Creato da Il_casellante il 24/01/2008
storie in transito
 

 

FRANCOBOLLI

Post n°50 pubblicato il 31 Dicembre 2009 da Il_casellante
Foto di Il_casellante

Nell’ufficio postale in via Darsena, mi precedono due  vecchie e un marocchino. Dietro la fila è lunga e irrequieta.  Confabulazioni nervose e borbottii. Colpi di tosse. La gente ha di meglio da fare.  La farmacia che chiude, il  pranzo che si raffredda, gli appuntamenti che incombono.  Le agende sono fitte di preoccupazioni  e affari da sbrigare in fretta. Troppo lento, il marocchino. A chiedere e a capire. Mostra un foglio sgualcito all’impiegata dello sportello. L’infila sotto il vetro, ma lei lo respinge. Manca la marca da bollo, le caselle non sono sbarrate, ci vuole un  codice da qualche parte. Perciò, fai il bravo, amico… La gente aspetta.

Si chiama Mohammed Alì. Per l’impiegata, signor Mohammed. E non è suo amico. Può fare il bravo, senz’altro, purché gli si dia del lei e si ragioni con pacatezza. Il timbro postale c’è, in alto a destra. Il marocchino stampa il foglio contro il vetro, premendo con la mano aperta. Il vetro scricchiola, l’impiegata sospira. Quello è un francobollo di posta prioritaria. La marca è diversa. Come si fa a spiegare? Mar, ca, da, bol, lo.  Ta, bac, ca, io. Vai… Vada.  An, da, re. Esatto. Molto bene. Già andato. Già mostrato foglio al signore ch’era lì. Signore di sigarette. Lui visto. Lui dato. Mohammed comprato timbro. Allora? No timbro. Timbro no buono. Diverso. Altro timbro. Quat,  tor, di, ci, eu, ro,  e, ses, sen, ta.    Schiaffo al vetro, sospiro. Daccapo. Le anziane signore si spazientiscono. Mi stia a sentire giovanotto… Ehi tu, signorino… Senti coso… Una lo affianca a destra, l’altra a sinistra. Poi lo stringono come Pinocchio in mezzo ai gendarmi. E continuano a spingere con le spalle ossute finché non lo scalzano. Tempo scaduto. Fine della conversazione. Adesso è il loro turno. Segni e sintomi di approvazione dalle persone in coda. Brusio di sostegno. Il marocchino retrocede blaterando. Del foglio non sa più che farsene. L’accartoccia e lo scaglia in aria. Stupido foglio. Fottuta impiegata. Mohammed se ne va, visibilmente alterato. Uscendo vorrebbe sbattere la porta, ma è regolata da un sistema a molla che ammortizza lo strattone. Stamattina non gliene riesce una. Voci indignate tutt’intorno a me.  Farebbe bene a tornarsene da dove e venuto. Lui e tutti i compari suoi. Vai… Vada. Andare.

 
 
 

NOTIZIE DI CRONACA

Post n°49 pubblicato il 30 Dicembre 2009 da Il_casellante
Foto di Il_casellante

“Diverse fazioni della setta islamica radicale Kata Kalo si sono fronteggiate a Bauchi, nel nord del Paese”.

“Predisposti piani di evacuazione a Viareggio, Camaiore e Massarosa”.

Mentre inzuppa il cornetto nel suo abituale cappuccino molto caldo con poca schiuma, al Bar Vida in via Mazzini, durante l’ora di pausa che sempre si concede tra le dieci e le undici, quando nel sangue sente calare gli zuccheri perché stamattina si è svegliato tardi e non ha fatto colazione, Sandro Penna sfoglia il Corriere della Sera,  cospargendo di briciole 70 nigeriani morti e tre pompieri inzuppati che impilano sacchi di sabbia sulle sponde del lago Massaciuccoli. Mastica, deglutisce, beve un sorso, si lecca le labbra, e ragiona. 29 dicembre 2009.

- Che minghiate succedono! Secondo te, a che pensa la gente?

