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Messaggi del 01/04/2020
Post n°2697 pubblicato il 01 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet. Seimila anfore in fondo al mare-Straordinaria scoperta in Grecia 18 dicembre 2019 Un bastimento con un carico enorme: ben seimila anfore romane contenenti vino e altre derrate. Dormivano da duemila anni a circa sessanta metri di profondità, cullate dal blu del mitico Egeo non lontano dal porto di Fiskardo, sulla costa settentrionale dell'isola greca di Cefalonia. A destinazione non arrivarono mai, inabissandosi tra il 100 a.C e il 100 d.C a bordo di una grossa nave oneraria lunga trentatré metri, di cui è stato individuato anche lo scafo grazie a sofisticate apparecchiature sonar. Reperti eccezionali per numero e conservazione A forma di brocca, con due manici intorno al collo stretto e ancora i tappi che ne sigillavano il contenuto, le anfore sono praticamente intatte. «Il relitto è parzialmente sepolto nel fondale sabbioso e se facessimo degli scavi, potremmo ritrovare anche una parte o l'intero scafo in legno», afferma George Ferentinos, ricercatore dell'Università di Patrasso, convito del fatto che il relitto della nave naufragata di Fiskardo sia uno dei quattro più grandi ritrovati nel Mediterraneo e il più grande mai trovato nel Mediterraneo orientale, oltre che il meglio conservato. Crocevia di uomini e materie prime Non lontano dal fondale del relitto, di recente sono tornati in luce i resti archeologici di case, bagni comuni, un teatro e un cimitero, databili fra 146 a.C. e 330 d.C. Fiskardo doveva essere dunque un porto importante nell'antichità, sulla rotta commerciale romana che trasportava merci dal Mediterraneo orientale. Quale futuro per il relitto? Il parere di Luigi Fozzati Non è stato ancora deciso se i reperti rimarranno in fondo al mare, trasformando il relitto di Fiskardo in un nuovo "paradiso" per subacquei, o se verranno prelevati per entrare a far parte della collezione di qualche museo. Sulla questione ha le idee molto chiare Luigi Fozzati, uno dei padri fondatori dell'archeologia subacquea in Italia e membro del Comitato scientifico di Archeologi Viva: «Non è la prima e non sarà l'ultima volta che si scoprono queste grandi aree archeologiche sommerse. L'erosione costiera ha fatto sì che interi abitati siano stati inghiottiti dal mare e non siano ancora stati trovati. Abbiamo indicazioni di siti costieri o piccole città di epoca romana che non sono mai stati rinvenuti e che probabilmente sono finiti al di sotto dei depositi sabbiosi del nostro Mediterraneo. Per quanto riguarda la destinazione turistica di queste grandi aree archeologiche sommerse - città, relitti o quant'altro - credo che non abbia senso da nessun punto di vista, men che meno quello scientifico, recuperare migliaia e migliaia di anfore che possono benissimo essere studiate dove si trovano tuttora. Al tempo stesso la trasformazione di questi siti in musei subacquei costituisce un'avventura molto accattivante, ma apre scenari che un giorno potrebbero essere preoccupanti». Il rischio dell'overtourism subacqueo «Il Mediterraneo - spiega Fozzati - è un mare chiuso, di piccole dimensioni e uno dei più antropizzati del mondo. La presenza eccessiva di frequentazione umana sconvolge l'equilibrio ecosistemico. Le aree archeologiche subacquee sono le benvenute, ma occorrerà fare come sulla terraferma ovvero creare un rapporto equilibrato tra parchi accessibili e parchi non accessibili. Insomma anche sott'acqua non si può visitare tutto». Foto apertura: Ionian Aquarium |
