Conoscere noi stessi

Post n°6 pubblicato il 10 Novembre 2007 da c_teresa
 

Chi siamo e come siamo giunti ad essere la persona che chiamiamo “noi stessi”?

Il nostro sé è inteso come:

  • l’insieme dei pensieri e credenze su noi stessi

  • attivo elaboratore d’informazioni

Questi due aspetti si combinano per creare un senso coerente d’identità.

Il nostro sé è sia un libro pieno di contenuti raccolti nel tempo che il lettore di questo libro.

Arriviamo a conoscere noi stessi attraverso:

  • l’introspezione, guardandosi dentro, esaminando i nostri pensieri, sentimenti e motivazioni;

  • osservando i nostri comportamenti e le nostre emozioni

·        gli schemi di sé, strutture organizzate di conoscenze su noi stessi che ci aiutano a comprendere, spiegare e prevedere il nostro comportamento

Fin da piccoli siamo abituati a ricevere giudizi dalla famiglia, dalla scuola, dagli amici, ecc.

Siamo esseri sociali che traggono preziose informazioni su di sé dagli altri che, come uno specchio, offrono all’individuo un’immagine di sé.

Lo specchio sociale può avere potentissimi effetti sull’autostima e si è selettivi nella scelta dello specchio.

Gli stessi effetti possono derivare in modo indiretto da lodi o disapprovazioni dirette ad altri (es. familiari, amici, squadra del cuore, ecc.)

Conosciamo noi stessi anche attraverso il confronto con gli altri: i loro sentimenti, tratti e capacità forniscono informazioni sui nostri sentimenti, tratti e capacità.

Con chi dipende dagli scopi attivi:

  • tendenzialmente i confronti sono effettuati con chi riteniamo più simile a noi;

  • Il confronto è verso l’alto se vogliamo informazioni su quale sia l’eccellenza su cui puntare;

  • è verso il basso se lo scopo è sostenere la nostra immagine.

L’andamento delle relazioni fin dai primi anni di vita si organizza nella nostra memoria in schemi interpersonali che servono a stabilire un senso di sicurezza poiché consentono di prevedere il proprio e l’altrui comportamento.

La storia delle relazioni si organizza in modelli operativi che generano rappresentazioni o previsioni su sé e l’altro nelle relazioni, che daranno luogo a strategie interpersonali vere e proprie.

In questo modo, le relazioni passate influenzano quelle attuali.

Aspettative negative produrranno strategie di prevenzione e gestione di eventi relazionali temuti, connotate da segnali espressivo-relazionali a valenza negativa.

Tali segnali, percepiti dall’altro, daranno luogo, a loro volta, a risposte connotate negativamente, che saranno interpretate come conferma delle aspettative iniziali.

Ad esempio, una previsione di ostilità e rifiuto da parte degli altri può condurre a comportamenti di chiusura e diffidenza che inducono negli altri ostilità e rifiuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Conoscere le nostre emozioni

Post n°5 pubblicato il 07 Novembre 2007 da c_teresa
 

L’emozione è ciò che dà colore alle nostre esperienze
(J. P. Sartre)

Le emozioni sono un complesso soggettivo “ibrido”, in quanto sono costituite dall’integrazione di componenti somatiche, cognitive e motivazionali.Le emozioni sono connesse al monitoraggio di alcuni scopi: si attivano quando questi sono compromessi/minacciati o raggiunti/annunciati.

Costituenti delle emozioni

I costituenti fondamentali delle emozioni sono: le credenze (componente ideativa) e gli scopi (componente motivazionale). Molte emozioni sono attivate da rappresentazioni interne, dal modo in cui l’individuo interpreta determinate situazioni (credenze di attivazione).

Emozioni e scopi

Le emozioni “sorvegliano” gli scopi dell’individuo     Paura, ansia, vergogna, senso di colpa, sorpresa, gioia e così via segnalano all’individuo l’eventuale compromissione o raggiungimento di scopi personali. Si tratta di informazioni immediate, globali, non argomentate che portano a reazioni comportamentali (fuga/avvicinamento) altrettanto rapide. 

Le emozioni attivano scopi    

Oltre a monitorare scopi, le emozioni attivano degli scopi: ad es. nel senso di colpa  lo scopo sorvegliato è rispettare le norme condivise o non arrecare danno; lo scopo attivato è riparare al male causato.

Emozioni come scopi    

Un individuo può compiere o evitare di compiere un’azione allo scopo di provare (o non) una data emozione. Ad es. non fare un torto per non doversi poi sentire in colpa. Di qui il loro importante ruolo nell’apprendimento: un’azione tornerà ad essere perseguita (o evitata) non solo alla luce di ricordi e valutazioni relative all’esito (successo o fallimento), ma anche per provare (o evitare) le emozioni associate all’esito di tale comportamento.