Appoggiato di lato al bancone, pesco dal mucchio una bustina di zucchero e la schekero  tra l’indice e il pollice. Osservo la bonaccia dentro la tazzina del mio caffè. Inarco le sopracciglia per non dire niente. Pensa a ciò che vuol pensare. Il caffè non mi interessa. Meno ancora la gente. Troppo presto per la pausa. Le dieci. Troppo tardi per la colazione. Forse non dovrei essere qui. Alle dieci non ho voglia di discussioni generiche. Chiudiamo in fretta il bilancio, e torniamocene a casa. Ma lui, il dottor Sandro Penna, presiede e comanda. Chi è tra noi più alto in grado? Più vicino ai vertici dell’Azienda? Più titolato a scandire i tempi del lavoro e del riposo altrui? In ufficio stavo preparando le slide per la presentazione del ‘Prospetto annuale - spese di rappresentanza’, quando entra il capo, gira guardingo intorno alla mia postazione, scuote la testa e spegne il computer.

- L’avevi salvato?

Questo scherzo gli piace: interrompermi all’improvviso. Non ho idea. Forse per il gusto infantile del dispettuccio, o il frustante tentativo di riuscirmi simpatico coi suoi atteggiamenti goliardici e camerateschi.

- Salvo sempre. Sono abituato.

Pazienza.

- Mica ti sei arrabbiato?

Mica.

- Tanto ormai… Hai già fatto colazione?

Si.

- Andiamo al bar.

Poi, afferrandomi entrambe le spalle da dietro, con uno strattone, Sandro  Penna mi raddrizza la schiena.

- Dovresti correre un po’. Muoverti. Tonificare. Sempre mogio. Sempre gobbo. Non ti sei ancora rotto? Andiamo, su. Un anno finisce e uno incomincia. Daccapo, Madonna, daccapo! Tram e tratràm. Tratatràm. Non sei fuori anche tu? Stanco. Assuefatto. Io, stamattina, per tirarmi su dal letto… Fiuuu! E adesso non ci vedo più dalla fame.

Perciò usciamo e facciamo colazione insieme, io e il dotto Sandro Penna, al Bar Vida, in via Mazzini, mentre i Nigeriani si scannano e il lago esonda.

- In Africa, per esempio, nessuno ha di meglio da fare? Catacalo.  Hai letto? “Il leader del gruppo è accusato di aver ucciso membri della setta Boko Haram.”  Vuoi farti un giro? Un bel week-and a Bausci? Grand hotel Cataclò.! Venghino signori venghino! Discoteca Bokarràm!  Salta, salta salta! Mondo merda, l’umanità è in rovina. Neppure a Viareggio si può star tranquilli.

 

 
 
 

