Ha ragione Paolo.
Quelle tre stelle così curiosamente allineate, che secondo me dovevano “essere qualcosa”,altro non sono che la mitica Cintura di Orione.
Viene naturale ammirare questa costellazione, stando come sto, sdraiato sul tetto dell’unica costruzione nel raggio di km, in mezzo al deserto.
Il fatto che sia notte diventa secondario, irradiati come siamo dall’intensa luce lunare che ci abbacina.
La notte più luminosa della mia vita, nel silenzio più totale.
Verso i monti, in lontananza, le luci di un villaggio, e sull’altro versante la costa, e il nero pece del Golfo.
In mezzo, nel nulla, noi. Ed è bellissimo.
La ricetta è semplice: si prendono due o tre tappeti, qualche coperta, e carne di pecora, (oltre all’immancabile tè) e i 5/6 amici per cui davvero vale la pena di spendere questo titolo, e si viene qui, a raccogliere sterpi per accendere un fuoco e cuocere la carne (precedentemente macerata nelle spezie più disparate per oltre 24 ore).
Il resto è chiacchiere e allegria prima di stringersi insieme sotto coperte rigorosamente di lana, senza nulla e in mezzo al nulla.
Sono le 3 del mattino e sono felice al punto che decido di alzarmi in piedi e spostarmi sul vertice della superficie piana del tetto, per riempirmi gli occhi di questo nulla che ridicolizza qualsiasi ogni altra cosa del supposto “tutto”.
Perfino i miei pensieri iniziano a cabrare tra i rovi che punteggiano il deserto, fino a perdersi nel riflesso di un viso che vorrei tanto rivedere, di una voce che vorrei riascoltare.
Non si può al tempo stesso essere qui e non sentirsi bene.
Qui, se solo si ha voglia di guardarsi dentro, tutto diventa comprensibile,come se la luce lunare penetrasse attraverso i pori.
Cambia momento e luogo, e “tre giorni fa” diventa “adesso”. Dubai.
Gente che mi gira intorno persa dietro chissà quale azione da compiere,come formiche, in questo immenso aeroporto che ogni ora vede decollare decine di aerei, un delizioso bon bon gigante e un po’ retrò, perfettamente temperato da centinaia di condizionatori.
Seduto in uno dei tanti locali e preso a scrivere al pc, alle 4 del mattino di non so più quale giorno, provo a spiegarmi perché sperso nel deserto mi sentissi davvero “parte del tutto” e qui solo una delle tante formiche.
Da piccolo a volte mi organizzavo con mio fratello per andare sul vicino argine del fiume, con giusto un canovaccio e una confezione di Smarties, per fare un picnic. Ed era la cosa più bella che potesse succedermi.
Farid e mohammhad mi hanno spiegato che loro chiamano picnic queste uscite nel deserto.
Non ne organizzano più di un paio al mese, dicono, perché sennò finirebbe la specialità della cosa.
Penso a questa cosa che loro hanno dentro, questo “sentire” che è la loro vera ricchezza, e penso a tutte le comodità che mi circondano, a casa, questi finti strumenti di supposta felicità di cui amiamo far man bassa, per riuscire a non vedere che l’unico vero strumento siamo noi, e che non riusciamo più ad esserlo.
Lo dico io che sono stato “Farid” quando eccitato aspettavo che mio fratello tornasse dal bar con le caramelle, o quando i miei genitori in un giorno qualunque della settimana smettevano di lavorare senza preavviso, e ci portavano in campagna per una merenda.
Lo dico io che non so più esserlo, io che domani sarò di nuovo nel mio mondo, e tra una settimana già stufo di starci, preso ad inseguire qualcosa che mi emozioni, magari un nuovo e più capiente hard disk, o qualunque altra cosa che mi distragga dal punto di origine della mia insoddisfazione, e da una sempre più marcata insofferenza.
Non sappiamo più guardarci dentro, e nonostante io provi a farlo anche adesso, nonostante abbia la sensazione “di aver capito”, tremo all’idea che sarà tutto inutile, se vivrò i miei quotidiani in mezzo a persone che si rifiutano “di capire”.
Perché è esattamente questo che mi fa sentire solo, al punto che il rimanere solo con me stesso diventa un abitudine consolidata, quasi il realizzarsi di un desiderio.
Penso all’allegra condivisione di piccole cose, a volte solo del tempo libero per stare insieme, che ha caratterizzato le mie notti a Lengeh, ma soprattutto a questa gente che noi definiamo povera, mentre nei fatti i veri poveri siamo noi, noi che coi soldi compriamo cose sperando che queste sostituiscano ciò che non siamo più in grado di generare coi gesti e coi pensieri.
Farid di certo scoppierebbe a ridere, se solo arrivasse a capire che lui ha qualcosa che noi non abbiamo, e non viceversa.
Mohamhad al mio invito a venire in Italia mi ha chiesto perché mai dovesse farlo,visto che il suo mondo è Lengeh, visto che lui, nonostante la durezza e le asperità di un governo ostile quanto il clima, qui ha tutto.
Ci sono momenti in cui prenderei il mio amato notebook e lo frantumerei contro il primo muro che capita, per punirmi.
Poi, cosi come il tossico fa con l’eroina, torno a riporlo nella custodia più comoda che ci sia.
Vorrei gente che si rendesse davvero conto di come stanno le cose e che finalmente decidesse di “smettere” e si disintossicasse. Ed io con loro.
Se “smetto” solo io, non serve a niente.
Il problema non è il tipo di droga usato, sia questa un’auto nuova, una casa più grande, o una vacanza più lunga.
Il problema è dover dipendere, e penso che sia chiaro a tutti che la felicità non può dipendere da oggetti inanimati.
E invece continuiamo a farcirci la casa di cose e la testa di idiozie. Io con voi.
Ma io non mi diverto più a farlo.
Inviato da: shield64
il 20/03/2011 alle 19:07
Inviato da: rosa_risi
il 16/03/2011 alle 14:00