Le emozioni sono innate o acquisite?    

Nelle sua opera “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” Darwin postula che le emozioni siano innate e universalmente diffuse: l’uomo sarebbe biologicamente predisposto a differenziare le espressioni emotive e a riconoscerne il significato.    

La controversia teorica è stata superata teorizzando l’esistenza di emozioni:

Ø Primarie (paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto, sorpresa): specifici stati del corpo evocati da stimoli disposizionali innati e mediati dal sistema limbico;

Ø Secondarie (vergogna, senso di colpa, invidia, gelosia, ect): frutto di esperienze di apprendimento sociale e richiedono lo sviluppo di competenze cognitive specifiche (sviluppo di un sé riflessivo).

Intelligenza emotiva      

Gli ambiti in cui questa abilità emotiva si esplica sono: Ø Conoscenza delle proprie emozioni

Ø Controllo e regolazione delle proprie emozioni

Ø Capacità di sapersi motivare

Ø Riconoscimento delle emozioni altrui (empatia)

Ø Gestione delle relazioni sociali fra individui e nel gruppo    

Lo sviluppo delle abilità emozionali si attua attraverso l’identificazione e denominazione dei sentimenti, la capacità di esprimere i sentimenti, di valutarne l’intensità, di procedere nel loro controllo, di rimandare la gratificazione, di controllare gli impulsi, di ridurre lo stress.

Quando difendersi dalle emozioni?

Ø Alcune emozioni sono per ragioni evoluzionistiche dolorose o sgradevoli (es. paura, disgusto, vergogna, ansia, senso di colpa).

Ø Lo stato di arousal connesso all’attivazione emotiva può essere intollerabile per varie ragioni.

Ø Le credenze implicate possono essere inaccettabili (es non possiamo ammettere di invidiare Mario perché ci risulta inaccettabile l’idea di considerarci invidiosi)

 
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DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATO

Il disturbo d’ansia generalizzato è caratterizzato da un persistente ed eccessivo stato di ansia, non associato a specifiche circostanze, presente per la maggior parte del tempo per almeno sei mesi.

Questo disturbo, tipicamente, ha un andamento cronico, ma può avere alti e bassi nel corso della vita, con peggioramento nei periodi di stress. La maggior parte delle persone  che ne soffre tende a considerare questo stato ansioso come una caratteristica della propria personalità, piuttosto che come un vero e proprio disturbo.

Il disturbo d’ansia generalizzato è abbastanza diffuso: nella popolazione, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha una prevalenza del 5%, per la maggior parte di sesso femminile. Tuttavia, solo un terzo di essi si rivolge allo specialista. I sintomi fisici dell’ansia, infatti, spesso portano i pazienti a consultare il proprio medico di famiglia, l'internista, il cardiologo, lo pneumologo, il gastroenterologo, e solo in ultima istanza lo specialista dei disturbi psicologici.

 

Come si manifesta?

La persona con disturbo d'ansia generalizzata vive in un perenne stato di preoccupazione, come se si aspettasse una catastrofe da un momento all’altro. L'ansia occupa gran parte della sua giornata, si sveglia al mattino già preoccupato per i normali impegni quotidiani che dovrà affrontare.

La caratteristica principale del disturbo d’ansia generalizzato è, infatti, la presenza di preoccupazioni eccessive (rimuginazioni) che la persona trova difficile controllare, accompagnate da almeno tre dei seguenti sintomi dell’ansia:

  • Irrequietezza;
  • Facile affaticabilità
  • Difficoltà a concentrarsi
  • Irritabilità
  • Sonno disturbato
  • Tensione muscolare

Molte persone che soffrono di disturbo d’ansia generalizzato, oltre alla tensione muscolare, possono presentare tremori, contratture o dolori muscolari. Alcuni, inoltre, presentano sintomi somatici come il freddo, mani appiccicose, bocca asciutta, sudorazione, nausea, diarrea, difficoltà a deglutire, nodo alla gola.

Studi recenti hanno dimostrato che chi soffre di un disturbo d’ansia generalizzato può trascorrere fino a metà della giornata preoccupandosi di eventi che potrebbero accadere. Solo dopo che l’evento temuto non si è verificato, la persona può riconoscere che la preoccupazione era eccessiva ed esagerata.

La maggior parte delle preoccupazioni ruotano intorno a tematiche che riguardano la famiglia, il denaro, il lavoro o lo studio e la salute personale. Così, chi soffre di questo disturbo può essere ansioso perché notando il ritardo di una persona cara pensa che abbia avuto un incidente, o perché immagina di non essere in grado di svolgere determinati compiti o di ammalarsi mangiando del cibo avariato.

