velocemente L'Iran ha accumulato 1200 chilogrammi di uranio arricchito, più che raddoppiando la scorta che aveva appena tre mesi fa, secondo le dichiarazioni fatte il 25 gennaio di un alto funzionario dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica. venisse ulteriormente raffinato per renderlo adatto a un uso militare, con un processo che potrebbe richiedere solo due o tre mesi, dice David Albright, esperto di politica nucleare all'Institute for Science and International Security di Washington. Ma la costruzione di armi vere e proprie richiederebbe molto più tempo, aggiunge. di uranio dell'Iran "cambia radicalmente le cose", aggiunge Albright. Ma lui e altri avvertono che non ci sono prove che l'Iran stia cercando di costruire una bomba, almeno non ancora. cresciute. Il 3 gennaio, un attacco con droni degli Stati Uniti ha ucciso Qasem Soleimani, l'architetto chiave dell'influenza militare regionale dell'Iran. In risposta l'Iran ha lanciato missili contro le basi statunitens i in Iraq. 2015 tra l'Iran e sei potenze globali che ha limitato le sue capacità nucleari in cambio della revoca delle sanzioni economiche, è ora in grave pericolo. Il presidente statunitense Donald Trump si è ritirato dall'accordo nel maggio 2018, e nel maggio dello scorso anno l'Iran ha annunciato che avrebbe ripreso l'arricchimento dell'uranio. in quanto tempo l'Iran può costruire una bomba e se è probabile che questo accada. Costruire armi nucleari è costoso e richiede competenze tecniche, come l'arricchimento dell'uranio. L'isotopo fissionabile uranio-235, che costituisce meno dell'uno per cento dell'uranio naturale, deve essere separato dall'uranio-238, che è di gran lunga l'isotopo più comune. programma nucleare attivo da decenni. Il paese ha sempre sostenuto che si trattava di un programma a scopi puramente pacifici, come la produzione di isotopi per uso medico. Ma all'inizio degli anni duemila, secondo valutazioni dei servizi segreti statunitensi e di osservatori internazionali, l'Iran sembrava avere un programma rapido e intensivo per costruire almeno cinque bombe a fissione all'uranio. atomica (o IAEA, da International Atomic Energy Agency) delle Nazioni Unite suggerivano che l'Iran avrebbe potuto lavorare attiva- mente alla costruzione di un arsenale nucleare. Sarebbe una violazione del Trattato di non proliferazione nucleare (o TNP, da Non-Proliferation Treaty) del 1968, che l'Iran ha firmato. Nel 2003, cedendo alle pressioni internazionali, il paese ha accettato di ridurre drasticamente, ma non completamente, le sue attività nucleari. Al 2015, il paese disponeva di scorte per 11 tonnellate di esafluoruro di uranio arricchito fino al 20 per cento di uranio-235. L'uranio per uso militare deve essere arricchito al 90 per cento. L'uranio è comunemente processato come gas esafluoruro di uranio, che viene separato per isotopi in centrifughe ad alta velocità, e l'Iran aveva più di 10.000 di queste centrifughe. Quando nel luglio 2015 è stato firmato il JCPOA, gli esperti avevano stimato che il paese era lontano mesi, forse settimane, dalla produzione di uranio per uso militare. delle sue scorte all'estero e a mettere in naftalina la maggior parte delle sue centrifughe. L'obiettivo era in parte allungare di almeno un anno il cosiddetto breakout time, cioè il tempo necessario all'Iran per accumulare materiale fissile sufficiente per una bomba. L'accordo ha anche sottoposto l'Iran a un rigoroso regime di ispezioni dell'IAEA. Negli anni successivi, l'agenzia ha periodicamente riferito che l'Iran stava rispettando pienamente l'accordo. non proliferazione globale, dice Seyed Hossein Mousavian, che era il portavoce del gruppo di negoziazione nucleare dell'Iran nel 2003. Più di 200 scienziati nucleari hanno lavorato per anni sui dettagli tecnici", dice Mousavian, ora esperto di politica nucleare alla statunitense Princeton University. Di conseguenza, dice, il regime di ispezione dell'Iran è più dettagliato di quello descritto nel TNP, che potrebbe rendere l'accordo del 2015 un precedente e un modello per i futuri accordi di disarmo. |
