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Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale
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1064
Una delle fantasie in cui, da quel vanesio che sono, mi è piaciuto sempre cullarmi.
In una delle mie precedenti vite fui anche Parini. E fra tutte le mie opere trasudanti disprezzo per il servilismo di ogni genere scrissi anche l’ode La vita rustica, ancora un pochino barocca nello stile ma pienamente neoclassica nei contenuti, nella quale lo spirito del Giorno già tutto si respira.
Rinato in un ‘secol’ ben più ‘venditore’ mi trovo ancora maggiormente a disagio, avendo mantenuto lo sprezzo superbo per il baratto volgare della mia dignità, e di quel poco di ingegno che mi ritrovo, col “mammona d’iniquità”. Ancora amo impunito ripetere:
Me non nato a percotere
Le dure illustri porte
Nudo accorrà, ma libero
Il regno de la morte.
No, ricchezza né onore
Con frode o con viltà
Il secol venditore
Mercar non mi vedrà.
Dovessi ancora per punizione rinascere (Platone e Buddha intercedano perché ciò non sia) proseguirei con la stessa protervia a negare ogni ‘genuflessioncella d’uso”, quella che il fiero allobrogo Vittorio Alfieri rimproverava al mite Pierino Trapassi, alias Metastasio.
*
Seguo con vero piacere su rai 5 Aureliano in Palmira, Rossini 1810.
La figura di Aureliano mi piace, non solo per la riunificazione dell’Impero da lui nel suo breve regno operata, per la costruzione delle mura di Roma a lui intitolate e in buona parte ancora resistenti, e per tante altre belle cose. Ma anche, e direi soprattutto, per il tentativo di introdurre e diffondere nell’Impero il culto del Sol invictus zarathustriano. Il sole splende visibilmente su tutti, non si vela dietro alcun mistero, tutto illumina e scalda, nemmeno i ciechi possono negarne l’esistenza, solo un folle può negarne l’evidenza. Nel culto del Sol invictus tutti i popoli della terra potrebbero ritrovarsi, non esisterebbero guerre di religione, nelle quali spesso il Dio metafisico combatte contro se stesso essendo lo stesso Dio venerato dai due o più popoli contendenti. Quando Costantino riconoscerà il Cristianesimo, meglio il cattolicesimo niceno-costantinopolitano nel quale ben poco resta del Cristianesimo cristico, come religione dell’Impero, non realizzerà una unificazione, metterà anzi le basi per tutte le divisioni, madri, cause prime o concause di tutte le guerre.
Tutto ciò suona a molte orecchie blasfemo. E mi tocca tacere. Mi tocca praticare il culto del Sol Invictus nella cella segreta della mia anima solitaria.
*
Non sarà un ciceroniano ‘Somnium Scipionis’. Ma è sicuramente più divertente. Non vi si danno platonismi cosmismi stoicismi ‘et similia’, ogni metafisincheria è da esso bandita. Forse solo un analista junghiano potrebbe trovarvi qualche spunto per le sue riflessioni. Per questo tento di raccontarvelo, e raccontarmelo.
Dicono che sia brutto segno per un vegliardo dormire sognare o solo sonnecchiare troppo spesso. Perché brutto segno? Potrebbe semplicemente trattarsi di un allenamento in prospettiva dell’imminente sonno eterno. A me di recente questo avviene, sempre più di frequente avviene, nella breve siesta pomeridiana o la sera davanti alla TV in attesa dell’assunzione degli ultimi farmaci; avviene di prender sonno e sognare, e di un vero dormire e sognare si tratta, non di un semplice dormivegliare. E quasi mai tali sogni sono incubi, come in maggioranza quelli della notte fonda o della primissima alba. Anzi sono di una luminosità e di una vivacità senza pari, e colmi di eventi. E loro assoluta caratteristica è che sono quasi tutti ambientati nel mio borgo, un borgo che cambia magari scenografia ma stranamente è sempre lo stesso, sempre diverso e sempre uguale, sempre diverso perché sempre uguale.