Le preoccupazioni nel disturbo d’ansia generalizzato hanno le seguenti caratteristiche:

  • sono numerose;

  • si succedono rapidamente, per cui ad una ne segue subito un‘altra;

  • sono accompagnate da emozioni di inquietudine ed ansia;

  • spesso riguardano eventi futuri altamente improbabili;

  • riducono la capacità di pensare lucidamente;

  • sono molto difficili da controllare.

La persona trova difficile interrompere i pensieri che gli generano preoccupazione. La preoccupazione sembra quasi essere volontaria, essendo spesso associata all’idea di essere così “più preparati ad affrontare il pericolo” o alla convinzione superstiziosa che “preoccupandosi si tiene lontano il pericolo”. Così, ad esempio, una madre potrebbe temere che smettendo di preoccuparsi per la salute del figlio questi potrebbe ammalarsi davvero. Spesso, poi, sono le preoccupazioni stesse a generare preoccupazione (metapreoccupazione). Infatti, le preoccupazioni primarie possono essere seguite da pensieri del tipo “non riuscirò a controllare queste preoccupazioni”, “non smetterò mai di preoccuparmi” o “starò male o impazzirò se continuo a preoccuparmi così”.

Il fatto di preoccuparsi delle preoccupazioni può portare ad una specie di circolo vizioso che produrrà un aumento dell’ansia e dei sintomi ed un peggioramento della qualità della vita.

La maggior parte delle persone che soffrono di questo disturbo mette in atto dei comportamenti per cercare di attenuare le preoccupazioni, come:

  • chiedere rassicurazioni agli altri sul fatto che le cose andranno bene;

  • perfezionismo, per assicurarsi di non commettere errori;

  • evitare gli eventi e le situazioni che provocano ansia, come leggere i giornali o ascoltare le notizie perché potrebbero scatenare preoccupazioni;

  • rinviare alcune attività per il timore di risultati non soddisfacenti;

  • tentativi di soppressione delle preoccupazioni, ad esempio attraverso la distrazione o il controllo del pensiero.

Questi comportamenti, pur risultando utili alla riduzione momentanea dell’ansia e delle preoccupazioni, a lungo andare possono contribuire a mantenerle e rafforzarle.

 

Come capire se si soffre di disturbo d’ansia generalizzato

L’ansia è un’emozione normale, che prova ogni soggetto sano. Ha la funzione di segnalare, mediante le modificazioni fisiologiche prodotte dall’adrenalina che entra in circolo nel sangue, situazioni di pericolo e/o spiacevoli per consentire al soggetto di affrontarle, ricorrendo alle risorse fisiche e mentali più adeguate. L’ansia produce un aumento dello stato di vigilanza, utile quando si devono affrontare situazioni impegnative: ad un esame o ad un colloquio di lavoro, ad esempio, non daremmo il meglio di noi stessi se fossimo completamente rilassati.

Entro certi livelli, dunque, l’ansia è necessaria per ciascuno di noi; quando però si diventa troppo ansiosi diminuisce la capacità di pensare lucidamente e di affrontare i problemi.

Tutti siamo ansiosi in certe circostanze nel corso della vita. Le preoccupazioni che caratterizzano il disturbo d’ansia generalizzato differiscono da quelle della vita quotidiana perché percepite dalla persona come difficilmente controllabili e non rimandabili ad altri momenti. Inoltre, sono di solito eccessive, sia per durata (la maggior parte dei giorni per almeno sei mesi) che per intensità (difficoltà a controllarle o rimandarle ad altri momenti), rispetto alle reali probabilità che si verifichi l’evento temuto o rispetto alle reali conseguenze che ne deriverebbero.

 

Cause

Il disturbo d’ansia generalizzato esordisce in maniera graduale, tra l’adolescenza e i trent’anni circa, anche se i soggetti che ne soffrono riferiscono di essersi sentiti ansiosi fin dall’infanzia.

Le cause possono essere principalmente ricondotte a:

  1. caratteristiche della personalità, intesa come il modo abituale di pensare, reagire e rapportarsi agli altri, sul cui sviluppo incidono sia fattori genetici che ambientali ed educativi;
  2. stress prodotto da eventi che portano a dei cambiamenti di vita importanti, come lutti, il dover prendere decisioni difficili, cambiare lavoro, casa o partner;
  3. la visione del mondo, la tendenza cioè ad interpretare le cose che accadono in modo minaccioso che porta, ad esempio, sentendo il telefono squillare ad immaginare cattive notizie piuttosto che piacevoli chiacchierate.