Post n°2650 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
29 gennaio 2020 L'inaspettata corrosione dei fusti nucleari © Chromorange Photostock / AGF Una simulazione delle condizioni di stoccaggio dei rifiuti nucleari ha evidenziato un processo accelerato di corrosione sulla superficie di contatto tra l'acciaio dei fusti e il loro contenuto radioattivo. La scoperta mette in discussione i progetti di depositi per scorie a elevata attivitàI metodi stoccaggio a lungo termine delle scorie nucleari potrebbero essere meno affidabili e duraturi di quanto ritenuto. Il loro punto debole, finora sottovalutato, è la corrosione dei fusti di acciaio inossidabile che viene accelerata, in ambiente acquoso, dal contatto con le scorie contenute negli stessi fusti. L'allarme è stato lanciato da uno studio pubblicato su "Nature Materials" da Xiaolei Guo e colleghi dell'Ohio State University a Columbus, negli Stati Uniti, che richiama l'attenzione sulla necessità di riconsiderare attentamente l'interazione tra i diversi materiali che si progetta di usare in questo delicato campo di gestione delle scorie radioattive militari e civili. definitivo dei rifiuti radioattivi di elevata attività, cioè quelli che rimarranno pericolosi per gli esseri umani e per l'ambiente ancora per centinaia di migliaia di anni. Quasi tutte le nazioni con attività nucleari hanno in progetto lo stoccaggio in siti geologici profondi. Questo metodo, considerato da alcuni esperti uno dei più sicuri, prevede l'immagazzinamento in appositi siti che, per le loro caratteristiche intrinseche, garantirebbero un isolamento dalle attività umane e una stabilità su tempi molto lunghi. trattate, poi imprigionate nel vetro o nella ceramica e infine sigillate in contenitori di acciaio inox per impedirne l'interazione con l'ambiente. Il problema è che gli attuali standard di sicurezza di questi metodi di stoccaggio valutano la corrosione dei singoli gruppi di materiali in modo indipendente, trascurando le potenziali interazioni tra materiali diversi che si trovano a contatto nei fusti. interna dei fusti di acciaio e le scorie e ne hanno studiato la corrosione in condizioni di deposito simulato per 30 giorni. Hanno scoperto così che la corrosione di vetro e ceramica è notevolmente accelerata proprio nell'area di contatto tra scorie e acciaio inossidabile. Un deposito per i rifiuti radioattivi di Giovanni Zagni e Davide Maria De Luca In sostanza, con il raffreddamento delle scorie depositate in un ambiente acquoso, fenomeni corrosivi localizzati dell'acciaio dei fusti potrebbero far percolare acqua al loro interno, nello spazio confinato tra la superficie di acciaio e la massa vetrosa. La dissoluzione dell'acciaio genera cationi metallici, ovvero ioni metallici con carica elettrica positiva, che vanno incontro a idrolisi, producendo protoni. Questi aumentano fortemente l'acidità locale, che a sua volta rinforza la corrosione dell'acciaio e provoca quella del materiale vetroso e di conseguenza la liberazione delle specie radioattive. Un processo molto simile si verifica anche nella ceramica. della corrosione potrebbe, a lungo andare, portare al rilascio di materiale radioattivo nell'ambiente. Questo rischio, finora trascurato, dovrebbe essere considerato attentamente nelle valutazioni dei materiali destinati allo stoccaggio delle scorie. (red) |
Post n°2649 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze 17 marzo 2020Comunicato stampa Modelli matematici per la previsione della diffusione dell'epidemia COVID-19 Fonte: Cnr-Iac Kateryna Kon/Spl Una ricerca dell'Istituto per le applicazioni del calcolo del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iac) sta analizzando su base giornaliera l'evolversi della diffusione dell'epidemia di COVID-19 in Italia.
Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iac), condotta da Giovanni Sebastiani in collaborazione con Marco Massa dell'Imperial College di Londra, sta analizzando su base giornaliera l'evolversi della diffusione dell'epidemia di COVID-19 in Italia . I dati utilizzati sono quelli ufficiali resi disponibili dalla Protezione Civile. La strategia adottata prevede lo studio del fenomeno di diffusione del contagio attraverso modelli e metodi matematici e statistici di diverso tipo.
e quello logistico, che caratterizzano tipicamente l'evoluzione delle epidemie. In alternativa, è stato considerato un modello matematico a "compartimenti", usualmente utilizzato in epidemiologia. Alle tradizionali categorie, i "suscettibili" di essere infettati, gli infetti, i guariti e i deceduti, si affiancano ora i ''portatori sani'' , non rilevabili dai dati, ma ben presenti sul territorio. Per questi due approcci, i dati aggregati a livello di provincia a disposizione sono sufficienti per stimare i parametri dei modelli ed effettuare previsioni sulle principali caratteristiche del fenomeno di diffusione dell'epidemia, ad esempio la durata, la percentuale di infetti e di morti. I principali risultati ottenuti analizzando i dati fino al 16 marzo hanno permesso di rilevare negli ultimi giorni una seppur modesta diminuzione del tasso di crescita della frazione di contagiati osservati in Lombardia. A livello di provincia, questo accade per cinque delle sei più colpite: Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi e Milano, mentre per Pavia non c'è sinora evidenza di una diminuzione del tasso. Tra 6 o 7 giorni ci aspettiamo di vedere una significativa riduzione del tasso di crescita, dovuto alle misure di limitazione della mobilità contenute nel decreto ''Io resto a casa'' dell'11 marzo.
centro Italia non confinanti con la Lombardia: Toscana, Umbria, Marche, Lazio ed Abruzzo. Per le regioni del Sud, escluse Basilicata e Molise, dove i numeri sono ancora ridotti, si osserva un aumento del tasso di crescita avvenuto dopo una precedente diminuzione. Tale aumento è purtroppo avvenuto 3-4 giorni dopo l'esodo dal Nord al Sud dell'8 marzo, giorno dell'approvazione del decreto che istituiva la zona rossa in Lombardia. Probabilmente, gli effetti dell'esodo hanno influito negativamente sul contagio. che la stabilizzazione della frazione dei contagiati si avrà in un intervallo compres o tra il 25 marzo e il 15 aprile. Queste stime - va evidenziato - sono soggette a grande incertezza a causa di vari fattori in gioco e vanno ricalibrate di continuo a seconda dei dati disponibili e dei cambiamenti nei comportamenti individuali a seguito dei decreti governativi. |
Post n°2648 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: artcolo riportato dalle Scienze 29 ottobre 2019Comunicato stampa Rewind Materials, modifiche reversibili su materiali magnetici Fonte: Cnr-Iom©iStock/Anna Bliokh Modificare la forma di un oggetto e poi tornare indietro è possibile. Questo il risultato di uno studio svolto da un gruppo di ricercatori provenienti da diverse realtà di ricerca, pubbliche e private: l'Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iom), il Sincrotrone Elettra, l'università di Milano, il Politecnico di Milano, l'Istituto di Nanoscienze di Modena l'azienda nanotec, A.P.E. Research, spin-off del Cnr. Il lavoro è stato pubblicato e compare sulla copertina di "Advanced Electronic Materials" Sembra che sia possibile modificare la forma di un oggetto, e poi tornare indietro alla sua forma iniziale. O almeno questa è una delle più futuristiche applicazioni di uno studio condotto da un gruppo di scienziati attivi nel mond della ricerca e in quello industriale, e recentemente pubblicato su "Advanced Electronic Materials". quale modifichiamo le proprietà morfologiche di un oggetto sulla base di semplici impulsi elettrici provenienti da un pc o da uno smartphone", spiega