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27 Gennaio 1945... Per non dimenticare

Post n°133 pubblicato il 27 Gennaio 2007 da ayrton86as

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Oggi , 27 gennaio, si celebra la liberazione, da parte dell'Armata Rossa, del campo di sterminio di Auschwitz. Questo giorno è il Giorno della memoria, dove non si deve dimenticare ciò che è stata una delle pagine più nere della storia dell'umanità. Quasi 5 milioni di persone, tra ebrei, slavi, portatori di handicap, omosessuali e testimoni di Geova furono sterminati nei campi di concentramento costruiti dal governo Nazista. Non ci sono parole per descrivere quello che è accaduto in quel periodo, solo chi lo ha vissuto può raccontare quell'orrore, quel crimine di una gravità smisurata. Girando su internet ho trovato una testimonianza che mi ha colpito a tal punto da condividerlo con chi visita questo blog. Questa è la testimonianza di un deportato italiano: Pietro Terracina

Piero Terracina

“Ero stato educato all’amore per lo studio, per la scuola. Mia madre non tralasciava occasione per ricordarci che per riuscire nella vita bisognava prima riuscire nella scuola. A volte penso che mio padre mi rimandò in quella scuola per farmi toccare con mano le avversità a cui eravamo costretti. Era un antifascista, non militante, ma un antifascista”. Il 15 novembre entrò regolarmente in classe e si diresse verso il suo banco, come faceva da un mese e mezzo. Tutti i suoi compagni si fermarono in silenzio, ad osservarlo. L’insegnante lo bloccò e gli disse: “Esci, che tu non puoi stare qui”.

L'arrivo al campo

“Sono stato arrestato a Roma con la mia famiglia. La notte del 17 maggio del ’44 ci misero in 64 in un vagone. Fu un viaggio allucinante, tutti piangevano, i lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, sarebbe bastato uno sguardo di pietà. Le SS sorvegliavano il convoglio. Viaggiavamo nei nostri escrementi: Fossoli, Monaco di Baviera, Birkenau-Auschwitz I. arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure vedevamo le SS con i bastoni e i cani. Scendemmo, ci picchiarono, ci divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratellini, di mia madre, noi non capivamo, lei sì: mi benedì ala maniera ebraica, mi abbracciò e disse “andate”. Non l’ho più rivista. Mio padre, intanto, andava verso la camera a gas con mio nonno. Si girava, mi guardava, salutava, alzava il braccio. Noi arrivammo alla “sauna”, ci spogliarono, ci tagliarono anche i capelli. E ci diedero un numero di matricola. “Dove sono i miei genitori?”, chiesi a un altro sventurato. E lui rispose: “Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì”.

 

Il suo ritorno da Auschwitz

Gli artefici della mia resurrezione sono stati gli amici, senza di loro non so se ce l’avrei fatta. Mi hanno preso sotto la loro protezione, sapevano che io non amavo parlare della grande tragedia che mi era piombata addosso e non mi hanno mai chiesto niente, hanno fatto sempre il possibile per farmi sentire una persona normale anche se non si può essere “normali” uscendo da Auschwitz. Non mi lasciavano mai solo e questo è stato molto importante. Ero considerato uno del gruppo e loro sopportavano certi miei silenzi, certi pensieri… in alcuni momenti mi assentavo completamente e i miei amici non c’hanno mai dato peso. Facevamo tutto insieme: gite, villeggiature, vedevamo le partite di calcio, andavamo al cinema, a teatro, a ballare, ai concerti (…). Era una compagnia molto affiatata e allegra composta quasi esclusivamente da ragazzi e ragazze ebrei. Con loro e con i miei parenti per molti anni non ho parlato di quello che mi era accaduto. Temevo soprattutto che mi chiedessero come mi ero salvato… mi terrorizzava il fatto che qualcuno potesse chiedermi “Perché tu ti sei salvato e mio figlio o mio marito no?”. Poi pensavo che se io avessi parlato di certe cose a molta gente avrebbe dato fastidio, o quantomeno qualcuno avrebbe pensato: “Che va dicendo, non è possibile…”; inoltre raccontare del lager avrebbe significato in parte rivivere quelle situazioni ed io volevo sembrare una persona come tutte le altre, non dico “essere” ma almeno “sembrare”. E così è andata: di giorno cercavo di fare una vita più normale possibile e di notte molto spesso mi ritrovavo a fare i conti con il mio passato nel lager. Sognavo continuamente di Auschwitz, era una specie di doppia vita.

 
 
 
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