SEI METRI E QUATTORDICI SOPRA IL CIELO

Post n°48 pubblicato il 21 Maggio 2008 da Il_casellante
 
Tag: Giulia
Foto di Il_casellante

Per contare i cinesi sulla punta delle dita, bisognerebbe avere duecentosessantatré milioni di mani. I cinesi, tutti insieme, ne hanno oltre un miliardo, e nessuna riposa, inerme e improduttiva, dentro le tasche del paletot o nel palmo ozioso di un’altra mano. Coi limiti che si voglion trovare – e si posso piuttosto facilmente: il comunismo, sommato al capitalismo, produce crimini e  soprusi per conto di entrambi – resta il dato acquisito che i cinesi  sono un popolo di lavoratori. Giulia è convinta che ci sottometteranno. Molti popoli patiscono la fame: gli africani quasi per intero, gli iracheni, gli iraniani, i palestinesi, i campesinos e  le ragazzine anoressiche che vogliono diventare modelle. Giulia li compatisce tutti, ma i cinesi li teme. Anche i cinesi mangiano poco. Nessun regime genera benessere. Recentemente Giulia ha letto Orwell: mantenere il proletariato in uno stato continuo di bisogno è lo strumento principale attraverso il quale il Partito  sostiene il proprio potere sulle masse. Giulia mi dice: “Fatti un giro in Cina, e vedrai quanti sono un miliardo e trecento milioni di  cinesi: il più grande proletariato della storia!” In Cina non ci voglio andare. Giulia insiste: “Vacci, e sappimi dire se davvero mangiano tutti.” Come nel doppiofondo delle mercerie e dei ristoranti, Giulia pensa che in Cina esistano enormi masse di poveri stipate nel retrobottega. Gli involtini primavera e gli spaghetti di soia sono un diversivo per distogliere l’attenzione dal vero problema. Giulia mi avverte di stare in guardia. Il libero mercato è insufficiente a garantire la democrazia. Giulia sa che in Occidente ci sentiamo l’avanguardia del genere umano. Mi chiede: “Credi di essere libero, tu?’. Abbastanza. Mi chiede: “Perché?” Perché mangio tre volte al giorno, dormo otto ore per notte, leggo il Manifesto, e godo del diritto di pensarla come mi pare. Ma, soprattutto, me ne frego. Giulia mi accusa di essere un altro pesce che abbocca all’amo della spensieratezza, mentre il cielo precipita. Non ho capito. Mi rosicchio un’unghia. Giulia mi chiede se ho capito. Annuisco. Giulia prova a spiegarsi meglio. Io credo di essere libero perché penso di essere schierato dalla parte del più forte. Cioè del più ricco. Senza considerare che un sistema fondato sulla forza dei ricchi presuppone, intrinsecamente, la debolezza dei poveri. Adesso ho capito: è colpa mia.  Ma non condivido. Per questo Giulia ripete che io me ne frego: perché non mi sento responsabile. Provo a difendermi. A me, per esempio,  non piacciono le armi. Detesto tutto ciò che può far male, senza altro scopo. Con un coltello si affettano uomini, ma anche si sbucciano le mele; con un Suv si investono i pedoni, ma anche si viaggia per conoscere  il mondo. Qualunque oggetto d’uso comune è un’arma potenziale, ma serve ordinariamente per scopi pacifici. Le bombe e i fucili no. Sono armi in atto. Non mi piacevano neppure da piccolo. Niente soldatini di piombo, fortini del far-west o pistole ad acqua: io preferivo giocare con le automobiline. Più dei carri armati,  mi piacevano le ruspe. E da grande sognavo di fare il manovratore nella cabina di comando in cima alle gru meccaniche. Stando in alto, avrei fabbricato case e palazzi per tutti i poveri del mondo.  Giulia ride. Non capisco. Mi rosicchio il pollice. Ride di me e dei miei discorsi paradossali.  Giulia non vuole che io le dimostri di essere buono. Giulia sa che io lo sono. Era buono mio padre, un onesto lavoratore; era buona mia madre, donna devota; sono buono io, bonaccione. Anzi Giulia considera la bontà un mio difetto: io sono troppo buono. La bontà mi rende tranquillo. Troppo tranquillo, mentre i cinesi avanzano. Adesso rido anch’io del folle discorso di Giulia, e rinuncio a capire. Penso che io e Giulia dovremmo amarci subito, e mettere al mondo un figlio. Chiedo a Giulia se vuole sposarmi. Giulia smette subito di ridere. Si mordicchia l’unghia del pollice. Pensa anche lei, chissà a cosa. Forse alla petizione contro le Olimpiadi a Pechino, che stasera vorrebbe obbligarmi a firmare. Forse a Sergei Bubka che tenta  il nuovo primato mondiale di salto con l’asta. Si concentra. Oscilla su sé stesso due o tre volte. Poi si lancia nella rincorsa. L’asta si impunta, si incurva, e lo catapulta in aria. Bubka sorvola l’asticella. L’asticella vibra, dentro la testa di Giulia. E non cade. Il salto è valido. Sei metri e quattordici verso il cielo. Standing ovation nello stadio gremito. Giulia ha detto sì.

 
 
 

BREVE STORIA DEL MIO MAL DI SCHIENA

Post n°47 pubblicato il 12 Maggio 2008 da Il_casellante
Foto di Il_casellante

Soffro il mal di schiena, a periodi. Va e viene. Qualche volta ingoio una pillola di Voltaren, più spesso niente: aspetto che passi. Quasi sempre il dolore sparisce entro un paio di giorni, senza lasciare residui. Quasi sempre, all’improvviso, riappare. Giulia minaccia di trascinarmi dal medico per le orecchie. Giro in scooter col cattivo tempo, sollevo pesi, non mi asciugo a dovere quando faccio la doccia. Se il mal di schiena resiste, la colpa  è mia che lo trascuro. Giulia mi legherà mani e piedi, come i capponi al mercato. Dal medico di corsa!  Non ammette ragioni. Giulia funziona come la mia schiena: quando mi ostino a non darle retta, si incattivisce.  Le prometto che chiamerò subito il dottore per fissare un appuntamento. So riconoscere  i miei torti.