Abitato di norma da un centinaio di vecchi e da una ventina di donne e uomini maturi (di giovani nemmeno l’ombra, se non in qualche fine settimana e durante un mese o due dell’estate, quando è gradevole abbandonare le afe di Roma o di Tivoli per respirare al fresco dei nostri 757 metri sul livello del mare al cospetto delle prime montagne abruzzesi) il mio natio borgo selvaggio è lo scenario ideale per i sogni. E anche per i tre quarti di questo sogno postprandiale lo è.
Nel sogno sono sdoppiato fisicamente (non m’era mai avventuo: m’ero sì una volta nel sogno sdoppiato, ma in una entità viva e una morta, avevo partecipato al mio funerale e assistito divertito e disincantato alle scene esilaranti che si svolgevano durante il mio corteo funebre fra lacrime sospiri dicerie pettegolezzi e mal represse risa); in questo caso sono l’io narrante e osservante e l’io narrato e osservato perso nella fitta calca dell’affollatissima misteriosa scena alla Hieronymus Bosch ma senza oscenità diavoli inferni e paradisi. E la cosa infastidisce non poco il primo io, che parecchio se ne rode. Vorrebbe che tutte le attenzioni fossero per lui, e invece di lui e della novità dello sdoppiamento nessuno sembra accorgersi. E questa dello sdoppiamento non è la sola originalità del film onirico di cui sono nel contempo regista protagonista e anonima comparsa. Mentre scrivo ho ancora la fantasia stracolma delle fantasmagoriche immagini che l’hanno attraversato, distinte in due diversi quadri, uno più bello dell’altro. Nel primo quadro le zone centrali e quella più bassa del paesello detta ‘Palaterra’ hanno riacquistato tutta la vivacità dell’epoca della mia infanzia: da ogni casa, da ogni tugurio, da ogni rustico gallinaio addossato a ogni casa, da ogni stalla, sotto un sole nel suo pieno risplendere escono e si mescolano non in un sabba infernale ma in un tripudio celestiale vivi e morti, piccoli e grandi, vecchi arzilli e curiosi, monache preti soldati poliziotti carabinieri galline cani gatti maiali asini cavalli muli mucche pecore capre e turbe di contadini cantanti e già semi avvinazzati, come quelli della mia infanzia diretti, dopo la faticosa giornata, all’osteria del Grottino a raccontar di guerre e a cantarne le canzoni in cori sempre più rumorosi e sgangherati man mano che il vinello di Angelo e Filomena diminuisce nei boccali da un litro (tubo, alla romana) da mezzo litro (foglietta) da un quarto (quartino). E da ogni parte canti nitriti belati muggiti guaiti miagolii cinguettii chicchirichì di galli di e coccodè di galline tutti insieme a formare una rumorosa orchestra da transavanguardia, e da ogni casa contadini muratori mugnai allevatori pastori vaccari tagliaboschi suore e qualche prete. e tutti a chieder nuove di me (del mio primo io); e ciurme di miei ex allievi d’università ridiventati giovani e adolescenti, precipiti, tra sgomitate e pericolosi sgambetti, tra canti e vezzi e scene d’amore innocenti, verso il ruscello della Fonte che scorre canterino a valle. E tutti a reclamar da me (l’invisibile o incurato io primo) un ‘Lied’ schubertiano e mahleriano o un discorso, e io (il secondo io) a schermirmi (quando mai passerebbe per la testa all’io primo di schermirsi?), e a sorridere più o meno verecondamente alle belle fanciulle ex allieve nel pieno del loro giovanile fulgore o tornate adolescenti o bambine innocenti, italiane e straniere, lusitane basche greche tedesche giunte da noi per l’Erasmus.
Nel secondo quadro il sogno cambia scena. Si svolge a Roma nel mio studio salotto biblioteca bazar ove non è più spazio nemmeno per uno spillo. E Laura e un’amica e Jacopo Numa Leon a frugare in ogni angolo in ogni stipo in ogni cassetto in ogni scaffale in ogni cassapanca alla ricerca dei miei numerosissimi peluches grandi e piccoli (scimmie leoni serpenti cani gatti oche anatre pappagalli parlanti tartarughe… un vero zoo) e a pretendere l’impossibile impresa di tentar di montarli a piramide per adornarne il presepe, ché nel sogno è già Natale. Ed io a suonare sul piccolo organo-harmonium elettronico pastorali classiche e nenie popolari d’ogni paese.
