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Storia vecchia rivisitata

Post n°133 pubblicato il 10 Giugno 2007 da clodclod

il mare è grande.

le terre che lambisce sono tante e alcune sconosciute.

ma la vita mi insegna che  non c’è posto dove si possa fuggire per trovare rifugio dal proprio passato remoto e da quello dei giorni  appena trascorsi.

servì forse a qualcosa fuggire, anni ed anni or sono, dalla mia città e dal mio regno, dopo la morte del mio sposo? servì a qualcosa fuggire lontano, per non cadere nelle cospirazioni del re mio fratello ? della sua rivale avidità di potere?

A poco servì, perché il mio nuovo rifugio in altra terra fu violato da un arrivo imprevisto:  un eroe in fuga da una patria in fiamme,le navi provate dalle tempeste, il cuore  con qualche corda spezzata. la grandiosa città, che avevo progettato e che stavo costruendo, cessò di essere il mio primo ed unico pensiero: le mura rimasero interrotte e le impalcature si stagliavano vuote contro il cielo.

il mio nuovo rifugio fu il cuore di lui, e, prima ancora,la grotta che ci accolse – complice -  nel buio del temporale, quel giorno che la bufera ci sorprese durante la caccia.

ma che rifugio poteva essere il suo cuore, se il suo cuore era stato capace di relegare  alle proprie spalle e nell’oblio la sua sposa, durante la fuga dalla città e dal nemico  ? se era stato capace  di perderla e di non accorgersene per tutti i passi e le strade e viuzze e un interminabile tempo?  che cuore-rifugio poteva essere quello che non pensò di tornare indietro a cercarla, dopo che il fantasma di lei aveva dovuto mostrarsi per renderlo edotto della propria sorte?

cuore arido.

Io non sono morta alle sue spalle,come la sua sposa, in queste terre nuove per me e  anche per lui. eppure , come già aveva fatto con lei, in un’alba ingiustamente rosata mi aveva lasciato nell’oblio delle mie stanze e del mio sonno: e senza una parola aveva ripreso il mare. per cercare anche lui nuovi rifugi, ma senza di me …. di me che l’avevo amato, di me che ero ancora carne viva e trepidante, e che non ero certo un fantasma, una inconsistente trasparenza.

qualche parola, in verità, aveva provato a lanciarla tra noi, ma rapida  come un guizzo nel gioco dei dadi e senza l’inequivocabilità dei loro numeri. aveva lanciato nell’aria l’immagine dell’ombra paterna che gli ricordava un suo presunto   grande destino, lontano da qui.. aveva lanciato anche l’immagine del messaggero degli dei e del libro del fato che lo reclamava altrove…

parole vuote, per me, che non capivo e non sapevo.  

e poi, non sapevo e non pensavo nemmeno  che gli uomini potessero essere diversi dal mio sposo defunto: cioè falsi  e bugiardi.

quando al mio risveglio vidi le navi all’orizzonte, spinte da venti veloci e da  sogni di cui non facevo parte, in silenzio, con lacrime lunghe, in un cortile vuoto e senza nessuno, mi costruii una pira.  volevo morire. e volevo  contrapporre all’alba rosata delle navi in fuga i bagliori rosati del mio rogo.

ma poi , pian piano, scomparse le navi oltre la linea  tra mare e cielo, sentii di nuovo attorno a me , oltre le mura del palazzo, i rumori della città e del suo risveglio: le  grida di mercanti, i tonfi secchi del legnaiolo, i colpi dello scalpellino…e il cielo quadrato sopra le mura del cortile  da rosa si era  ormai fatto di color azzurro e oro. le mie lacrime erano ancora lunghe. le mie mani accarezzavano la pira e le foglie secche con cui l’avevo ricoperta. ma i miei passi mi portarono via, pian piano, verso la mia stanza, verso il suo angolo più buio. volevo stare sola. ed ero sola. le mie ancelle parevano svanite nel nulla, come le navi. o forse erano al tempio a pregare per me. o semplicemente avevano ricevuto l’ordine di non turbarmi con le loro parole.

rimasi a lungo nella mia stanza. sentivo , fuori dalla porta, i passi felpati e  incerti della vecchia nutrice: avanti e indietro, come se non sapesse se bussare o attendere.

nel frattempo, il pianto si andava  trasformando in un pianto senza  lacrime visibili. poi , il pianto senza lacrime lasciò il posto  a momenti di desolazione , di rabbia e rancore.

l’immagine della pira  riappariva, di quando in quando, come unica soluzione a questi stati d’animo velenosi e negativi

e il mio suicidio sarebbe stato una punizione per lui, una condanna al senso di colpa? o sarebbe stato del tutto inutile?