Alle quattordici e trenta di venerdì nove maggio siedo in sala d’aspetto sfogliando una vecchia copia di Novella Duemila. Dentro una stanza azzurrina, sei persone ingannano il tempo: si alzano, si siedono; si toccano spesso, ora i capelli, ora il viso, ora un lembo fuori posto del vestito; leggiucchiano, parlottano. Io sono il sesto. Come gli altri ho appuntamento per le tredici in punto. Mezz’ora d’anticipo non è sufficiente. Certamente tra i presenti qualcuno ha saltato il pranzo per essere qui prima di me. I pazienti del dottor Marconi sono abituati. Il dottore non è ancora arrivato. Alle tre, forse, o alle quattro, se aveva altre visite nell’ambulatorio specialistico. Magari alle sei, se le altre visite sono tante. Il dottore arriverà. Bucatemi una vena con l’ago: io non ho paura delle siringhe. La vista del sangue mi raccapriccia, però non svengo. Ditemi in faccia che la mia schiena è incurabile, e io pazienterò. Quel che detesto delle visite mediche è l’incertezza dell’attesa. Prima o poi il dottore arriverà. Esco in strada a fumare una sigaretta. Gironzolo intorno ai bidoni dell’immondizia, leggo le etichette della raccolta differenziata, torno dentro, mi siedo, apro una rivista a caso, fantastico sul topless di Gaia de Laurentis, risolvo il maxi cruciverba in  ultima pagina, guardo l’orologio rotondo affisso alla parete, sorrido ad un signore anziano, ragiono di politica con una ragazzetta, guardo l’orologio rotondo, mastico un chewingum, tamburello con le dita, mi sgranchisco, sbadiglio, guardo l’orologio, fa caldo, sono irrequieto, l’aria ristagna, il tempo è fermo. Sono sempre le tre. Sempre, maledettamente, le quattro. Quattro e un minuto, quattro e due minuti. Sono già fottutamente  le cinque. A volte il dottore non arriva. Alle diciassette e quarantacinque del nove maggio  duemileotto, seduto in sala d’attesa, nervoso e maldisposto, la schiena smette di farmi male. Noi ci intendiamo. Le presto attenzione quando scapriccia, ma lei capisce sempre quand’è giunto il momento di lasciarmi stare. Come tra me e Giulia. Tornerò a casa. Non mi serve un medico. Giulia mi chiederà della visita, per sapere com’è andata. Le dirò: tutto bene. E’ ancora troppo presto per invecchiare nelle sale d’attesa.

 

 

 
 
 