Ma a questo punto improvvisamente il sogno svanisce e mi desto a quell’altro complesso tragicomico sogno (“Tutto nel mondo è burla”, ‘Falstaff’) che chiamano vita. E tornano le diurne diuturne malinconie e nostalgie a dilacerarmi l’anima antica.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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1063
Quando conobbi Maria Teresa Luciani, sorella del compositore Antonino Riccardo Luciani professore al Conservatorio ‘Cherubini’ di Firenze e alla Scuola di Musica di Fiesole, subito ebbi l’idea di sfruttarne la competenza e la sensibilità musicali ai fini dei miei corsi accademici di Pedagogia Generale nei quali trattavo essenzialmente di Filosofia dell’Educazione e di Educazione Estetica. Come per me, per la Luciani la musica non rappresentava un puro ébranlement nerveux, ma strumento supremo della Ragione partecipativa, via privilegiata all’esperienza dell’Essere. Per questo i suoi cicli di Educazione all’Ascolto non rappresentavano qualcosa di giustapposto ai miei Corsi, ma erano ad essi perfettamente complementari.
Pur condividendo le considerazioni di quanto i cultori del tema in oggetto, da Adorno a Manzoni, hanno affermato, noi si andava oltre, ritenendo che al di là delle sue pure premesse e finalità tecniche ogni educazione all’ascolto debba rappresentare una totale immissione nell’evento sonoro come nel più profondo di se stessi donde ogni evento, anche l’evento sonoro, prende origine e senso. Solo l’ascolto, costante e paziente, diuturno e illuminato è in grado di far sì che il fruitore “indifferente” adorniano risalga i gradini che lo conducono all’ “esperto” passando per “colui che ascolta per passatempo”, per “l’ascoltatore risentito”, per “l’ascoltatore emotivo”, per il “buon ascoltatore” e il “consumatore”, secondo la singolare classificazione del Francofortese.
L’argomento del mio Corso Accademico del 1983 fu L’Educazione Estetica, da intendere nella mia accezione di dis-educazione estetica (dilatazione della sensibilità, de-gregazione come liberazione dal gregge -de grege-, contro un’educazione intesa quale aggregazione -ad gregem-). Nessun autore meglio di Beethoven si prestava per il commento e l’approfondimento musicali dei concetti offerti alla riflessione dei miei discepoli. I numerosi brani beethoveniani proposti per l’ascolto in quella occasione (una illuminata cernita fra le sonate per pianoforte, le sinfonie e la musica da camera) consentono di meglio intendere la natura e le finalità di un’educazione come quella estetica che miri alla liberazione, al recupero, al potenziamento del to-aestheticon mediante il long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens che è nella provocatoria proposta dis-educativa di Arthur Rimbaud.
Il 1984 fu l’anno de L’Educazione “religiosa” nel suo senso latissimo di avvertimento del legame fra gli esseri e coscienza del recupero prima intellettuale poi mistico dell’unità cosmica. La direzione monistico-panteistico-immanentistica da me privilegiata ci permise di proporre per l’ascolto autori nei quali la potenza dell’emozione lirica travalica la concezione più o meno fideistica del reale. Ci potemmo rivolgere così senza ambagi e sensi di colpa al Bach delle Passioni, al Beethoven della Missa solemnis, all’Haendel del Messia, ai numerosi Mottetti di Palestrina, al Pergolesi dello Stabat Mater, al Brahms del Deutsches Requiem, al Verdi e al Perosi delle relative Messe da requiem.
Dedicai il 1985 all’L’Educazione Morale. L’argomento ci suggerì spontaneamente per l’ascolto quell’aspetto dell’attività musicale che Platone considerava non immorale: il coro. Se noi quasi del coro abusammo non fu certo perché condividessimo le incondivisibili opinioni musicali platoniche in generale, ma perché freschi delle emozioni ed incursioni nei territori orffiani e kodàlyani e da sempre privilegiatori della voce come supremo strumento fra gli strumenti, ci si sentiva nel coro a casa nostra. Vastissimo fu l’excursus: dal coro nell’antica Grecia a quello cristiano di ogni tempo e latitudine, ai Carmina Burana , alla produzione sinfonico-corale da Banchieri a Antonino Riccardo Luciani.