Il disturbo d’ansia generalizzato, secondo il modello cognitivo, sarebbe la conseguenza delle credenze negative che la persona sviluppa circa le sue preoccupazioni primarie, il modo in cui le giudica e valuta. L’essere in ansia, il preoccuparsi è una normale attività di pensiero che consente d’individuare i pericoli e trovare delle soluzioni. Il disturbo insorge nel momento in cui la persona inizia a giudicare negativamente le sue preoccupazioni, a preoccuparsi per il fatto di averle, anziché considerarle una comune attività mentale.

 

Conseguenze

Il disturbo d’ansia generalizzato può essere particolarmente invalidante, soprattutto per le ripercussioni che ha sulla qualità della vita di chi ne soffre, sia in ambito lavorativo (es. rallentamento nello svolgimento dei compiti per l’eccessivo perfezionismo, rinunciare ad un lavoro per le difficoltà di spostamento) che familiare (es. tensioni causate dalle frequenti richieste di rassicurazioni) e sociale (es. riduzione delle relazioni interpersonali).

Inoltre, la presenza di eccessive preoccupazioni ed i comportamenti messi in atto nel tentativo di controllarle e ridurle producono, a lungo termine, una diminuzione del senso di efficacia personale e della stima di sé che spesso conducono ad una depressione secondaria.

Altra frequente conseguenza del disturbo d’ansia generalizzato è l’abuso di sostanze stupefacenti (in particolare l’alcool), a cui la persona può ricorrere come tentativo disperato di gestire il disturbo stesso o lo stato depressivo associato.

 

Differenti tipi di trattamento

I trattamenti riconosciuti come più efficaci per la cura del disturbo d’ansia generalizzato sono la farmacoterapia e la psicoterapia.

Per la terapia farmacologica vengono utilizzati antidepressivi di nuova generazione e benzodiazepine.

Questi farmaci riducono, in tempi relativamente brevi, l’intensità dei sintomi che caratterizzano il disturbo, ma sembrano lasciare inalterate le sue cause. Curare il disturbo d’ansia generalizzato solo attraverso i farmaci sarebbe come curare un forte mal di denti facendo solo uso di antidolorifici: è probabile che, dopo qualche tempo, il dolore si ripresenti, se non si agisce anche su ciò che lo ha provocato.

Per quel che riguarda la psicoterapia, diversi studi empirici hanno dimostrato che attualmente il trattamento più efficace per il disturbo d’ansia generalizzato è quello cognitivo-comportamentale.

 

Il trattamento cognitivo-comportamentale

            Nel trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia generalizzato viene utilizzato un protocollo che prevede l’impiego  delle seguenti procedure:

-         Formulazione dello schema di funzionamento del disturbo, a partire dall’analisi di qualche episodio recente durante il quale la persona ha provato preoccupazioni;

-         Ricostruzione della storia del disturbo, partendo dal primo episodio in cui si è manifestato per arrivare ad una dettagliata descrizione delle condizioni attuali;

-         Formulazione di un contratto terapeutico, che contenga, in particolare, obiettivi condivisi da paziente e terapeuta e i loro rispettivi compiti (es. compiti a casa per il paziente);

-         Psicoeducazione, che consiste nel fornire al paziente informazioni sulla natura delle preoccupazioni e delle metapreoccupazioni per comprendere il ruolo che esse hanno nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo;

-         Individuazione dei pensieri disfunzionali (es., valutazioni e giudizi sulle preoccupazioni) alla base del disturbo e messa in discussione di tali interpretazioni (mediante esperimenti comportamentali, le tecniche del dialogo socratico e dell’ABCDE);

-         Apprendimento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia (es. respiro lento, rilassamento muscolare isometrico e progressivo);

-         Esposizione graduale ai pensieri ed agli stimoli temuti ed evitati (mediante le tecniche dell’esposizione immaginativa e dell’esposizione in vivo).

-         Al termine del trattamento particolare attenzione è dedicata alla Prevenzione delle ricadute, per far in modo che la persona accetti la possibilità che i sintomi si potranno ripresentare, ad esempio in condizioni di forte stress, e tuttavia non se ne spaventi, consapevole del fatto che ora possiede gli strumenti e le conoscenze per fronteggiarli efficacemente.

 
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CHE VERGOGNA!!!

Post n°3 pubblicato il 20 Ottobre 2007 da c_teresa
 

Fobia Sociale o Disturbo da Ansia Sociale

Cos’è

La caratteristica fondamentale è la paura di essere giudicati negativamente e criticati dagli altri. Le persone che ne soffrono temono di poter fare o dire cose imbarazzanti, di esser giudicati ansiosi, ridicoli, deboli, “pazzi” o stupidi. Questo timore può riguardare solo alcune situazioni, come nella fobia sociale specifica, o la quasi totalità delle situazioni sociali, fino al completo isolamento, come nella fobia sociale generalizzata.

