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Il Sindacato e la macchina del tempo

Post n°72 pubblicato il 04 Gennaio 2016 da claudionegro50
 

 

Cercando sul web qualcosa di interessante che mi aiutasse a chiudere un 2015 che per me è stato abbastanza complicato, mi sono imbattuto, nel portale del CEPR (Centre for Economic Policy Research) in un interessantissimo articolo intitolato “La sfida della produttività per l'Italia”, che vi invito a leggere al link http://www.voxeu.org/article/italys-productivity-challenge#_ftn8. Poco dopo mi è arrivata la rassegna stampa con le dichiarazioni di Barbagallo circa la conferenza stampa di Renzi, e sono tornato coi piedi per terra.

Tuttavia, al netto dell'exploit sui rapporti internazionali che Barbagallo raccomanda a Renzi, mi è sembrato possa essere interessante mettere a confronto gli interventi sull'economia indicati dagli studiosi del CEPR e quelli sponsorizzati da Barbagallo. E questo non per vis polemica o derisoria, ma perché Barbagallo riassume nelle sue parole quella che è stata nel 2015 la linea del Sindacato in materia di politica economica. Mi pare utile confrontare due prospettive così diverse, perché consente di mettere a fuoco il gap di analisi e di strategia di cui oggi soffrono le Organizzazioni Confederali.

L'articolo del CEPR parte dal constatare che il PIL pro capite italiano, che era del 5% superiore a quello medio della Eurozona nel 1996 ora è di 9 punti inferiore alla media e l'indice della Produttività Totale dei Fattori scende da 1.25 a 0.95: l'Italia è l'unica grande economia industriale nella quale questo indice sia costantemente in calo da oltre 15 anni.

L'articolo elenca i seguenti fattori di produttività in sofferenza:

  • rigidità nel mercato: nonostante le liberalizzazioni nel comparto dei servizi (perfino superiori alla media Eurozona) i costi e i tempi per aprire un'attività sono i più alti nel mondo industrializzato dopo la Corea. E' un indicatore che approssimativamente descrive anche il rating dell'efficienza della Pubblica Amministrazione e della Giustizia Civile, il cui orientamento culturale ostile all'impresa si manifesta in modo spesso clamoroso.

  • Sistema fiscale squilibrato: il più pesante dell'Eurozona sul lavoro, dopo il Belgio, e tra i più leggeri sui consumi; in realtà il tasso medio dell'IVA (22%) è quasi allineato con quelli dell'Eurozona (è all'11° posto in graduatoria) ma sgravi ed esenzioni abbattono in modo drastico il gettito.

  • Mercato dei capitali: siamo al quintultimo posto nell'UE per gli investimenti da Private Equity e al penultimo per investimenti da Venture Capital. E appena possibile cerchiamo di opporci a investimenti esteri (difendiamo il territorio, difendiamo l'italianità delle nostre aziende, ecc.); in particolare siamo molto indietro nella spesa non solo per la Ricerca ma anche per lo Sviluppo: il che corrisponde al fatto che la nostra industria manifatturiera, per quanto corposa, sia mediamente di tecnologia medio-bassa.

  • capitale umano: il livello di preparazione della popolazione è tragicamente carente. Siamo all'ultimo posto nell'UE per istruzione universitaria e al quarto per popolazione che ha solo la scuola dell'obbligo. E il peggio è che questi dati sono sostanzialmente uniformi per le classi età da 16 a 55 anni: segno che la scuola ha cessato di essere strumento di mobilità sociale da almen0 40 anni… L'articolo da comunque dato un giudizio positivo, come primi passi, sul Jobs Act e sulla Buona Scuola.


L'articolo ipotizza che il gap con le migliori perfomances dell'UE potrebbe essere progressivamente ridotto se si faranno riforme serie, tra cui le più urgenti:

  • Sul sistema di educazione. Tuttavia nessuna riforma in questo campo può produrre risultati concreti prima di 10 anni. Se si vuole accelerare occorre favorire il ritorno dei “cervelli in fuga” e l'immigrazione di persone ad alto livello di istruzione.

  • Ridurre i costi di finanziamento sui beni immateriali incrementerebbe di molto la produttività, ben di più di finanziamenti pubblici diretti.

  • Spostare la tassazione dal lavoro al consumo avrebbe in termini quasi immediati l'effetto di creare occupazione.