Post n°2696 pubblicato il 01 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Come stavamo...Nella Sicilia che fu 28 gennaio 2020 Antichi malanni e nuove tecnologie Spina bifida, costa biforcata, lesioni endocraniche, anomalie congenite, ernie, patologie dentarie... Le antiche popolazioni siciliane rivelano la loro storia medica grazie a uno studio che non ha precedenti. Un gruppo di ricercatori delle università di Vilnius, Oxford e Cranfield e dell'IBAM-CNR di Catania hanno deciso di ricostruire i trascorsi nosologici degli antichi siciliani attraverso l'analisi dei loro resti mortali rinvenuti in cimiteri che coprono un periodo compreso tra il Neolitico e la prima Età Moderna. Ricerche internazionali "Salute e malattia in Sicilia", il titolo del progetto che ha previsto una prima fase di selezione dei materiali e di standardizzazione dei protocolli, una seconda fase di formazione dei ricercatori, per poi passare a una fase operativa, grazie alla cooperazione di numerose istituzioni regionali che hanno reso disponibili i preziosi reperti. Notizie dalle necropoli «Abbiamo già completato lo studio di due ampie necropoli - dice il coordinatore siciliano dello studio paleopatologico, Dario Piombino-Mascali, che è anche docente di antropologia forense all'ateneo di Messina - e stiamo per iniziare un'ulteriore missione con giovani ricercatori estremamente competenti e motivati. Dopo aver schedato i materiali, i dati verranno elaborati attraverso un software specifico che permette di ottenere un indice di salute e valutare attraverso il tempo la presenza di stress biologico e di specifiche malattie tra i campioni in esame». Tra le indagini chimiche minimamente invasive quella che prevede l'analisi degli isotopi stabili da campioni ossei o dentari, una tecnica biogeochimica molto comune in archeologia. Alimentazione e stress I rapporti di carbonio e azoto provenienti dagli individui in esame saranno utilizzati per ricostruire la loro dieta (alimentazione a base di prodotti animali o vegetali, consumo di carne o pesce), ma anche per identificare periodi di stress fisiologico nelle loro ossa, corroborando i risultati delle analisi paleopatologiche. Accanto a ciò, i valori di ossigeno e stronzio saranno invece utili per determinare la provenienza geografica di alcuni di questi gruppi umani, che consentirà d'identificare eventuali migrazioni sul territorio isolano. Obiettivo è quello di arrivare a una banca dati e a delle statistiche attraverso lo studio del materiale scheletrico proveniente da diversi contesti siciliani, dalla preistoria alle soglie dell'Età Moderna, senza limiti territoriali né culturali. In attesa di altri risultati Sarà dunque possibile rilevare l'insorgenza di alcune malattie nell'antichità, circoscriverle per aree geografiche e interpretarle attraverso il contesto ambientale. I primi risultati di questo importante progetto multidisciplinare verranno presentati la prossima estate a Vilnius, in Lituania, durante il Congresso europeo di paleopatologia. |
Post n°2695 pubblicato il 01 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Sardegna prenuragica. Novità... in grottaArcheonews 7 novembre 2019 Il sito preistorico di Acquacadda Procede a pieno ritmo l'importante campagna di scavo dell'Università di Cagliari all'interno della Grotta di Acquacadda a Nuxis, nel Sulcis. Sito preistorico tra i più importanti della Sardegna prenuragica, fu frequentato a scopo funerario almeno dall'età del Rame (2700-2200 a.C.). Già noto in letteratura per alcuni scavi effettuati negli anni sessanta del secolo scorso, si è tornati ora a indagarlo con l'ausilio delle moderne metodologie archeologiche e archeometriche. Una "miniera" di informazioni La Grotta di Acquacadda (o Grutta Su Montixeddu) si trova nell'area di una vecchia miniera ormai dismessa nel Sulcis (Sardegna sud-occidentale), nel comune di Nuxis, una cinquantina di chilometri da Cagliari. Situata sulla sommità di una collina attualmente modificata dall'intervento antropico a seguito dell'attività estrattiva, offre uno stupendo panorama del Basso Sulcis con i rilievi appartenenti alle diverse ere geologiche. Popolazioni prenuragiche ai raggi X Obiettivo principale delle indagini di