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North Vietnam 8 -C'è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce.

Post n°188 pubblicato il 30 Aprile 2020 da nem_o
Foto di nem_o

La strada si impenna subito e dopo poche centinaia di metri un bivio.
A destra si scende in altra direzione rispetto a quella da cui arrivo, a sinistra si sale ancora.
Vado a sinistra e la strada sembra andare a perdersi in mezzo alla natura. La foresta è sempre più rigogliosa e impenetrabile. Non vedo tracce di sentieri, ma solo verde nelle sua diverse tonalità. Riconosco qualche pianta di bambù e qualche rara palma, il resto è vegetazione a me ignota.
Passo una specie di colletto e la strada prende a scendere per qualche centinaio di metri e mi porta in una valletta nascosta dietro la montagna che ho appena doppiato.
Un piccolissimo torrente scorre in fondo, ai lati qualche misera capanna, un po' di terrazzamenti per il riso, un orto e un paio di bufali che pascolano.
E quando penso di essere finito in un luogo remoto dove la gente vive in una dimensione parallela a stretto contato con la natura, proprio laddove la strada asfaltata finisce e si trasforma in carrareccia mi si presenta davanti una grande struttura moderna circondata da palme che racchiudono un giardino in cui sono collocate due piscine e una gabbia con un babbuino.
Dove sono finito?
Un novello progetto Dharma perso per le foreste Vietnamite?
Un centro vacanza per i bambini di Hanoi?
La foresteria di un parco?
O semplicemente un albergo?
Con questi dubbi prendo la strada del ritorno salutando un gruppo di giovani che stavano facendo picnic giusto ai margini di questa misteriosa struttura.

(Ora a casa su google map ripercorro la strada fatta e vedo che si tratta di un ristorante che risponde all'altisonante nome di Suối Khoáng nóng Hua Pe. Sempre grazie a Google Map capisco che mi trovavo a due km dal Laos.
Google Map però non mi dice cosa ci faceva quel babbuino in gabbia.)