Il 1986 fu dedicato jn maniera specifica al tema generale Musica ed Educazione. Attraverso Wackenroder, Schopenhauer, Hoffman, Tolstoi, Marcel, si studiarono i rapporti tra educazione e cultura, cultura-ritmo e aritmia, educazione e conoscenza, conoscenza e noumeno, musica e noumeno. Per l’ascolto si scelsero autori da Bach a Stravinskij nella cui opera è più facilmente rinvenibile l’elemento “demonico” positivamente e negativamente inteso: affermazione e negazione, purezza e colpa, salvezza e dannazione.
1987. Nel corso di quell’anno si trattò l’aspetto pedagogico dell’attualismo gentiliano. L’Educazione all’ascolto ebbe un tema diverso: l’immaginario, il fantastico, il mondo della fiaba nella musica, lo stesso che trattai in quell’anno al Convegno Internazionale di Oslo dedicato a La dimensione del meraviglioso. Da Oberon a Giselle fu presentato il meglio della produzione fantastica.
1988. Iniziò il ciclo dedicato alla pedagogia dei “grandi libri” con la proposta del Bagavadgīta: occasione unica per l’ascolto della musica orientale, soprattutto indiana e di quella russa, dalla nascita delle Scuole Nazionali al realismo socialista.
1989. Pedagogia dei “grandi libri”. La Bibbia. Per l’ascolto, da Palestrina a A. R. Luciani, si ebbe modo di deliziarsi con la migliore musica traente ispirazione da testi o episodi biblici (oratori, mottetti, brani da camera) e di approfondire la conoscenza della musica ebraica.
1990. Fu l’anno del Corano, e l’Educazione all’ascolto trattò doverosamente della musica araba e di quelle altre, soprattutto la spagnola, che motivi e influssi della cultura araba accolgono.
1991. Tema del Corso: Goethe e Novalis: due metafore educative per il tempo presente. Nell’Educazione all’ascolto dal Beethoven dell’Egmont e dei Lieder di ispirazione goethiana al Wolf del Lied der Mignon gran parte della produzione musicale traente ispirazione dalle opere di Goethe e di Novalis ebbe modo di essere da noi rivisitata.
1992. Se negli anni precedenti nei miei Corsi mi ero proposto di alternare la ricerca sui fondamenti filosofici dell’attivismo pedagogico con la riflessione sulle fonti perenni della Saggezza, dalla quale pare non possa se non con sommo pericolo dissociarsi, soprattutto in educazione, la scienza, in quell’anno intesi spingermi oltre trattando de La provocazione dannunziana: nascita, formazione, morte e trasfigurazione dell’uomo estetico. In Maia, in Alcione, ne Il trionfo della morte, ne Il fuoco, ne Il Notturno ci calammo, come in un baudelairiano gouffre per cogliere il sentimento dell’abisso donde ogni mito estetico scaturisce. Per l’ascolto avevamo solo l’imbarazzo della scelta, tali e tanti sono gli interessi musicali del Pescarese e tale e tanta è dal Martyre debussyano alla Francesca dello Zandonai la produzione contemporanea su testi di D’Annunzio e dal D’Annunzio nei suoi scritti evocati (dal Bach della Missa in mi minore al Beethoven del Trio degli spiriti e ad altri).
1993. Inizia il ciclo inconcluso dei grandi “dis-educatori”, nel mio positivissimo senso inteso, del genere umano e il privilegio di aprirlo tocca al caro folle di Röcken: F. Nietzsche o della gaia Scienza del farsi un’opera d’arte. Anche in questo caso grande fu l’imbarazzo della scelta, ma soprattutto grande fu la gioia di far conoscere agli ignari studenti, e non solo ad essi, il musicalischer Nachlass nicciano. Ascoltammo naturalmente molto Wagner e l’Also spracht Zarathustra di R. Strauss.