scavo è quello di indagare il passaggio dalla cultura di Monte Claro (età del Rame) a quella di Bonnanaro (prima età del Bronzo), e capire quale ruolo quest'ultima abbia avuto nella formazione della successiva civiltà nuragica. Particolare attenzione è rivolta al Dna, alla dieta delle popolazioni di quattro-cinquemila anni fa e alle cause di morte degli antichi abitanti dell'Isola. A questo scopo si è effettuata una raccolta scientifica dei materiali archeologici superficiali, visibili in numero abbondante sull'attuale piano di calpestio della grotta. Ossa e resti di cibo vicino al focolare Grazie a due saggi di scavo è stato rinvenuto un focolare associato a ceramica di cultura Monte Claro (2700-2200 a.C.), che ha restituito resti di pasto ancora da analizzare. Da un altro saggio è riemersa invece un'ampia varietà di materiali ceramici frammentati, sempre riferibili alla fase Monte Claro, forse pertinenti a rituali, ma non ancora ben definibili. Alcuni resti umani, in corso di studio da parte di Elisabetta Marini e Fabiana Paola Corcione, sembrano ribadire l'uso funerario della grotta. Sul campo un team internazionale La campagna di scavo è diretta dal Riccardo Cicilloni, del Dipartimento Beni culturali dell'Università di Cagliari, in collaborazione con Elisabetta Marini del Dipartimento Scienze della Vita e dell'Ambiente. Alle attività di ricerca ha preso parte un team di trenta studenti provenienti da diversi atenei europei e internazionali, tra cui Granada, Barcellona e Melbourne, coordinati sul campo dagli archeologi Marco Cabras e Federico Porcedda. Tante realtà per una "missione" Le attività di scavo e ricerca sono stare rese possibili grazie alla conces- sione di scavo da parte del MiBACT e si sono svolte con il contributo della Regione Sardegna, del Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna e del Comune di Nuxis, con il supporto tecnico dell'Associazione Speleo Club Nuxis, che gestisce l'area, in collaborazione con Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Cagliari e per le Province di Oristano e Sud Sardegna. |
Post n°2694 pubblicato il 01 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 26 marzo 2020 Le femmine sono più longeve anche tra gli altri mammiferi © Biosphoto/AGF La maggiore longevità delle femmine non riguarda solo gli esseri umani: lo ha dimostrato uno studio che ha preso in esame più di 100 specie di mammiferi. La differenza probabilmente è il risultato di complesse interazioni tra fattori ambientali e costi per la salute della riproduzione e della cura della prole E' ben noto che le donne vivono più degli uomini. Il dato che, emerge dalle statistiche di tutto il mondo, acquista ora un significato più ampio, grazie a un nuovo studio apparso sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" che ha analizzato la longevità di 134 popolazioni di 101 di specie di mammiferi selvatici - dalle orche agli elefanti, dai pipistrelli ai leoni - riscontrando che in circa 60 di esse le femmine vivono più dei maschi. Anzi il divario è ancora più marcato che tra gli esseri umani: tra i mammiferi esaminati, le femmine vivono in media il 18 per cento in più dei maschi, mentre la differenza per gli esseri umani è solo del 7,8 per cento. ma siamo rimasti sorpresi nello scoprire che le differenze nella durata della vita tra i sessi sono ancora più marcate nei mammiferi selvatici che negli esseri umani", ha spiegato Tamás Székely, dell'Università di Bath, che ha firmato l'articolo insieme ai colleghi di un'ampia collaborazione internazionale. le specie considerate. Nel caso degli esseri umani, spesso è stata chiamata in causa la genetica, ma lo studio indica che le femmine hanno un tasso di mortalità tendenzialmente inferiore agli uomini in tutte le fasce di età. Per questo gli autori suggeriscono che dipenda dall'effetto di complesse interazioni tra le condizioni ambientali e i costi, in