PORCI CON LE ALI

Post n°46 pubblicato il 08 Maggio 2008 da Il_casellante
 
Foto di Il_casellante

Roberto non s’è neppure informato. Stabilire se l’animale vale più da vivo che da morto è una storia inutile, perché a Roberto il maiale non interessa. Non trova uno spazio mentale dentro il quale collocarlo. Le salsicce si comprano al supermercato, pronte da cuocere. Un fedele socio Coop si colloca ad un preciso livello della catena alimentare: dopo gli allevatori,  i macellai e, soprattutto, dopo i commercianti. Subito prima di sedersi a tavola. Noi non siamo contadini. Il maiale è roba che non ci riguarda. Noi spingiamo avanti un carrello. Troviamo soddisfazione ai nostri bisogni acquistando prodotti finiti. A Roberto sta bene, a Veronica no. Nubi di piombo si addensano tra i loro sguardi tesi come gli elastici di una fionda. Veronica macellerà Roberto: una coltellata nel  basso ventre, lenta e lunghissima. Poi vuole infilargli un gancio dov’è maggior vergogna, e appenderlo a sgocciolare con la testa all’ingiù. Inutile cercare una mediazione. Sulle questioni che prevedono una  possibilità d’accordo tra l’uomo e la donna,  non occorre convocare il comitato degli amici.  Io Giulia Anna Cesare e Marta siamo qui riuniti per scongiurare una crisi di coppia. Ci assumeremo la responsabilità di decidere la sorte del maiale, e la colpa conseguente, per Roberto o Veronica, di emettere una sentenza iniqua.  In fondo, a che servono gli amici? Roberto vota per vendere il maiale  ancora vivo a chi sa come  trattarlo: noi no; il contadino, invece, avrà il coraggio e la competenza di sgozzarlo, spellarlo, sbudellarlo, disossarlo e quant’altro si deve. Veronica, al contrario, si batte con le unghie per salvare il suino dai crimini del cannibalismo capitalista. Come Giulia, anche lei pensa che potremmo adottare il maiale, per ragioni di natura etica. Il vegetarianismo per Veronica è più di un regime alimentare salutista. Bisogna scegliere da che parte stare. Ad Occidente siamo tutti tendenzialmente diabetici e ipercolesterolemici perché la nostra dieta è satura di grassi animali. Questo determina un’alterazione degli equilibri ecologici e fomenta un’iniqua distribuzione delle risorse primarie. Esattamente Veronica non dice attraverso quali collegamenti; o forse sono io che non capisco. Nel mondo si produce troppo foraggio (okay) per allevare il bestiame (può darsi) con cui si producono le bistecche per la tavola dei ricchi (ammettiamo). Poi le multinazionali  congiurano col governo americano per affermare il privilegio degli oppressori (come ovviamente farei anch’io, mangiando bistecche). In mezzo al discorso di Veronica devo aver smarrito qualche passaggio. Mentre Veronica cerca di convertirmi al pacifismo militante,  una vampa di fuoco le arrossa il viso e le gonfia il seno. Questo mi distrae molto: quando i discorsi diventano passionali, il filo del ragionamento si aggroviglia e io, per lo più, mi metto a pensare ad altro. Veronica è una ragazza sanguigna. Spalle quadrate e petto capiente, ama la lotta e ama Roberto. Magro, alto alto, un po’ curvo ed anemico. Penso, per esempio, a Dio che gioca. Al piacere birichino con cui  li accoppia. L’elementare attrazione delle cariche opposte è una forza semplice che rimescola gli uomini e le donne, impastando l’umanità futura. Quale discendenza produrremo? Veronica propone un modello nonviolento a base di sole verdure. La scelta è tra Abele e Caino. Noi non staremo dalla parte del sangue. Cesare sembra aver capito. Annuisce platealmente. Applaude. Sbatte i piedi per ricreare il tumulto delle piazze in rivolta. Scandisce slogan per l’abolizione delle salsicce. Infine torna improvvisamente serio. Comprende le buone intenzioni di Veronica, ma, ugualmente, non trova un collegamento concreto col nostro maiale, cioè il maiale di nonno Benito, cioè di Roberto, suo legittimo erede. Finché si discute di maiali simbolici, oppressi e diseredatati, Cesare ammette girotondi e cortei. Ma il nostro maiale non è del popolo. Neppure dell’umanità reietta, che noi, qui, adesso, quattro cani sparuti, non possiamo salvare. Vendere è la soluzione più semplice, perché tutti ci schifiamo di  accompagnare il maiale al patibolo, ma uno solo tra noi non si troverebbe (a parte Veronica e, forse, Giulia) disposto a riempire la mangiatoia e spalare merda nella porcilaia. Infine, nulla esclude che Giulia e Veronica, se proprio Roberto decidesse di vendere, comprino loro il maiale: libere, allora, di prenderselo in casa e ammaestrarlo. Chi di noi volesse, potrebbe anche aiutarle, magari partecipando all’acquisto. Lui, comunque appoggia Roberto, e del maiale mette in chiaro che non intende occuparsi in alcun modo.  I maiali si rotolano nel fango ed emanano cattivi odori. Il sangue macchia le camice irrimediabilmente. Col maiale Cesare non desidera alcun contatto, né da vivo né da morto. Se davvero Veronica e Giulia ne sono convinte, adottino loro il maiale; da Cesare non pretendano. Giulia, però, non ha soldi e tempo abbastanza. Protesta che allevare una maiale in due, sola con Veronica, l’affaticherebbe troppo. Comunque lei è convinta che il maiale, vivo o morto, non sia il nocciolo dell’oliva che sta masticando. Con gesti enfatici lo sputa nel palmo della mano, stringe il pugno, soffia sulle nocche, schiude le dita una alla volta dal pollice al mignolo, e ce  lo mostra come fosse un diamante su un vassoio d’argento: il seme ancestrale dell’umanità; l’origine della specie; il nocciolo rosicchiato dell’oliva . Marta spalanca la bocca. Anna si gratta il sopracciglio. Io continuo a non capire. Mangio un salatino e bevo un sorso di spritz. Cerco di ricapitolare.