Fin qui il CEPR. E il Sindacato? La formula evocata da Barbagallo è: innanzitutto rinnovo dei contratti pubblici e rivalutazione di tutte le pensioni, per spingere la domanda interna. Poi flessibilità del pensionamento anche per favorire, tramite la staffetta generazionale, l'occupazione giovanile. La prima impressione che si ricava (e probabilmente, ahimè, non è errata) è che al Sindacato interessino ormai soprattutto i dipendenti pubblici e i pensionati. I giovani sono oggetto di litanie sul precariato, di rammarico per il perduto art.18, di zero interesse per il mondo delle partite IVA; e l'unica misura concreta che viene prospettata è la “staffetta generazionale”: un'invenzione inutile, incapace di produrre un posto di lavoro se non quello che, in circostanze favorevoli, può essere il turn over tra padre e figlio. Come del resto chiunque può constatare osservando gli esiti della sperimentazione condotta in Lombardia nel 2015, che ha prodotto poche decine di assunzioni. La verità è che la staffetta generazionale è semplicemente una copertura per la rivendicazione vera, che è rendere flessibile (ma senza penalizzazioni!) l'età di pensionamento, scardinando la riforma Fornero e rimettendo in discussione, pur con tutta la buona volontà, la sostenibilità della spesa pensionistica (vedere il report OCSE Pension at a Glance 2015) e soprattutto per evitare di affrontare il problema vero della previdenza: le rendite pensionistiche ridottissime rispetto alle attuali che avranno le giovani generazioni, determinate dal sistema di calcolo contributivo (del resto inevitabile se si vuole tenere in piedi il sistema) e dalla discontinuità delle carriere professionali; problema che l'OCSE raccomanda di affrontare tramite il sistema dei pension credits e le politiche di conciliazione vita-lavoro. Ma di ciò nel discorso sindacale non si trova traccia, se non come citazione retorica: quel che importa è ancora evidentemente abbassare, di riffa o di raffa, l'età pensionabile. Nostalgia canaglia!

Il discorso sui Contratti Pubblici è legittimo dal punto di vista della normale pressi sindacale, ma deve fare i conti con i vincoli che ha la spesa pubblica in una fase di emergenza, nella quale mi pare che appaiano altre priorità rispetto a un comparto che, se da anni non rinnova i contratti però godeva di condizioni di partenza migliori di quelle dei dipendenti privati ( -1% la perdita salariale nel periodo 2010-2014 ma + 40% nel decennio precedente: rapporto ARAN sulle retribuzioni dicembre 2015) e che in questi anni di crisi non ha visto il suo reddito tagliato da licenziamenti e Cassa Integrazione. Se poi si vuole buttarla in macroeconomia (mettiamo soldi in tasca alla gente per far ripartire la domanda) allora perché prendersela con gli 80€ in busta paga, coi 500€ agli insegnanti e ai diciottenni? Probabilmente perché non è stata rispettata la liturgia della concertazione. Ma non è un argomento economicamente rilevante, se la questione è i soldi in tasca per far ripartire la domanda!

Si potrebbe accennare, anche se non la cita Barbagallo, all'indeterminazione del Sindacato circa la questione fiscale: si chiede la riduzione della tassazione (solo per dipendenti e pensionati, s'intende…) ma guai ad aumentare le aliquote IVA. I soldi per fare tutto ciò, naturalmente, devono venire esclusivamente dalla lotta all'evasione fiscale, che però, per quanto attivamente condotta, può dare risultati spendibili in tempi non compatibili con una riforma fiscale di cui il Paese ha bisogno adesso.

Infine, il capitale umano. La sceneggiata sulla riforma del lavoro è tradizionale, e comunque ormai passata; ed eventuali ulteriori interventi potranno essere condotti, come dimostra l'esperienza, a prescindere dall'accordo o meno del sindacato. Diverso è il discorso per la scuola: il Sindacato Confederale ed Autonomo ha plasticamente dimostrato con la Buona Scuola di essere interessato soltanto ad assunzioni, trasferimenti, progressioni di anzianità e rigidità salariali, e fortemente contrario a qualunque elemento di giudizio meritocratico, di autonomia nella selezione degli insegnanti, di retribuzione di merito, di valutazione oggettiva delle scuole e del livello di preparazione degli allievi. Tutto ciò sotto il manto della libertà di insegnamento (leggi: l'insegnante non può essere valutato) e della difesa della Scuola Pubblica (leggi: dateci i soldi a prescindere dai risultati).

 

Ecco qui: la distanza tra le indicazioni del CEPR e quelle del Sindacato è siderale. O ce ne rendiamo conto, e capiamo che è ora di mettersi a studiare e a riflettere sull'esigenza di cambiare, o possiamo sperare che venga inventata la macchina del tempo che ci riporti agli anni '70, l'Eden del Sindacato

 

 

 

 

 

 
 
 
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