l’eco della mia morte, dovuta  alla sua crudeltà, lo avrebbe seguito per  tutto il grande mare e in qualsiasi approdo? o i popoli del grande mare sarebbero stati – come lui – sordi o insensibili  al mio estremo sacrificio? o ben presto immemori, nel breve tempo?

ognuna di queste domande e ognuna delle terribili risposte sfociavano comunque in una sensazione di fallimento e di perdita.

io avevo perso l’amore, la dignità, la speranza, la possibilità di vendetta , o di essere capita e ricordata per il mio ingiusto  patire e morire.

e tornava insistente l’immagine della  pira, che pareva attendermi là, nel cortile più lontano e nascosto…  

presi a misurare coi miei passi la stanza in penombra e i miei inutili e ripetitivi pensieri, avanti e indietro, indietro e avanti. senza pace e senza soluzioni, decisioni, scelte..

andai ad una delle finestre: per respirare un’aria diversa, per rappacificarmi con l’orizzonte e con il mare, entrambi vuoti. e coperti dai primi veli della sera. fu tra quei veli  che vidi un alone rosato e tremolante, non sul mare né sulla  spiaggia , ma molto prima delle prime onde e all’interno delle mura e del palazzo. Non poteva che provenire dall’ultimo dei cortili .

la mia pira. io l’avevo costruita per me. solo per me, come vogliono le consuetudini del mio popolo.

corro fuori dalla stanza, corro per i corridoi e per le scale. un altro scalpiccio mi segue, più lento, ed anche un altro e un altro ancora.

la pira, davanti ai miei occhi increduli, sta bruciando, complici le foglie secche. sulla pira c’è un corpo di donna, con accanto, strette tra le braccia, le armi di un uomo. di chi sono quel corpo e quelle reliquie?

stupefatta. incredula, come la nutrice che mi ha raggiunto e come le guardie che erano dietro di me…

riconosco un lembo dell’abito, sfuggito alle fiamme. e la forma dell’elmo, incandescente. sulla pira c’è Tilith, la più giovane delle mie sorelle principesse, e tiene vicino a sé le armi del “mio” fuggiasco ripartito senza addii ,  anche lei vittima di un amore grande,  non  ricambiato, alimentato e vissuto in silenzio….

Tilith aveva preso la mia pira, il mio posto e la mia decisione.

la tragedia invase le strade del mio cuore. il silenzio e l’impotenza fecero di me una statua.                                                  

all’alba, dopo una notte in cui avevo rivissuto malamente la mia vita, i miei errori, la mia buona e cattiva sorte, all’alba avevo deciso.

sapevo dov’erano dirette le navi.

ne avrei seguite le tracce..

lasciai alla maggiore delle mie sorelle, Ellissa, il trono e il compito di governare la città. oltre al compito di interrogare costantemente gli oracoli per aiutarmi nella mia impresa, e di fare ricche offerte agli dei della vendetta. Sarebbe passata lei alla storia, come regina di una  città, a sua volta  regina d’Africa. io sarei sparita nel nulla, nessuno avrebbe avuto motivo di ricordarmi per nessuna impresa o vicenda  degne di memoria.

cambiai abito e nome. portai con me solo il filtro della maga e la parola magica che mi aveva insegnato: il filtro era un elisir di lunghissima vita; la parola magica mi avrebbe aperto tutte le porte, col trasformare le mie sembianze in quelle di amici o potenti nemici dell’uomo dal cuore arido.

avrei avuto tutto il tempo e le occasioni che volevo per ostacolarlo, combatterlo,o ucciderlo, lui ed i suoi discendenti….

quando sbarcò nella terra per lui scelta dal fato, fui io ad armare i popoli di quei luoghi contro di lui…fui io a rapire i figli neonati dei suoi figli e ad affidarli alle acque di un fiume per ritardare altre imprese…

e fui io a metterli l’uno contro l’altro fino allo scontro mortale.. fui io a consentire la nascita di un grande dominio o stato, perché il mio popolo potesse sfidarlo, combatterlo e fargli assaggiare il sapore del pericolo… Di più non mi era consentito, non potevo stravolgere i fati…

ma che soddisfazione fu la mia nel far crescere vieppiù quell’impero, e poi avvelenarlo con la sua stessa elefantiasi, con la corruzione, la disobbedienza… e poi ancora far muovere popoli  affamati e ostili da lunghe distanze e impervi cammini.  popoli avidi di terra e ricchezze, di luoghi dove vivere e regnare. trovarono tutto ciò. e quanto più grandi erano state le fortune e la gloria dello stato  che avevo aiutato a crescere, tanto più amaro e desolante fu il suo crollo, che io avevo aiutato seminando i semi della Fine.

 

 

 
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