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Diego e Alex: i due miti di piazza brindisi

Post n°9 pubblicato il 06 Settembre 2006 da ayrton86as
Foto di ayrton86as

A grande richiesta riporto su questo blog i commenti di due dei calciatori più amati di piazza Brindisi, Diego Armando Maradona e Alessandro Del Piero.

Diego Armando Maradona

 Ognuno di noi ha le sue passioni e le sue predilezioni. Lo scrittore preferito, il cantante preferito, l'attore o l'attrice più amati, il pittore che ci incanta di più, la squadra del cuore.
Chi ama il calcio con pura e disinteressata passione, attribuendo ad esso il giusto valore, senza nulla concedere nè al cieco e folle fanatismo ultrà, nè allo snobismo che da sempre pervade certa illuminata intellighentia, non può non eleggere, nelle diverse epoche della sua vita da famelico appassionato, il suo idolo, il suo modello, il suo eroe, colui che incarna i propri sogni di bambino.
Il mito è l'eroe cui si vorrebbe un pò somigliare, il semidio di cui si vorrebbe avere un pò della sua forza, del suo coraggio, per poter affrontare il periglioso mare della vita con ardimento e potenza, per poter oltrepassare la barriera della finitezza umana e dominare il mondo.
Cinque lustri fa, in un'epoca ancora aurea per gli adoratori del Dio pallone perchè ricolma di artisti della pedata in ogni angolo del globo, scendeva su un prato erboso di Buenos Aires direttamente dal pianeta Marte un esserino, dalle corte gambette e dalla chioma cespugliosa e corvina. Un esserino che, noncurante del suo goffo corpicino e dei perfidi sorrisini degli abitanti di questo pianeta di poca fede, con sfrontatezza e impertinenza, castigò in pochi minuti chi aveva osato irriderne le doti prima della contesa. Costui era tal Gatti, portiere del Boca Juniors, il marzianetto esserino era tal Diego Armando Maradona, per il passaporto terrestre nato a Lanus, baraccopoli nella cintura di Buenos Aires, n.10 e maglietta rossa dell'Argentinos Juniors, piede sinistro ultraterreno e 3 goal alle spalle del povero terrestre portiere.
Lì su Marte si fece festa per le prime gesta di un proprio figlio, mentre la Terra cominciò ad essere attraversata da esclamazioni di stupore e moti di giubilo per questo inatteso dono del cielo.
Perdonatemi questa descrizione fiabesca di colui che diventerà il calciatore del secolo, ma trovo che non ci sia altra via per parlare di questo pestifero, irriverente, ma dolce e tenero ragazzo venuto dal nulla e dalla fame vera che farà sognare, gioire e disperare il mondo intero, unendo diverse generazioni di appassionati di tutte le età.
Non mi interessa qui ricordare i successi di Maradona. Tutto sommato non ha vinto tantissimo (anche se un mondiale vinto praticamente da solo e due scudetti vinti col Napoli valgono molto più di una sfilza di altri trofei), sicuramente poco rispetto al suo genio ultraterreno.L'inventario dei successi è uno strumento valido per la misurazione della carriera dei calciatori bravi, bravissimi, ma normali, umani. Campioni, campionissimi, ma che sempre hanno esibito la propria bravura con un certo controllo, con il lume della ragione sempre acceso, con il confine da non superare sempre ben nitido davanti a sè. Mi espongo, a costo di essere blasfemo. Campionissimi quali Pelè (per il quale io mi pongo in un'ottica opposta rispetto alla dottrina dominante: è Pelè il giocatore che più si è avvicinato a Maradona, e non Diego colui che più si è avvicinato a Pelè), Cruyff, Zico, Platini, Baggio, Van Basten, certamente giocatori eccezionali e geniali, hanno espresso una genialità "razionale", hanno incantato e deliziato sempre ben sapendo cosa, quando e come azionare la propria magia. Loro decidevano. Il cervello stabiliva momento per momento quali movimenti dovessero essere azionati, poi l'esecuzione era sempre perfetta. Diego no, Diego era un'altra cosa. Lui era il genio puro, la magia che si sprigiona spontanea, senza che nessun ordine la metta in moto. Diego era come il vulcano, come l'uragano, come il maremoto, come l'alluvione; puoi studiare il fenomeno, puoi azzardare un perchè, ma non saprai mai "il" perchè.