La fobia sociale è piuttosto comune, con una prevalenza nella popolazione che va dal 3% al 13% e colpisce in prevalenza il sesso femminile. 

Tale disturbo compare nell’adolescenza, intorno ai 15,5 anni d’età, tipicamente  dopo un’infanzia caratterizzata da inibizione e timidezza. Dopo una comparsa più o meno brusca (alcuni raccontano un episodio stressante e/o umiliante all’origine), tende a mantenersi tutta la vita, con variazioni nella gravità  legate agli eventi ed alle necessità della vita.

Come si manifesta?

La persona con fobia sociale prova una forte e persistente paura ogniqualvolta deve affrontare situazioni sociali o deve svolgere in pubblico dei compiti. Tipicamente, le situazioni più temute sono: parlare in pubblico o conversare con gli altri per timore di risultare poco chiari “penseranno che sono strano o matto, mi giudicheranno male”; mangiare, bere, scrivere o utilizzare il telefono in presenza in pubblico, per la paura che gli altri notino il tremore delle mani o della voce “potrei tremare e versare il caffè, mi vedranno tremare e questo sarebbe terribile”. Tutte le situazioni descritte sono accomunate dal fatto che in esse la persona che soffre del disturbo ha la sensazione di essere osservato dai presenti e giudicato negativamente, inadeguata e ridicola.

Tali timori sono quasi sempre accompagnati dai sintomi dell’ansia: palpitazioni, tremori, sudorazione, malessere gastrointestinale, diarrea, tensione muscolare, confusione. Nei casi più gravi, questi sintomi possono provocare un vero e proprio attacco di panico. Ai sintomi ansiosi si associano, poi, le reazioni tipiche della vergogna: rossore del viso, postura dimessa, desiderio di sprofondare e sfuggire allo sguardo degli altri.

Pur essendo consapevole del carattere eccessivo delle proprie paure, la persona non riesce né a controllarle né a liberarsene. Spesso accade che i forti timori ed i sintomi dell’ansia e della vergogna conducono la persona ad evitare le situazioni temute, fino al completo isolamento sociale. Altre volte, per fare in modo che non accada ciò che più teme, la persona mette in atto dei comportamenti detti protettivi che, però, gli si ritorcono contro, producendo un aumento dell’ansia e della vergogna. Un esempio è indossare la giacca anche in un ambiente riscaldato per non far vedere che si suda, con il risultato di sudare di più e sentirsi ancora di più in imbarazzo.

Si può anche manifestare una forte ansia anticipatoria, con la tendenza ad esempio a preoccuparsi ogni giorno, per molte settimane nell’attesa di affrontare un certo evento sociale. L’ansia anticipatoria produce stati mentali di timore e sintomi ansiosi che spesso portano a prestazioni realmente scadenti nelle situazioni temute, causando imbarazzo ed aumentando così l’ansia anticipatoria successiva per lo stesso evento. Infine, spesso il fobico sociale si vergogna della propria vergogna “non sopporto di sembrare nervoso perché gli altri penseranno che sono un’incapace”. La considera una conferma della propria inadeguatezza e, nel tentativo di neutralizzarla, concentra l’attenzione sui segnali del corpo che ne indicano la comparsa, come ad esempio il rossore o il tremore della voce. Questo fatto gli fa perdere di vista quello che succede attorno a lui, riducendo da una parte le possibilità che si comporti in modo efficace e dall’altra l’osservazione delle reali reazioni degli altri “mi stanno davvero osservando?”.

 Come capire se si soffre di fobia sociale

Le emozioni maggiormente coinvolte e presenti nella fobia sociale sono l’ansia e la vergogna. L’ansia è un’emozione normale, che prova ogni soggetto sano. Ha la funzione di segnalare situazioni di pericolo e/o spiacevoli, mediante le modificazioni fisiologiche prodotte dall’adrenalina nel sangue. Questa produce un aumento dello stato di vigilanza, utile quando si devono affrontare situazioni impegnative: ad un esame o ad un colloquio di lavoro, ad esempio, non daremmo il meglio di noi stessi se fossimo completamente rilassati.

Anche la vergogna è un’emozione che normalmente si sperimenta nel corso della vita. Le situazioni che più spesso causano vergogna sono: l’insuccesso nel lavoro e negli studi; l’esser colti in fallo; le carenti prestazioni sessuali; l’attirare involontariamente l’attenzione altrui, ad esempio inciampando o emettendo rumori corporei. Queste situazioni sono accomunate dal fatto di ritenere che un nostro comportamento non rispetti una qualche regola e dal credere che, a causa di ciò, si riceverà un giudizio negativo globale sulla propria persona e si potrà essere allontanati dal gruppo. La vergogna, dunque, segnala a chi la prova che la propria immagine è, o potrebbe essere, danneggiata e sarà tanto più intensa quanto più sarà l’importanza attribuita ai giudizi della o delle persone verso i quali ci si vergogna.