-          Roberto vende. Cesare vende. Giulio, non pervenuto. Marta e Anna si astengono. Due voti per vendere, un voto di Veronica per allevare il maiale. Giulia, tu il nocciolo a chi lo dai?

-          Il centro vero di questa inutile storia, Cesare, Roberto, non è il maiale. Veronica, scusa, non è neppure la pace nel mondo. Io penso che il nocciolo dell’oliva siamo noi.           

Dal punto di vista di Giulia, il problema verte intorno a questioni circoscritte: cosa ci occorre, dove procurarci il mangime, come imparare l’arte di accudire un maiale. Per gioco o per prova. Ci manca forse il coraggio? L’ingegno no di certo. I soldi neppure, ed il tempo si troverebbe, purché tutti contribuiscano. Per un gruppo di amici che decidono di allevare un maiale, Giulia prevede mille comiche peripezie. Misura divertita l’altezza dei tacchi di Anna, aggiusta il nodo della mia cravatta, si risistema il filo del tanga sotto i jeans stretti a vita bassa. Ride di noi così bene agghindati, mentre ci immagina col fango alle ginocchia e il naso tappato, a spalar merda nella porcilaia. Perché non provare? Forse è proprio una storia inutile, ma, infondo, anche Alberto dice sempre: ‘i finali migliori si sviluppano spesso da trame collaterali.’ La mia teoria degli esiti imprevisti: i  risultati che sfuggono all’indagine della storia, abitualmente trascurati anche dalla fantasia dei romanzieri.  Quando Giulia mi cita in giudizio, è segno inequivocabile che si aspetta da me un appoggio incondizionato. E’ vero: mi piacciono le trame ordinarie del frattempo perché custodiscono, in un solo istante, miliardi di vite, reali o immaginate. Mi emoziona l’idea che la vita accada dappertutto, contemporaneamente, in ogni forma possibile, senza che questo enorme palpito produca un collasso energetico del pianeta. Io credo che nessun istante ci appartenga in via esclusiva. Adesso, per esempio, alle diciannove e venti del due di maggio, bevo uno spritz con gli amici in Piazza Ariostea. Altrove, alla stessa ora, altra gente starà facendo altre cose. Per esempio a New York. Io non ci ho mai messo piede. So semplicemente che New York esiste, contemporaneamente a me, in un posto diverso. A New York non ho amici, né parenti, né alcuno che abbia mai conosciuto di cui possa ragionevolmente dire che stasera potrebbe trovarsi a New York. Io però immagino New York, tumultuosa e affollatissima, piena di gente che non conosco. Anzi, se chiudo gli occhi, la vedo. Strade affollate che sfrecciano in mezzo a grattacieli vertiginosi; il flusso caotico delle automobili ingorgate da cui ristagna a mezz’aria un asfittico odore di benzina e metallo; milioni di abitanti in transito attraverso le loro esistenze ordinarie da newyorkesi del duemilaotto.  A spasso lungo la Fifth Avenue vedo gente che non esiste: prototipi di possibili altre vite, che circolano assieme alla mia nel groviglio gigantesco di anime e corpi venuti al mondo.  Persone che non conosco, se chiudo gli occhi e  le posso vedere, passeggiano dentro la mia testa: involucri di  vite che nessuno abita veramente, a parte la mia immaginazione. Più che agli altri, quelle vite mi appartengono: ciascuna di essa potrebbe rappresentare un potenziale sviluppo della mia stessa  esistenza, se io non l’escludessi perentoriamente, standomene qui, in piazza Ariostea, a bere lo spritz con gli amici. Certamente un giro a Central Park mi intrigherebbe. Potrei trasferirmi a New York, vivere a New York, morire a New York. Ma non accadrà. Come i sondaggisti e i romanzieri tendiamo a percepire le nostre vite in funzione di poche traiettorie portanti, escludendo istintivamente ogni fatto, ogni pensiero, ogni emozione secondaria. Percepiamo della vita soprattutto la dimensione temporale: cause che produco effetti, momenti che si susseguono, prospettive. Io penso che il passato e il futuro siano tempi privi di una dimensione spaziale: non c’è un luogo in cui accadono speranze e ricordi. Il presente, invece, è albergo di infinite stanze, quanti saranno gli astri del firmamento e i chilometri che percorre la luce per bucherellare il cielo stellato della notte.  