Diego era l'arte purissima, il genio naturale, depurato da ogni razionalità e da ogni intellettività.
Si può decidere di crossare in modo assurdamente perfetto col piede destro che va a incrociarsi dietro il sinistro? Si può decidere di palleggiare all'infinito con ogni oggetto, qualunque ne sia la dimensione, che sia appena rotondo? Si può decidere di colpire di testa un pallone che arriva dalla fascia quasi rasoterra? Si può decidere di palleggiare col tacco come si potrebbe con la mano? E potremmo continuare.
Non a caso ho citato questi colpi di Diego, e non altri, quali i dribbling ubriacanti a tutto campo, le punizioni tagliate verso il "sette" da ogni posizione, i goal da centrocampo col portiere leggermente fuori dai pali, ecc. 
Questi sono tutti colpi che ogni campionissimo, da Pelè a Cruyff, da Platini a Zico, da Baggio a Totti, da Mancini a Del Piero, ha avuto nel suo repertorio.
Diego aveva qualcosa in più, Diego era qualcosa di più.
Maradona era ciascuno di noi che quando andava all'oratorio o nel campetto sotto casa tentava di fare proprio quelle cose, il palleggio col tacco, tenere la palla incollata alla fronte il più possibile, calciare il pallone incrociando i piedi. Insomma, creare, giocare, ridere, godere col pallone tra i piedi, e basta.
Maradona ha incarnato più di chiunque altro il gioco del calcio, il giocare per puro divertimento, per gioire e dare gioia, per sorridere nella vittoria, per piangere nella sconfitta. Il cuore, il sentimento, la passione al primo posto.
Ma Diego fu solo giocoliere? Assolutamente no, guai fraintendere! Diego è stato un campionissimo a tutto tondo, esempio e guida per i compagni, mai superbo ma sempre caritatevole verso il compagno in difficoltà, carismatico, autorevole nello spogliatoio, un vincente di spessore assoluto, seppur bizzoso e dai (noti) comportamenti tutt'altro che irreprensibili lontano dal campo. Bastava la sua presenza e i compagni, quando pareva non dovesse arrivare, tiravano un sospirone di sollievo:"ragà, Diego è arrivato, oggi si vince".
Tanto genio e marziano sul campo, quanto umano, umanissimo fuori dal rettangolo verde. Tanto forte e coraggioso con quel pallone tra i piedi, quanto fragile e spaurito nello scorrer quotidiano. Ma non ti giudico, Diego, nè ti coccolo a mò di vittima. Svilirei la tua fierezza.
Nè diavolo, nè vittima, hai scelto (l'hai detto tu) di consumarti e di superare il limite, proprio come facevi in campo. Ma io non ti giudico.
Troppa gioia mi hai dato per farti un solo rimprovero. Ma una cosa non posso perdonartela: mi hai sottratto altri 5/6 anni di divertimento. Se, solo per una volta, avessi deciso di non superare il limite! Invece no, hai voluto essere Maradona fino in fondo.
Quanto mi hai e ci hai fatto gioire e godere, Diego, e quanto ci hai fatto disperare quando insaccavi impietoso nella porta della nostra squadra del cuore col tuo genio che tutto rendeva impotente.
Quanto mi hai fatto piangere, Diego, l'altra sera, quando per quel tuo eterno bisogno d'amore e d'affetto (che il più delle volte ti giungon falsi) ti sei umiliato ad apparire deformato nel corpo e sfinito nello spirito e hai costretto i tuoi compagni a giocare come si fa coi bambini: dargli sempre la palla e farli segnare per renderli contenti.
Hai pianto tanto, Diego, e tanto abbiam pianto anche noi. Il mito, il semidio si faceva per sempre uomo, e tutta la Terra divenne più triste.