Piero Torelli dell'Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iom). di creare delle 'terrazze' di altezze diverse in un materiale magnetico. Ma questo cosa vuol dire? dei multiferroici) a un campo elettrico è possibile modificarne la superficie, in modo da creare su di essa degli scalini di altezza di circa 100nm. Questi scalini poi possono essere cancellati invertendo la tensione del campo, ottenendo una superficie piatta e pronta per la successiva applicazione", conclude Piero Torelli. è stato possibile usare differenti tecniche per l'analisi di questi materiali. caratterizzazione di superficie e spettroscopia con luce di sincro- trone dell'infrastruttura NFFA (Nano Foundry and Fine Analysis) presso il Cnr-Iom, il microscopio a forza atomica (Afm) pe r misurare la morfologia del campione e ottenerne un'immagine tridimensionale. Infine il microscopio ottico è stato usato per misurare in tempo reale il cambiamento della superficie", spiega Stefano Prato, uno degli autori e il fondatore di A.P.E. Research. ulabili ma la scoperta delle modifiche morfologiche è innovativa e apre nuove prospettive in un campo già molto ricco di possibili applicazioni tecnologiche. In particolari i risultati raggiunti aggiungono una nuova possibilità nella progettazione di dispositivi magnetici a controllo elettrico. |
Post n°2647 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Comunicato stampa Il grande squalo bianco abita il Mediterraneo da almeno 3,2 milioni di anniFonte: Università di Bologna Uno dei reperti storici dello squalo bianco in laboratorio (© Università di Bologna) Un gruppo internazionale di ricercatori guidato dall'Università di Bologna è riuscito a ricostruire la complessa storia evolutiva di questo grande predatore dei mari confrontando i dati genetici ottenuti dall'analisi di reperti storici come denti, mascelle e vertebre. Ma dai risultati emerge anche che la popolazione mediterranea è oggi a rischio di estinzione ANIMALI GENETICA Il grande squalo bianco nuota nelle acque del Mediterraneo da almeno 3,2 milioni di anni, molto più a lungo di quanto ipotizzato finora. E la popolazione presente oggi nel Mediterraneo è genetica- mente più simile agli squali bianchi che abitano l'Oceano Pacifico rispetto ai loro vicini dell'Oceano Atlantico. Partendo dall'analisi di reperti custoditi nei musei e trofei storici, un gruppo internazionale di ricercatori guidato da studiosi dell'Università di Bologna è riuscito a sequenziare il DNA della popolazione di squali bianchi presenti nel Mediterraneo ricostruendo, con un approccio che combina genetica e modelli matematici, la loro inusuale storia evolutiva. E lanciando un allarme per la loro possibile estinzione. Lo studio è stato pubblicato sul "Journal of Biogeography". "La storia evolutiva delle popolazioni di squalo bianco è molto complessa: un caso peculiare che ha dato vita ad una serie di popolazioni stanziali distribuite attorno al globo, tra cui la popolazione di squali bianchi del Mare Nostrum, che è unica nel suo genere", spiega Agostino Leone, ricercatore dell'Università di Bologna, primo autore dello studio. "Gli squali bianchi oggi presenti nel Mediterraneo, però, mostrano un tasso di variabilità genetica molto basso, e questo potrebbe indicare un gruppo di esemplari molto piccolo, in pericolo di estinzione". REPERTI STORICI E DNAIl grande squalo bianco (nome scientifico Carcharodon carcharias) è il più grande pesce predatore esistente sul pianeta: può arrivare a superare i 6 metri di lunghezza per oltre una tonnellata di peso. Oggi se ne possono trovare esemplari al largo del Sudafrica, dell'Australia e della Nuova Zelanda, del Giappone e del Nord e Sud America, oltre che nel Mediterraneo. Nonostante però sia un animale iconico, protagonista di film e documentari di grande successo - dal celebre "Lo squalo" di Spielberg in avanti -, la sua storia è ancora poco conosciuta. Lo squalo bianco