termini di salute dell'individuo, legati alla riproduzione e alla cura della prole. lungo dei leoni maschi, e finora si pensava che ciò fosse dovuto principalmente alla selezione sessuale, cioè al fatto che i maschi combattono tra loro per potersi accoppiare, ma i nostri dati non supportano questa ipotesi, e quindi ci devono essere altri fattori più complessi in gioco", ha spiegato Székely. "Per esempio, bisogna tenere conto che le femmine vivono in un branco, dove sorelle, madri e figlie cacciano insieme e si prendono cura l'una dell'altra, mentre i leoni maschi adulti spesso vivono da soli o con un fratello, e quindi non hanno la stessa rete di sostegno". agenti patogeni che possono determinare differenti tassi di mortalità tra maschi e femmine. O ancora, il costo che ha la cura della prole. Per questo motivo, Székely e colleghi hanno in programma di confrontare tra loro popolazioni selvatiche e popolazioni che vivono in cattività, che non sono esposte ai predatori e non devono competere con i compagni per accaparrarsi il cibo. Montagne Rocciose (Ovis canadensis), considerate da Székely e colleghi. Per questa specie, lo squilibrio di genere praticamente si annulla nelle popolazioni che hanno ampia disponibilità di risorse, mentre si accentuano in quelle che vivono in ambienti molto aridi. (red) |
Post n°2693 pubblicato il 01 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
28 febbraio 2020 Il passaggio all'agricoltura e l'evoluzione della salmonella ©Science Photo Library/AGF L'analisi dei più antichi genomi batterici mai ricostruiti mostra l'evoluzione della salmonella nell'arco di 5000 anni: un ceppo si è adattato a infettare solo gli esseri umani in seguito al passaggio da un sostentamento basato su caccia e raccolta a uno basato su agricoltura e allevamento Il batterio della salmonellosi si è evoluto per adattarsi a un passaggio cruciale della storia umana: la transizione, avvenuta nel Neolotico, da un sostentamento basato su caccia e raccolta a uno basato sull'agricoltura e l'allevamento. da Felix M. Key, Alexander Herbig e Johannes Krause del Max-Planck -Institut per la scienza della storia umana a Jena, in Germania, sulla base dell'analisi di resti umani recuperati in tutta l'Eurasia occidentale, dalla Svizzera alla Russia, che hanno permesso di esaminare i più antichi genomi batterici mai recuperati fino a oggi. umani non conservano segni della maggior parte degli agenti patogeni che hanno infettato l'organismo. Ma gli ostacoli sono stati superati grazie a una nuova tecnica di screening batterico chiamata HOPS, con cui Key e colleghi hanno esaminato 2739 resti umani risalenti a migliaia di anni fa e appartenenti a diversi gruppi culturali, dalle società di cacciatori-raccoglitori, ai pastori nomadi ai primi agricoltori. , otto antichi genomi di Salmonella enterica, alcuni dei quali risalgono a 6500 anni fa. I sei genomi di salmonella recuperati da pastori e agricoltori, in particolare, sono progenitori di Paratyphi C, un ceppo raro che infetta specificamente gli esseri umani. Quell'antica salmonella, invece, probabilmente infettava sia gli esseri umani sia gli animali. in un periodo di circa 5000 anni, anche in funzione delle mutate abitudini di vita dei nostri progenitori. Il passaggio ad abitudini stanziali e la nascita di una economia basata su agricoltura e allevamento degli animali - un processo denominato complessivamente neolitizzazione - ha portato una maggiore promiscuità e aumentato le occasioni di contatto con feci umane e animali. Di conseguenza, la transizione ha incrementato anche il rischio d'infezione da salmonella, che rappresentava probabilmente una seria minaccia per la salute dei nostri antichi antenati: questa è un'ipotesi che gli antropologi hanno formulato da tempo, ma solo ora si è arrivati a una prova molecolare diretta. passato delle malattie umane", ha spiegato Key. "Ora disponiamo di dati molecolari per comprendere l'emergere e la diffusione di agenti patogeni di migliaia di anni fa, ed è entusiasmante il modo in cui possiamo utilizzare la tecnologia più moderna per rispondere a domande di lunga data sull'evoluzione microbica". (red) |