Non passo dalla festa di matrimonio ma imbocco un'altra strada che ad occhio mi dovrebbe portare in direzione Dien Bien Phu, zona Bunker di Castries.
Che trovo, visito alla veloce, giusto perché è mio dovere farlo e dopo, un paio di bibite fresche, sono pronto per vivere la terza parte di questa giornata.
Prendo la strada in direzione Muang Lay, strada che il giorno dopo ripercorrerò in autobus, e vado a cercare un villaggio che si preannuncia interessante. Di interesse culturale diceva la guida. Non era né più né meno che un normale villaggio, sempre interessante comunque.
Un affascinante spaccato di vita agreste con le tipiche case su palafitte con doppio tetto che va a scendere a spiovente sui 4 lati della casa e il "sotto" dedicato a ripostiglio. I panni stesi e un pagliaio di fianco a casa sono un po' i tratti comuni di tutte le case in questa zona. Non è una zona povera, le case sono belle, alcune di recente costruzione. Nelle risaie bufali e anatre.
Anche qui vado finche c'è strada e anche un pochetto oltre quando la strada diventa sentierino di cemento in forte pendenza dietro a quello che sembra essere una centrale elettrica.
Non c'è più niente e torno indietro raggiungendo nuovamente la strada principale.
La strada ora sale, passo un paio di polverosi cantieri e, una volta arrivato ad un colle capisco che non è il caso di insistere e proseguire su questa strada.
Salendo, sulla destra avevo adocchiato qualche stradina secondaria da esplorare.
Ne prendo una che si dirige in direzione di alcune case in cima ad una montagna ma dopo un paio di km mi rendo conto di non essere in grado di condurre lo scooter su una simile strada. Ghiaiosa, in pendenza all'inverosimile e tutta scavata da canaline di scolo dell'acqua che se ti infili un una dai il giro.
Con difficoltà son salito, ma è la discesa che mi mette a dura prova.
Me la faccio addosso dalla paura di cadere, punto i piedi a terra in continuazione che forse sarebbe l'ultima cosa da fare in simili frangenti in cui bisognerebbe lasciar correre il mezzo, e infine ne esco.
Sudato e un po' spaventato ma ne sono fuori.
Giusto per quei pochi minuti che mi separano dall'imboccare una nuova stradina in forte discesa alla fine della quale, saggiamente parcheggio il mezzo e proseguo a piedi.
Avevo notato dall'alto della strada un piccolo quadretto idilliaco di quelli che si vedono nei film sulla guerra: un piccolo laghetto circondato da palme, qualche piccola risaia a terrazza con persone intente ai lavori e poco più in alto due-tre capanne di legno molto semplici e povere.
Silenzio rotto da poco vociare in lontananza. Quel silenzio che nei film precede l'attacco dei soldato americani, in un attimo dal silenzio si passa al suono dell'orrore.
Nel mio caso il silenzio precede solamente l'incontro forse più importante di questo viaggio.
Mi avvicino alla risaia dove due ragazze stanno trebbiando e insaccando il riso mentre gli uomini, anch'essi due, portano via i sacchi pieni.
Tutto il lavoro supervisionato dai decani della famiglia: una anziana con un abito moderno e liso che cerca di ricreare le fattezze e i variopinti colori di un abito tradizionale e un anziano con semplici vestiti da contadino che hanno visto altri splendori. Legato sulle spalle della signora un neonato.
Pochi minuti di incertezza da parte di tutti poi con qualche sorriso si rompe il ghiaccio, faccio un paio di foto e l'anziano a gesti mi fa capire che mi invita a casa sua.
Usciamo dalla risaia e, percorrendo una stretta stradina in salita, arriviamo alla sua abitazione. Un semplice capanna di legno poggiata sulla terra e non sui pilastri delle palafitte che si vedono in giro.
Entro dentro ed è buio, non ci sono finestre.
Pian pianino mi adatto all'oscurità che non è totale perché le pareti sono fatte di assi di legno non perfettamente combacianti e di li filtra un po' di luce.
La capanna è divisa in due parti: una piccola porta, anzi un'apertura, separa la zona notte dalla zona giorno.
Mi trovo nella zona giorno e non vedo nulla.
Nel senso che non c'è veramente nulla a parte un tavolino di legno, 4 sgabelli, alcune pentole a un focolare nell'angolo senza camino.
Una lampadina penzola da un lato della stanza.
Nella sua povertà, nella sua semplicità, nel suo non possedere nulla quest'uomo mi ha aperto casa sua.
E forse vuole anche aprirmi il suo cuore.
Sento che chiama qualcuno nell'altra stanza.
Un fagotto strisciante si avvicina a noi, una ragazzina dagli arti deformi striscia, perché non ha altro modo di spostarsi, sino a noi.
Ecco il motivo della basilare carrozzina davanti a casa.
Sono interdetto, non so che dire e non lo saprei neanche se conoscessi la loro lingua.
Mi sento fuori luogo, mi sembra di violare la loro intimità e di violentare le loro vite con la mia presenza.
Vorrei non essere mai entrato li, vorrei essere ovunque ma non lì.
Inutile essere occidentale ospite di una famiglia che non ha nulla se non la propria dignità.
Mille pensieri mi affollano la testa: come può vivere qui questa ragazza, qui dove non può neanche salire un'auto o un'ambulanza, qui in questa casa dove non ha nulla per passare le sue giornate, neanche una tv. Qui dove non c'è assistenza medica e dove nella stagione delle piogge aumenta l'isolamento della sua capanna.
E' la figlia? E' la nipote? Chi si prende cura di lei?
Nella sua immensa dignità e in forte contrasto con la signora del matrimonio, questo signore non mi chiede nulle mentre mestamente esco di casa sua.
Anzi, prova anche a rifiutare quei 4 soldi che gli voglio lasciare mentre, con un groppo in gola, mi allontano da quanto di più sacro mi ha fatto vedere: la sua casa e la sua famiglia.
Conserverò per sempre questo ricordo nel mio cuore e il volto rassegnato di questa ragazza.
Ora che ricordo.
Son rimasto lì imbambolato e non l'ho neanche salutata ....

C'è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce (L. Cohen)

 
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