Entro certi livelli, dunque, sia l’ansia che la vergogna sono necessarie: la prima in quanto ci segnala pericoli e attiva le risorse necessarie per affrontarli; la seconda al fine di preservare la propria immagine sociale e garantirci l’accettazione da parte degli altri.

L’ansia da prestazione e la timidezza in situazioni sociali che coinvolgono persone non familiari sono comuni e chiunque può provarli.

L’ansia, l’evitamento e la vergogna causano, invece, in chi soffre di fobia sociale un forte disagio e gravi ripercussioni sulla qualità della vita, interferendo con le normali attività o relazioni sociali e compromettendo il funzionamento lavorativo e scolastico della persona.

 Cause

La fobia sociale compare nell’adolescenza, in modo più o meno brusco e tende a mantenersi tutta la vita. Le cause possono essere diverse:

  1. familiarità;
  2. caratteristiche della personalità: comunemente si riscontra perfezionismo, ipersensibilità alle critiche, alle valutazioni negative ed al rifiuto, difficoltà ad essere assertivi, bassa autostima e sentimenti d’inferiorità;
  3. esperienze umilianti o stress prodotto da eventi che portano a cambiamenti di vita importanti, come incarichi di lavoro che richiedono di parlare in pubblico, perdita del partner;
  4. l’immagine di sé debole e di scarso valore e l’importanza attribuita al giudizio altrui

 Secondo il modello cognitivo, la persona che soffre di fobia sociale ritiene di essere emotivamente fragile e crede che i sintomi dell’ansia ne siano la prova. Pensa di non essere in grado di gestire e controllare le proprie emozioni di paura e vergogna e che anche gli altri le noteranno e lo giudicheranno per questo inadeguato.

Teme di fare “una brutta figura” di fronte agli altri che lo giudicheranno persona di scarso valore, debole emotivamente, incapace di controllare in pubblico i segni dell’ansia e della vergogna. Immagina con vero terrore la disapprovazione degli altri, mista a pena e derisione e, alla sola idea, preferirebbe sprofondare. La maggior parte delle situazioni sociali attiva in lui previsioni negative “come sempre, apparirò goffo, impacciato, inizierò a tremare e sudare,  diventerò rosso in viso; gli altri se ne accorgeranno e rideranno di me!”. Per non incorrere in tale situazione, cerca di tenere sotto controllo le proprie sensazioni somatiche. Tutto ciò gli impedisce di osservare quello che accade attorno a lui e, paradossalmente, produce un aumento delle sensazioni che cerca di controllare. I suoi comportamenti, a questo punto, non potranno che essere realmente goffi, i sintomi dell’ansia e della vergogna saranno più evidenti, confermando così le sue previsioni iniziali di fallimento.

La persona è così intrappola in un circolo vizioso che mantiene il disturbo, producendo un aumento dell’ansia e dei comportamenti protettivi e di evitamento, un peggioramento della condotta sociale ed un aumento delle valutazioni negative di sé.

Conseguenze

La fobia sociale può essere particolarmente invalidante, soprattutto per le ripercussioni che gli evitamenti ed i comportamenti protettivi hanno sulla qualità della vita, sia in ambito lavorativo che familiare e sociale.

Gli individui con fobia sociale spesso hanno difficoltà scolastiche per la presenza d’ansia da esame; nell’ambiente di lavoro a causa dell’ansia che provano nel dover parlare in pubblico o per effetto dell’evitamento di tali situazioni. Nei casi più gravi queste difficoltà possono portare all’abbandono della scuola o del lavoro, alla disoccupazione per il timore di affrontare i colloqui di lavoro.

Dal punto di vista sociale, hanno meno probabilità di avere relazioni sentimentali e spesso rimangono con la propria famiglia d’origine; spesso si riscontra la mancanza di amici o l’aggrapparsi a relazioni insoddisfacenti e, nei casi più gravi, l’isolamento completo.

Tutto ciò può portare ad un disturbo depressivo e/o all’abuso di sostanze stupefacenti che vanno a complicare ulteriormente il quadro descritto.

 

Differenti tipi di trattamento

I trattamenti riconosciuti come più efficaci per la cura della fobia sociale sono la farmacoterapia e la psicoterapia.

Per la terapia farmacologica vengono utilizzati antidepressivi di nuova generazione e benzodiazepine.

