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Dal mio romitorio del Frainile. Evento ad Orvinio-Canemorto

Post n°781 pubblicato il 22 Luglio 2014 da giuliosforza

Post 737

Dal mio romitorio al Frainile non vedo che silenzi e non ascolto che colori. Sinestesia totale. Non so descrivere l’azzurro del cielo ed i verdi dei noci. Ancora rose e roselline, una esplosione di ortensie variegatissime, appena l’accenno di un fiore sul venefico oleandro. Agrifoglio cresciuto spropositatamente. Profumo inebriante di gelsomino tutto intorno. Il rosmarino invade l’aiuola e ricopre gli steli ammosciati dei tulipani già da tempo sfioriti. Prime lucertole per la gioia dei gatti randagi smagriti per l’invernale digiuno. Nessun canto d’uccelli, già a caccia lontano dai nidi. Non garriti di rondini, non cinguettio di passeri. Solo il canto dell’anima mia per P., beatitudine pallida.

Alle 1400 ora solare (il mio orologio si nega all’ora legale) un diluvio di pioggia e grandine s’abbatte sulla terra attonita: A torrenti l’acqua  precipita a valle a colmare la “rifota” (gora di contenimento dell’antico mulino ad acqua) ed i torrenti che via via alimentano il Turano, il lago omonimo, il Velino, il lago di Piediluco, le cascate delle Marmore, la Nera, ed infine il fiume fatale di Roma, le cui correnti torbide arricchiscono di linfe chiare. Ancora mentre annoto questi eventi, le 17.00 solari, rombi ininterrotti di tuoni giungono dalla terra d’Abruzzo e si diffondono monotoni (“nonno in carrozza”, recitavano le antiche fole di queste parti) disperdendosi oltre i Lucretili e Simbruini  fino ai cieli dell’Urbe.

 *

     Orvinio, ultima propaggine dell’Alta Sabina, al confine delle provincie di Roma e de L’Aquila , appartiene ai “Borghi più belli d’Italia”, nonostante le selva  di antenne paraboliche  che in lungo e in largo deturpano il grigio antico delle sue case, che fanno corona al Castello Malvezzi. Dai suoi 840 metri di altitudine guarda il Terminillo e più a sud le montagne e le valli degli Equi alteri che a fatica Roma domò. Fino al 1863 il suo nome fu Canemorto, orrendo nome  dovuto probabilmente alla fine di un tirannuccio locale odiato o, come vogliono gli  amanti della storia togata, alla vittoria ivi riportata nel  837 da Carlo Magno contro i “cani” saraceni, evento del tutto improbabile. Sta di fatto che nel suo territorio sono i ruderi di una abbazia benedettina, che sarebbe stata voluta proprio da Carlo Magno  in ricordo di quella vittoria, detta Madonna del Piano, la cui annessa basilica si intende restaurare. Ma altri monumenti possiede Orvinio degni di nota, tra i quali un tempietto ottagonale che si vuole disegnato da Bernini, una Chiesa parrocchiale a forma pentagonale, un santuario extra moenia (Madonna di Vallelonga) ed una chiesa della Madonna dei Raccomandati  che conserva affreschi e tele dell’orviniese Vincenzo Manenti e di suo padre Ascanio (pennello decisamente più naif), vissuti negli anni più fervidi del barocco ed operativi in Sabina e dintorni. Altre glorie di Orvinio sono il secentesco incisore Giovanni Girolamo Frezza e l’epigono d’annunziano Virgilio Brocchi, morto nel ’62, i cui romanzi, destinati per lo più a lettori di non eccessive pretese, ebbero in discreto successo.

         Ma non è certo per raccontare di Orvinio che scrivo queste note, bensì per riferire di un evento recentemente ivi svoltosi nella Chiesa dei Raccomandati: Coenobia  anno zero. Verso il festival della cultura benedettina, che si inserisce tra le iniziative illustranti il (presunto) Cammino benedettino tra Norcia e Cassino, trovandosi Orvinio nel bel mezzo di esso. Ho seguito con scarso interesse la lunghissima relazione dell’architetto Bini sui resti della Madonna del Piano e sull’architettura benedettina: il relatore non si cura del tedio e del nervosismo che si impossessano del pubblico man mano che egli procede, compiaciuto delle sue “visioni ed ispirazioni notturne”; e con infinitamente maggior interesse, quella di  Marco Sarandrea, proprietario della nota distilleria collepardese, e noto  divulgatore e collaboratore, in Italia e nel mondo, di istituzioni universitarie e non, interessate alla scienza benedettina dell’erboristeria.

     Durante il bla bla del Bini ho avuto tutto il tempo di distrarmi e di ben osservare i due affreschi dirimpettai del Manenti e notare  varie cose curiose. In quello della parete di destra, raffigurante il trionfo della Vergine con un San Domenico ed una, presumo, Santa Caterina che le porge un giglio, un Pontefice, ginocchioni fra la folla, indossa il triregno; in quello della parete di sinistra, raffigurante il trionfo di Cristo, un San Francesco ed un, presumo, San Bonaventura con lo stesso giglio in mano, il triregno del Pontefice è poggiato a terra. A che la differenza? Che si voglia ricordare a Maria santissima che Ella è solo terza in gerarchia dopo Cristo e il Papa? L’affresco di destra è inoltre incorniciato da quindici piccoli riquadri illustranti ciascuno un mistero del rosario, dall’Annunciazione all’Assunzione, ed un distico criptico alla base recita: VOS MARIAE PREBETE  ROSAS DE CORDE PUDICO – ILLA EX EMPYREO POMA BEATA DABIT. Trovo curioso che nel dipinto si offra alla vergine un giglio (simbolo di purezza) ed il distico inviti invece ad offrirle rose, simbolo di passione, con evidente riferimento al Rosario. e mi diverte il contraccambio mariano: poma, abbondanza di frutta. Curioso perché? Le rose non si mangiano. Ed una Vergine in terra contadina non può fare di meglio che regalare, ad un popolo di contadini,  abbondanza di frutta. Ma c’è di più. Mi par di intendere che sotto il distico si nasconda un significato metaforico, più o meno irriverente, che sul momento  mi sfugge. Per questo dico di distico criptico.

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 
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