Post n°2692 pubblicato il 01 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
12 febbraio 2020 Il virus brasiliano che sfida i microbiologi Microfotografia a luce polarizzata di arcelle, un tipo di ameba che vive in ambienti acquatici (© Marek Mis/SPL/AGF) Scoperta in un lago artificiale brasiliano, la nuova specie Yaravirus brasilensis infetta le amebe ed è geneticamente distante da ogni altro virus dello stesso tipo. Gli studiosi sono ancora incerti se classificarlo come un rappresentante di ridotte dimensioni del gruppo dei virus giganti o come appartenente a un gruppo a sé stante Prende il nome da Yara, una divinità delle acque della mitologia brasiliana, il virus che sfida le attuali conoscenze dei microbiologi: Yaravirus brasilensis possiede infatti un corredo genomico che per il 90 per cento non è riconducibile a quelli di virus simili catalogati finora. Lo rivelano Paulo V. M. Boratto Universidade Federal de Minas Gerais di Belo Horizonte, in Brasile, e colleghi di una collaborazione internazionale, in un articolo pubblicato sul sito di pre-stampa bioRxiv. brasiliana di Belo Horizonte, e infetta le amebe. Si tratta di un virus a DNA che conta quasi 45.000 coppie di basi (le "lettere", di soli quattro tipi, che costituiscono l'alfabeto della vita). Ma diversamente da quanto si osserva con altre specie virali che infettano le amebe, le particelle di Yaravirus, con i loro 80 nanometri di diametro, non hanno dimensioni particolarmente grandi, né un genoma complesso: in pratica, contengono geni che per la maggior parte non sono mai stati descritti prima. circa 8500 sequenze di genomi di virus che vivono in ambienti naturali. Risultato: solo sei geni di Yaravirus avevano una somiglianza con altri descritti in precedenza: in altre parole, non si possono stabilire legami di parentela genetica con altri virus. rivelato che il DNA di Yaravirus codifica per 74 proteine complessivamente. Di queste, 26 sono le proteine che costituiscono il capside, l'involucro virale che contiene il materiale genetico, e anche in questo caso la distanza con gli altri tipi di virus è notevole. punto di vista filogenetico, soprattutto in relazione ai grandi virus nucleo -citoplasmatici a DNA, i cosiddetti virus giganti, che infettano le amebe. "Molto dei virus che infettano le amebe sono stati classificati in diversi gruppi sulle base delle caratteristiche comuni", scrivono gli autori nell'articolo. "Yaravirus è potrebbe essere il primo rappresentante di una nuova categoria di virus che infettano il genere Acanthamoeba al di fuori del gruppo dei grandi virus nucleo-citoplasmatici a DNA oppure, in uno scenario evolutivo alternativo, si potrebbe trattare di un virus di dimensioni estremamente ridotte all'interno di questo gruppo". (red) |
Post n°2691 pubblicato il 01 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
FOTORicostruzione di un gruppo di tre esemplari di Dineobellator notohesperus, in primo piano insieme ad altre specie. (fonte: Sergey Krasovskiy) - RIPRODUZIONE RISERVATA+CLICCA PER INGRANDIRE Assomigliava a un velociraptor, il piccolo e temibile carnivoro reso famoso dai film della serie di Jurassic Park, ma era ricoperto di piume e dotato di ali. È uno degli ultimi dinosauri vissuti sulla Terra: risale al tardo Cretaceo, circa 67 milioni di anni fa. Lo dimostra lo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports dal gruppo di paleontologi dell'Università della Pennsylvania, coordinato da Steven Jasinski, insieme ai colleghi del Museo di Storia Naturale del Nuovo Messico. battezzato Dineobellator notohesperus, cioè guerriero Navajo del Sudovest, in onore del popolo nativo