Questi farmaci risultano essere efficaci nel trattamento a breve termine dell’ansia; se ne consiglia però un uso limitato nel tempo per l’alto rischio di dipendenza che possono generare. Altro limite è rappresentato dalla frequente ricomparsa dei sintomi quando s’interrompe l’assunzione dei farmaci. Essi, infatti, riducono, in tempi relativamente brevi, l’intensità dei sintomi che caratterizzano il disturbo, ma sembrano lasciare inalterate le sue cause. Curare la fobia sociale solo attraverso i farmaci sarebbe come curare un forte mal di denti facendo solo uso di antidolorifici: è probabile che, dopo qualche tempo, il dolore si ripresenti, se non si agisce anche su ciò che lo ha provocato.

Per quel che riguarda la psicoterapia, diversi studi empirici hanno dimostrato che attualmente il trattamento più efficace per la fobia sociale è quello cognitivo-comportamentale, effettuato sia individualmente che in gruppo.

 

Il trattamento cognitivo-comportamentale

           

Nel trattamento cognitivo-comportamentale della fobia sociale viene utilizzato un protocollo che prevede l’impiego  delle seguenti procedure:

-         Formulazione dello schema di funzionamento del disturbo, a partire dall’analisi di qualche episodio recente durante il quale la persona ha provato ansia sociale;

-         Ricostruzione della storia del disturbo, partendo dal primo episodio in cui si è manifestato per arrivare ad una dettagliata descrizione delle condizioni attuali;

-         Formulazione di un contratto terapeutico, che contenga, in particolare, obiettivi condivisi da paziente e terapeuta e i loro rispettivi compiti (es. compiti a casa per il paziente);

-         Psicoeducazione, che consiste nel fornire al paziente informazioni sulla natura dell’ansia e della vergogna per comprendere il ruolo che esse hanno nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo;

-         Individuazione dei pensieri disfunzionali alla base del disturbo (es., essere al centro dell’attenzione, certezza che gli altri lo giudicheranno in modo negativo) e messa in discussione di tali interpretazioni (mediante esperimenti comportamentali, le tecniche del dialogo socratico);

-         Apprendimento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia (es. respiro lento, rilassamento muscolare isometrico e progressivo);

-         Esposizione graduale ai pensieri ed agli stimoli temuti ed evitati (mediante le tecniche dell’esposizione immaginativa, enterocettiva ed  in vivo).

-         Al termine del trattamento particolare attenzione è dedicata alla Prevenzione delle ricadute, per far in modo che la persona accetti la possibilità che i sintomi si potranno ripresentare, ad esempio in condizioni di forte stress, e tuttavia non se ne spaventi, consapevole del fatto che ora possiede gli strumenti e le conoscenze per fronteggiarli efficacemente.

Per saperne di più

  • Il timore degli altri. Vincere la fobia sociale, di Bislunghi Laura e Marsigli Nicola. Ecomind Editore
  • Come vincere l’ansia sociale. Superare le difficoltà di relazione con gli altri e il senso di insicurezza, di Dayhoff Signe A..Editore Centro Studi Erckson
  • La paura degli altri. Dalla timidezza agli attacchi di panico, di Marshall John R.. Editore TEA

 

 

 
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La sessualità......... oltre i falsi miti

Post n°2 pubblicato il 19 Ottobre 2007 da c_teresa
 

La sessualità costituisce la sfera dell’esistenza umana più carica di emozioni e sentimenti, tanto da renderla origine di paure, divieti, tabù, produzioni artistiche.. Perché?

Tre fattori possono aiutarci a capirne la complessità:

1. la possibilità di procreare esseri umani investe di significati positivi o negativi il rapporto sessuale

2. il piacere fisiologico associato agli atti sessuali

3. l’intimità, corporea e psicologica, che gli atti sessuali richiedono ai protagonisti.

Nel 1929 l’etnologo Malinowski affermava: “il sesso implica l’amore e il fare all’amore, diventa il nucleo di istituzioni come il matrimonio e la famiglia, impregna di sé l’arte.. Domina quasi ogni aspetto della cultura… è più una forza sociologica e culturale che una mera relazione fisica tra due individui”.

La funzione sessuale è estremamente importante per la conservazione della specie e questo spiega perché la selezione naturale l’abbia dotata di caratteristiche che portano a far ripetere il più possibile i comportamenti ad essa collegati (Dèttore 2001).

Da una prospettiva biologico-evoluzionista, la sessualità ha una duplice funzione: Garantire la riproduzione e sopravvivenza della specie ed Assicurare la variabilità dei geni all’interno della specie. Essa consente il raggiungimento di due scopi: la Procreazione ed il Piacere.

La rivoluzione sessuale degli anni ‘60-’70 ha cambiato radicalmente la concezione della sessualità e dei ruoli sessuali: la sessualità da fatto privato è diventato fenomeno pubblico, un prodotto di consumo, e la finalità procreativa è diventata secondaria rispetto alla ricerca del piacere sessuale. I ruoli sessuali maschili e femminili non rispondono più al modello tradizionale maschio-predatore/femmina-preda.

