Creato da eliapirone1 il 18/07/2010

COCCI DI VETRO

di Elia Pirone

 

 

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La vita delle foglie

Post n°3 pubblicato il 18 Luglio 2010 da eliapirone1
 

Sebbene non lo sapessero, le foglie erano per natura affette da una forte miopia. Erano anche quasi del tutto sorde. E la situazione in cui si trovavano era destinata a rimanere inalterata, a prescindere dall’albero osservato. Gli uccelli lo sapevano bene, ma – vuoi perché non avevano con loro un rapporto idilliaco, vuoi perché erano gelosi della propria conoscenza – non lo avevano mai rivelato alle dirette interessate. Del resto, come può un essere per natura portato a spaziare lungo gli sconfinati tratti del cielo e della terra fare comunella con un altro che non vede a un palmo dalla sua clorofilla? E così le foglie trascorrevano vanamente la loro esistenza divise fra allegre amenità e domande (a dire il vero, il tempo per queste ultime era più limitato) ritenute importanti. Perché, se è vero che la vita di una foglia è breve e sprecarla in un insensato dormiveglia meditabondo sarebbe stato un crimine, non è sbagliato dire che – almeno una volta nel corso della vita – tutti sentono il bisogno di interrogarsi su cose un po’ fuori dal comune. E capitava, quindi, che, a coppie, al massimo in gruppi da tre (sempre per via della forte miopia e per l’udito non finissimo), le foglie avessero modo di parlare un po’ di queste questioni. Le quali, dicevano gli uccelli che captavano a volte brandelli di quelle discussioni, non avevano trovato una risoluzione da quando il primo albero aveva respirato i raggi dell’eterno sole. “E tante grazie”, rifletteva nel profondo del proprio animo ciascun uccello.

Solitamente, infatti, non c’era proprio il tempo di arrivare a una conclusione: le foglie avevano l’abitudine – unanimemente giudicata pessima dalle altre creature – di credere di essere, quelle due o tre che riuscivano a scorgersi vicendevolmente, nient’altro che sparuti abitanti di un piccolo rametto. Le curiose creature verdi ignoravano completamente l’idea di albero. Meno che mai quella di albero popoloso e pullulante di vita, di foglie come loro. Forse era anche per questo che, di comune accordo, sospendevano il giudizio ogniqualvolta affrontavano questi temi: siamo davvero poche, noi foglie, e sentiamo che la nostra esistenza è limitata; perché quindi darci pena? Abbiamo il dovere di non abbruttirci in questo modo. Era la loro logica. E non avevano dubbi sul fatto che fosse innegabile quanto il fatto che ora stavano vivendo.

Vivevano. Ma per quanto ancora. E dopo? Se potevano tranquillamente prendere atto del fatto di essere più che rare, di sicuro ciò che c’era dopo la vita le turbava un poco di più. Prima, s’intende, di tornare alle amenità di sempre. Però erano d’accordo nel dire che quella della non-vita (il termine “morte” era in uso solo presso gli uccelli) era una domanda di gran lunga più interessante. Cosa sarebbe successo dopo? Avrebbero continuato a dilettarsi come facevano quotidianamente? Come riportato dagli uccelli che vagavano di albero in albero, era loro opinione comune che nella non-vita tutti i divertimenti sarebbero cessati. Non avrebbero più gustato l’ottimo nettare del loro ramo, e sarebbero state separate per sempre le une dalle altre, e avrebbero, di conseguenza, detto addio alle loro piacevoli chiacchierate.

Ed era proprio un peccato - sentenziò un giorno un vecchio e saggio uccello – che, autunno dopo autunno, per via della loro miopia le foglie non vedessero le loro compagne cadute. Le quali, alle radici degli alberi, venivano gioiosamente trasportate dal vento in una melodiosa danza. Tutte insieme. Ognuna vedeva le altre a causa dei repentini cambi di direzione imposti dal vento. E tutte, osservavano gli uccelli, erano percorse, a volte, da un velo di tristezza: la loro danza non permetteva loro di arrivare là, dalle altre compagne che, appese ai rami, continuavano a cianciare destando una infinita compassione.

 

 
 
 
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