Creato da blubeluga il 01/08/2008

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Meriggio palermitano

Post n°1 pubblicato il 01 Agosto 2008 da blubeluga
Foto di blubeluga

Nel meriggio palermitano di quel 27 luglio 1967 l’aria soffritta dall’asfalto stradale del rione “Zisa” aveva un colore aranciato e una consistenza cremosa che si spalmava sulla pelle.

Il celestino opaco della cinquecento giardinetta risaliva, arrancando, Via Pitrè.

Alla guida Giannuzzo, sandalato, bandanato, canottato, abbronzato, sudato, affamato, esausto dopo la vendita domenicale di “Ficu du Pàiccu” a Piazza Indipendenza, pregustava il meritato ristoro di una cofana di pasta alla norma e successiva pennica sotto il ceuso, al fresco di Villagrazia.

All’incrocio con via Pindemonte, con le mani che sembravano tracine appena pescate, agguantò il sottile volante scivoloso per governare la secca svolta a sinistra, mentre un fitusissimo chiodo di ferro di cavallo, perso chissà quale mallitto zoccolo, con la testa infissa nell’asfalto caramellato, aspettava il passaggio della ruota anteriore destra della giardinetta per fare il suo lavoro di rummuluni sconzaiocu della santa duminica.

Alla sbandata della giardinetta, pure troppo teatrale a riguardo della sofferta velocità di trentallora che si poteva permettere, diede una chiantatina di freni e si fermò proprio davanti al cancello del manicomio.

Santiando come un turco incazzato come quando si incazzano i turchi, dopo avere divelto dalle loro amene posizioni ecclesiali tutti i santi del calendario, senza dimenticarne nessuno, sbarcò dalla giardinetta, tistiò, ringhiò in silenzio e aprì il cofano per prendere la ruota di scorta, il cricchio e il girabbacchino.

Dopo venti minuti di sudore, escoriazioni e bestemie, riuscì ad estrarre la ruota e andò a  riporla nell’apposito alloggiamento ricavato nel vano anteriore della giardinetta.

Manco il tempo di calarla nel pozzetto che due giovanissimi figli di buona madre improvvida e distratta, oltre che buttanissima, rincorrendosi l’uno con l’altro e giocando a ricostruire ad alta voce i rispettivi complessi alberi genealogici, si concessero il giocoso diversivo di fottergli tutt’e quattro i bulloni che aveva appena lasciato nel piattello copriruota.

Giannuzzo rimase li’, per due o tre minuti buoni, rigido come una pala legnosa di ficodindia allo scirocco, silenzioso come una cernia tunisina, disfiziato come un caciocavallo impiccato, cercando invano, con i due o tre neuroni che non gli si erano prosciugati, un altro santo da scendere dal piedistallo.

Non ne trovò, e, alzando appena lo sguardo per ciarare una boccata d’aria un po’ al di sopra dei fumi appestanti dei suoi cabasisi infiammati, lo vide.

Stava li, dietro la grata di una finestra, al piano rialzato.

Lo sguardo era vivo come quello di una sarda della Vucciria allampata dalle Osram da 300 watt. “Troppo vivo” avrebbe detto Giannuzzo, se gliene fosse fottuto qualcosa di esprimere un tale giudizio.

Canottiera bianca, pantaloncino blu, stempiatura brizzolata, si sucava beato e all’ombra (figghiu di buttana!) la sua nazionalesenzafiltro.

Quasi un gemello suo, pensò Giannuzzo, se non fosse stato per l’eccessivo pallore che contrastava col nero delle sbarre e la dentatura sana e bianchissima che affiorava dal sorriso ironico.

Non vedendo nessun’altra anima viva nei paraggi, fu a lui che rivolse lo sguardo mentre lanciava il suo ululato di disperazione.

“Miiiiiinchia, e ora comu fazzu?”

L’altro non si scompose, e tra una sucata nazionale e l’altra si espresse.

“Ci lo posso dare un consiglio?”

“Prego!” esclamò Giannuzzo, pensando: “Sulu chista mi mancava pi farimi a iurnata!”

“Picchi non smonta un bulloni per ruota e nni metti tri pi ognuna? Pi oggi arriva a casa, dumani pensa Diu!”

Come colto da un illuminazione che nel suo ciriveddro ci doveva pure stare, ma, si c’era, si nni stava ammucciata, Giannuzzo in tre minuti smontò i tre bulloni, e ci rimontò la ruota di scorta.

Con un sospiro di soddisfazione accompagnò il clank del cofano che si chiudeva e, con un piede già sul tappetino quadrettato del posto guida della giardinetta, si sentì in obbligo di ringraziare il fumatore di nazionali.

“Grazzi, grazzi! Mi detti a vita! Ma chiddu che non capisco è come uno comu a vossia po’ stari chiuso ddocu dintra!”

E il fumatore: “Io sugnu cca picchì sugnu pazzu, no picchì sugnu scimunitu! ….. Salutamu!”

Nel pomeriggio palermitano di domenicaventisettelugliosessantasette, dopo un lacerante stridio d’avviamento, la giardinetta di Giannuzzo riprese la sua sofferta risalita verso Villagrazia.

 
 
 

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