Ecco un esempio brillante di ossessione temporale: misurare le distanze in funzione del tempo che impiega un fotone a percorrerle. E’ vero, la luce viaggia, il sole si consuma, gli uomini nascono e muoiono. Ma i cieli stellati sono un fermo-immagine: la luce che adesso pervade lo spazio, ovunque intorno a noi. Contro chi ambisce alla vita eterna, la qualità di Dio che io preferisco è l’ubiquità. Mi basterebbe campare anche un solo secondo se in un istante potessi vivere ovunque, in ogni forma possibile. Quando il soffitto della nostra stanza ci sembra incombere come un pesante coperchio, la vita che desideriamo duratura potremmo intanto cercare di estenderla: abitare i fatti, i pensieri e le emozioni secondarie, esplorare le traiettorie collaterali, concedere spazio agli esiti imprevisti, dislocarci.  Voto per allevare il maiale. E’ fuori dai miei orizzonti mentali: non conosco il modo e la maniera, non so che spese comporta, e il tempo se davvero lo troveremo. Ma soprattutto non mi va. Non ne ho voglia. Mi imbarazza. E poi, questo maiale, da dove sbuca fuori? Nonno Benito è morto. Mi è dispiaciuto. Anche a Roberto è dispiaciuto. A Giulio, a Giulia, a Cesare. Forse dispiace anche ad Anna, che non l’ha mai visto. Era un brav’uomo, nonno Benito. Anche lui fuori dai nostri orizzonti mentali. Siamo tutti un po’ dispiaciuti.  Non superficialmente. Io, Roberto e gli altri amici siamo umanamente dispiaciuti per il destino mortale che ci accomuna. Ogni vita che scompare è un pezzo di morte che si avvera. Della nostra stessa morte. Questo, tuttavia, non ci obbliga a proseguire le vite altrui. Chi muore, muore: ha fatto e ha detto la sua. Noi, con nonno Benito, non abbiamo niente da spartire. Vogliamo bere un altro spritz in piazza Ariostea, guardare le partite su Sky, e vivere dentro un blog. Una porcilaia è uno spazio mentale che ho escluso dalla realtà; una variante che ho scartato; una casella del gioco su cui non fermerò la mia pedina. Perché? Esattamente di cosa non ho voglia? Cosa non mi va?  La mia indolenza, che così spesso assecondo, potrei adesso tentare di abitarla. Infondo, se chiudo gli occhi, vedo anche Noè sull’arca, il vecchio zio Tom e la casa nella prateria. Potrei trasferirmi in campagna, vivere in mezzo agli animali, e morire col fango alle ginocchia. Perché questo non accadrà? Giulia ride, e rido anch’io. Mi irrita quando  riesce a convincermi delle mie stesse idee. Ho sempre l’impressione che lei le abbia capite meglio. Per esempio, i miei discorsi cervellotici sugli esiti imprevisti, approdano inequivocabilmente alle ragioni di Giulia, che vota per allevare il maiale, e non alle mie.

-          Alberto, che pensi?

-          Alleviamolo.

-          Alberto, che dici?

-          Proviamo.

-          Alberto, quanti spritz hai bevuto?

La mia idea era di vendere il maiale vivo in cambio di carne morta. Il contadino porta il maiale al macello, lo spella, lo pulisce, e fa le porzioni. Poi una quarto se lo mangia lui e tre quarti noi. E’ ancora proporrei di procedere così, per far dispetto a Giulia. Non sopporto che lei ragioni esattamente come me, giungendo a conclusioni diverse dalle mie, e però più coerenti col mio pensiero. Basta. Sto per grippare. Alleviamo il maiale,  e basta. Non chiedetemi che penso; non costringetemi a dir nulla. Altrimenti io e Giulia finiremo per litigare.     

 
 
 
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