del Mediterraneo, in particolare, è stato fino ad oggi poco studiato, a causa di una popolazione che nell'ultimo secolo è molto diminuita, cosa che ha reso difficile trovare esemplari da analizzare. Per superare questo problema, i ricercatori protagonisti di questo nuovo studio hanno allora pensato di rivolgersi ai musei e alle collezioni private italiane che custodiscono reperti storici di squali bianchi come denti, mascelle e vertebre risalenti agli ultimi due secoli. Grazie a nuove tecnologie che permettono lo studio del genoma antico, gli studiosi sono così riusciti a ricostruire sequenze del DNA mitocondriale di diversi squali bianchi del Mediterraneo da confrontare con quelle delle altre popolazioni presenti sul pianeta. "Questi nuovi dati ci hanno permesso di osservare la diversità biologica della popolazione mediterranea di squalo bianco", dice Agostino Leone. "Analizzando e confrontando sequenze di DNA di esemplari diversi, siamo riusciti a calcolare che la popolazione di squali bianchi del Mediterraneo ha iniziato ad accumulare le mutazioni che l'hanno differenziata dalle altre popolazioni globali intorno a 3,2 milioni di anni fa, smentendo così le credenze passate sulla colonizzazione del Mediterraneo da parte di questa specie solo a partire da circa 450 mila anni fa". DAL PACIFICO AL MEDITERRANEO Un'origine così antica - molto più antica di quanto si pensava fino ad oggi - ha permesso inoltre di confermare che lo squalo bianco del Mediterraneo è più simile agli squali bianchi che abitano l'Oceano Pacifico rispetto a quelli del vicino Oceano Atlantico. Un'affinità che si può spiegare solo ricostruendo il lungo percorso di colonizzazione di questo grande predatore attraverso gli oceani. Secondo gli studiosi, la popolazione di squali bianchi che oggi vive nel Mediterraneo discenderebbe da esemplari provenienti dall'Oceano Pacifico, che passarono nell'Atlantico attraverso il canale del Centro America prima della formazione dell'Istmo di Panama, arrivando poi anche nel Mediterraneo. Quando però circa 3,5 milioni di anni fa la nascita dell'Istmo di Panama chiuse il canale tra Nord e Sud America, l'Oceano Atlantico subì forti cambiamenti climatici che portarono all'estinzione di molte specie marine, tra cui probabilmente anche lo squalo bianco. L'Atlantico si sarebbe quindi ripopolato di squali bianchi solo in tempi recenti, probabilmente grazie a migrazioni di esemplari dal Sudafrica: da qui la differenza genetica attuale con gli squali bianchi del Mediterraneo. C'è infine un altro aspetto, molto preoccupante, emerso dallo studio del DNA dello squalo bianco del Mediterraneo: il basso tasso di variabilità genetica tra esemplari diversi. Un dato che suggerisce la presenza di una popolazione molto piccola e quindi in pericolo di estinzione. " La popolazione mediterranea di squalo bianco è probabilmente una piccola comunità in pericolo", conferma Agostino Leone. "È molto importante mettere in campo azioni per salvarla: la sua scomparsa sarebbe senza dubbio molto dannosa per gli equilibri ecologici del Mediterraneo e per la già precaria situazione a livello globale di questi maestosi predatori del mare". I PROTAGONISITI DELLO STUDIO Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Biogeography con il titolo "Pliocene colonization of the Mediterranean by Great White Shark inferred from fossil records, historical jaws, phylogeographic and divergence time analyses". La ricerca è stata realizzata da un gruppo internazionale di studiosi coordinati da Fausto Tinti, Alessia Cariani e Agostino Leone del Laboratorio di Genetica e Genomica delle Risorse e dell'Ambiente Marino (GenoDREAM) del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell'Università di Bologna. Per l'Università di Bologna hanno collaborato inoltre studiosi del Museo di Anatomia Comparata e del Dipartimento di Beni Culturali. |
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