Alex Del Piero

Alex, il capitano

In Italia si sa, quando si parla di calcio, siamo tutti allenatori e commissari tecnici; al bar, in strada, a scuola,al lavoro, in televisione ci si può comodamente sbizzarrire a gettare sentenze e a dare valutazioni sullo sport più amato e seguito del nostro paese e sui suoi protagonisti.
Tutti, al contrario di altri sport e altri argomenti, sono tenuti a farlo, nessuno escluso; e spessissimo, a chi di calcio ne capisce un po’, tocca doversi sorbire sproloqui e arringhe da parte di chi il pallone nella sua vita lo ha visto rotolare solo al parco giochi e non davanti ai suoi piedi: peccato di sport nazionale.
Tutto ciò però non avviene solo al bar, fatto che può essere sopportato, ma anche sulle prestigiose colonne di importanti e prestigiosi giornali del settori, dove pseudo-giornalai ( e non giornalisti), giudicano senza saperlo fare, dall’alto delle loro 3 presenze, ad essere larghi, in una buona terza categoria,
C’è un giocatore che da anni è vittima dell’ignoranza delle sopra dette categorie; c’è un giocatore che ha la sfortuna di essere il capitano della squadra più vincente e quindi più odiata d’Italia; c’è un giocatore che, al contrario di altri suoi colleghi, deve dribblare in campo prima il peso enorme che gli viene affibiato sulle spalle e poi gli avversari.
Il luogo comune, tanto odiato e tanto inerpicato nell’opinione pubblica, vuole che questo calciatore, dopo aver stupito il mondo intero con giocate straordinarie e dopo aver vinto tutto ciò che c’era da vincere, sia incorso, questo purtroppo veramente, in un bruttissimo infortunio che gli ha fatto esplodere il ginocchio, e da quel momento, come per magia, sia diventato un mediocre, anzi uno scarso, uno che è meglio giocarci contro che averlo con sé.
Strano, però, che quello che la gente per strada definisce da anni “finito” abbia finito, invece, solo con il segnare, da quel pomeriggio friulano, oltre 100 gol contribuendo, in maniera netta alla vittoria di 3, anzi 2 incrociando le dita e anche qualcos’altro,scudetti, 2 supercoppe italiane e ad esaltanti cammini in Champions League e consegnando, nelle mani di un ex mediano ora mediocre allenatore post-medioevale, due qualificazioni a mondiali ed europei.
Tutto ciò non basta ad un vecchio fantasista trentenne per non essere messo in discussione ogni 3 partite, sostituito ogni 60 minuti, fischiato ogni stadio, bocciato ogni pagella: non basta perché la gente vuole così, lo vuole capro espiatorio degli insuccessi tricolori e capra educata nel gregge della mediocrità pallonara; ho sempre sostenuto, per far un esempio, che se il suo nome fosse Francesco, se giocasse in una squadra benvoluta,se prendesse a calci e a pugni da anni i suoi marcatori che lo usano come sfogo domenicale, se facesse più public relation e più ospitate in laccati e sniffati locali vip, se avesse sposato una velina e non una splendida ragazza di provincia, a quest’ora sarebbe considerato per quello che è, e non per quello che lo vogliono far essere.
È innegabile, certo, che dopo l’infortunio il ragazzo, ormai diventato uomo, abbia flesso il suo rendimento, nel senso della continuità; ha sempre fatto ciò che sapeva e sa fare ma lo ha fatto prendendosi le pause che il suo fisico non più sano necessita, lo ha fatto tra molti altri problemi fisici, lo ha fatto con un peso sempre crescente sulle spalle, lo ha fatto tra la malattia e la morte del padre, lo ha fatto tra la forca della finale degli europei e l’umiliazione della panchina, lo ha fatto impersonificando la serietà ed il carisma della squadra di cui è capitano.
Lo ha fatto e chi dice il contrario lo dice, non per opinione, senz’altro legittima, ma per malafede e per partito preso perché il pallonetto su Gillet tre giorni dopo la morte del padre, l’urlo sotto la Scirea dopo il gol-scudetto del 5 maggio, il ballo sublime contro il Real, il cielo dopo la testa contro il Messico sono solo icone rappresentative delle gioie che ha regalato alla sua gente, a quelli che lo hanno sempre sostenuto ed amato.
Ed è per quelli, solo per quelli, che domenica scorsa nella sfida più importante di tutto il campionato, ha fatto ciò che solo un campione sa fare, stupire, con la cosa più difficile da fare e più veloce per raggiungere l’obiettivo; una rovesciata per chi, Alessandro Del Piero, è ancora e resterà sempre la cosa più bella che c’è….

Federico Abiusi

 
 
 
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