Innamoramento e corteggiamento

Questi due tipi di condotta costituiscono l’inizio dei rapporti di coppia e dipendono da fattori culturali, abilità sociali, immagine di sé ed autocontrollo.

È piuttosto difficile definire cos’è l’amore. Gli antichi greci lo consideravano una forma di pazzia, in grado di causare azioni irrazionali ed inusuali in chi ne veniva colpito.  L’innamoramento, con la sua sensazione di euforia, sembra essere mediato da ormoni simili alle anfetamine: dopamina, noradrenalina e feniletilamina.

Diversi studi mostrano che tale fase sembra finire dopo circa 4 anni: il tempo necessario per accudire un figlio!

Quando l’innamoramento finisce

Terminata questa fase, l’evoluzione spingerebbe i membri della coppia a disamorarsi e separarsi, al fine di permettere nuovi unioni con altri uomini ed altre donne e garantire un pool genetico sempre più ricco.

Tuttavia, per altri l’amore, meno ardente ma più sicuro, continua mediato da ormoni tranquillanti: le endorfine, antidolorifici naturali che danno pace e sicurezza.

Differenze legate alla genetica o alla cultura?

Quotidianamente ci accorgiamo delle differenze tra maschi e femmine. Le donne provano più paura, ma gli uomini la esprimono maggiormente a livello fisiologico; esprimono la rabbia col pianto; presentano una maggiore reattività emozionale; ricercano nell’amicizia colloquio e apertura, mentre gli uomini la condivisione di attività. Le donne desiderano l’unione sessuale assieme al coinvolgimento affettivo; gli uomini, invece, ricercano il sesso per il puro piacere di farlo. Infine, le donne nelle relazioni di coppia emettono più comportamenti direttivi; gli uomini sono più portati alla ritirata ed alla collaborazione.

Ma quant’è il peso della cultura nella determinazione di tali differenze?

 

L’orientamento sessuale

L’orientamento sessuale è dato dalla serie di stimoli erotici per un dato individuo, cioè oggetti, animati o inanimati, e situazioni in grado d’indurre eccitamento sessuale. La fase cruciale per lo stabilirsi delle preferenze sessuali è la pubertà (10-13 anni) ed esse sono influenzate da variabili biologiche e socioculturali.

Nei maschi in età adolescenziale l’esperienza omosessuale sembra piuttosto comune: si tratta, in genere, di esplorazioni che contribuiscono all’apprendimento ed allo sviluppo sessuale, ma possono essere vissuti con forti sensi di colpa.

La dimensione più saliente dell’orientamento sessuale è il sesso del proprio partner. Questa classe di stimoli riguarda il fatto che una persona si definisca eterosessuale, bisessuale o omosessuale. L’orientamento sessuale non coincide con l’identità sessuale. Infatti, una persona potrebbe essere eccitata da stimoli omosessuali, ma non considerarsi tale e persone che mostrano comportamenti omosessuali, potrebbero essere attratti dall’altro sesso.

L’orientamento sessuale non è dicotomico, omo-eterosessuale, ma si estende lungo un continuum

 

Le disfunzioni sessuali

Una disfunzione sessuale è caratterizzata da un’anomalia del processo che sottende il ciclo di risposta sessuale, o da dolore associato al rapporto sessuale. Il ciclo di risposta sessuale può essere diviso nelle seguenti fasi e la disfunzione sessuale può riguardarne una o più:

1. Desiderio

2. Eccitazione

3. Orgasmo

Le disfunzioni sessuali sono spesso prodotte da convinzioni errate che generano ansia:

·        Timore del godimento sessuale, percepito come colpa o peccato

·        Timore di non riuscire, “ansia da prestazione”

·        Timore di essere spettatore delle proprie prestazioni sessuali, di non essere spontanei

·        Timore di perdere il controllo, di comportarsi in modo riprovevole

·        Timore dell’altro sesso, delle sue reazioni

Queste ed altre paure sono spesso legate alle seguenti idee irrazionali, veri e propri miti della sessualità:

·        L’efficacia di un uomo come amante dipende dalle dimensioni del suo pene (seni per le donne)

·        Eiaculazioni o masturbazioni troppo frequenti possono generare disturbi fisici e mentali

·        L’orgasmo vaginale, non quello clitorideo, costituisce la forma matura di orgasmo femminile

·        Un rapporto sessuale riuscito deve comportare un orgasmo simultaneo nei partner

·        Se si è attratti da fantasie con persone del proprio sesso si è omosessuali

·        L’alcool è uno stimolante sessuale

·        Il sesso orale tra uomo e donna è indice di tendenze omosessuali

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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