americano che vive nel territorio dove un tempo abitava questo esemplare. L'animale estinto appartiene alla famiglia di dinosauri piumati Dromaeosauridae, cioè lucertole che corrono. nell'attuale territorio del Nuovo Messico, negli Stati Uniti. I fossili mostrano alcune caratteristiche particolari dell'animale, come la capacità di flettere gli arti e la presenza di vertebre vicino alla base della coda curvate verso l'interno. e a migliorare il loro successo come predatori. La flessibilità della coda - conclude - poteva, ad esempio, aiutare l'animale a cambiare direzione durante la corsa, mentre inseguiva una preda". RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA |
Post n°2690 pubblicato il 01 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Coronavirus, scoperta una nuova via con cui invade le cellule Possibile progettare futuri farmaci, nuove ipotesi sul Particelle del coronavirus SarsCov2 sulla superficie di una cellula, ottenute dal Niaid (fonte: NIAID-RML) - RIPRODUZIONE RISERVATA+CLICCA PER INGRANDIRE Scoperta una nuova strada usata dal virus Sars-Cov-2 per entrare nella cellula umana, oltre a quella già nota del recettore Ace2: è il recettore dell'acido sialico, presente nei tessuti delle alte vie respiratorie e utilizzato allo stesso scopo anche dal virus della Mers. Una volta entrato, per replicarsi si serve di diverse proteine tra cui alcune in comune con il virus dell'Hiv. Lo indicano due studi dell'Istituto italiano di tecnologia su Arxiv. La scoperta apre a nuove ipotesi sulla sua contagiosita' e possibili farmaci da usare. Agli studi, che non hanno ancora superato il vaglio della comunità scientifica, ha collaborato l'Univrsità Sapienza di Roma. "Abbiamo sviluppato un nuovo modello predittivo per capire come le proteine sulla superficie del virus interagiscono con i recettori umani", spiega Giancarlo Ruocco, direttore del centro Iit di Roma. Qui i ricercatori hanno analizzato le interazioni della proteina Spike, con cui il virus aggancia il recettore Ace2 (lo stesso preso come bersaglio dai farmaci sartani e anti-ipertensivi), e confrontato la sua capacità di rimanergli legata. Con sorpresa è emerso che questa capacità era molto inferiore a quella del virus della Sars. Di qui l'idea di cercare un secondo recettore coinvolto. "Abbiamo così scoperto che per entrare nella cellula - prosegue Ruocco - il virus Sars-Cov-2 si serve anche dell'acido sialico, presente nelle alte vie respiratorie e utilizzato anche dal coronavirus responsabile della Mers". Ora bisognerà capire se la diversa mortalità e infettività del Covid-19 possa dipendere da queste due vie d'ingresso. "Ciò potrebbe chiarire - osserva - perché ci siano tanti casi asintomatici, ma questa è solo un'ipotesi che deve essere confermata,così come i risultati dello studio". L'altra ricerca, coordinata da Gian Gaetano Tartaglia dell'Iit di Genova, ha scoperto che la parte della proteina Spike che interagisce con il recettore dell'acido sialico cambia molto tra i vari ceppi di virus, il che potrebbe spiegare le grandi differenze di comportamento del virus osservate nelle diverse popolazioni. Ha anche studiato come agisce il virus una volta dentro la cellula per riprodursi. "Abbiamo così visto che oltre a servirsi di alcune proteine già note e in comune con altri virus, ve ne sono altre specifiche. Di queste ultime, una decina sono condivise con il virus dell'Hiv", precisa Tartaglia. Il suggerimento dei ricercatori è quindi "di provare a usare, tra gli antivirali sviluppati in questi anni per l'Hiv, quelli che agiscono in modo mirato su queste proteine - conclude - Anche in questo caso i dati devono essere confermati, e speriamo che questa nostra pubblicazione faccia da passa parola scientifico e ci faccia arrivare commenti utili per capire". RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA |
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