1994. Intermezzo al ciclo appena iniziato fu l’argomento del Corso del 1994 dedicato a L’universo come mio corpo. Le premesse immanentistiche dell’educazione ecologica. Dal cosmismo bruniano al panismo dannunziano vivemmo le più alte emozioni filosofiche e letterarie che la contemplazione stupefatta della Casa dell’Essere può suscitare. Anche in questo caso, come è facile immaginare, numerosissime furono le possibilità di ascolto offerteci della infinita serie di composizioni evocanti immagini, sentimenti, impressioni, descrizioni (o invenzioni) della Natura. Privilegiate fra di esse furono le meno ligie a una riproduzione superficiale ed epidermica degli aspetti sensibili più immediati dei fenomeni naturali. D’Annunzianamente si direbbe che ebbero il privilegio quelle che, come ogni grande arte, più che descrivere il mondo lo sforzano ad essere.
1995. Si torna al tema con una impegnativa e complessa proposta: Dal Teilmensch della Provincia Pedagogica al Ganzmensch della Provincia Estetica. Hölderlin, Goethe, D’Annunzio, Hesse, o della nascita,morte e trasfigurazione dell’uomo estetico. Per l’Educazione all’ascolto scegliemmo il tema del Wanderer soprattutto per l’evocazione in esso contenuta delle tensioni, delle curiosità, degli entusiasmi e dei disincanti di cui l’Homo Viator alla ricerca della sua totalità come dilatazione di sensi e di desideri (Homo aestheticus) si nutre.
1996. Due furono i temi principali del Corso di Pedagogia: Fondamenti di una pedagogia dell’immanenza e Particolare e Universale in musica. Il seminario di educazione all’ascolto trattò di autori del ‘500 contemporanei di Giordano Bruno, da Banchieri a Willaert attraverso Marenzio, Di Lasso e Monteverdi. Pier Luigi Palestrina come musicista della trascendenza assoluta sarebbe stato fuori luogo in un Corso sull’immanente pedagogico.
1997. L’educazione del Superuomo. Un’educazione per tutti e per nessuno. Il seminario fu dedicato naturalmente ad alcuni Lieder nicciani e ad altre sue produzioni, alla sua opera prediletta, Carmen, al Parsifal wagneriano che fu l’occasione della definitiva rottura di Nietzsche con Wagner, e allo Also sprach Zarathustra di R. Strauss, la cui “seriosità” controbilanciammo con Till Eulenspiegels lustige Streiche dello stesso autore.
Fu l’occasione questa per la presentazione, nel seminario, oltre a Le devin du village di Rousseau, dell’opera buffa di Cimarosa, Hasse, Paisiello, Pergolesi, Piccinni, D. Scarlatti. Tutti autori dal ginevrino tenuti in grande considerazione.
Negli anni dal 1999 al 2001 i Corsi furono dedicati soprattutto alla lettura pedagogica di Byron, D’Annunzio, Goethe, Hesse, Mann, ed i seminari di educazione all’ascolto presero spunto da riferimenti musicali presenti nella loro opera. Attenzione massima fu data al ciclo wagneriano de L’anello del Nibelungo, ad ognuna delle cui giornate fu dedicato un anno accademico.
2002. Il Corso fu dedicato a: Il teatro per l’educazione: TeatroVita-VitaTeatro, e il seminario prese in considerazione le più note musiche di scena da Schumann al Bizet dell’Arlesiana, da Beethoven a Debussy.
2003. Il Corso ha riproposto il romanticismo pedagogico, ed il seminario i più famosi Lieder di Schubert, Schumann, Beethoven, Wagner e Mahler.
Ha scritto Elias Canetti della musica:
“Anche quando accompagna le parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo delle parole (…).
Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle strette maglie delle funzioni, e conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il compito più importante della vita intellettuale futura”. Citazione dalla tesi di laurea della mia allieva Maria Clotilde Nera.
Ed altrove: “Inventare una musica in cui i suoni siano in moltissimo contrasto con le parole, e in questo modo mutare le parole, ringiovanirle, colmarle di nuovo contenuto”.
Tra i fini propostici con l’assunzione di un seminario musicale a commento e sostegno di un Corso accademico di ricerca pedagogica era anche quello della restituzione all’Isi velata dell’altissimo ruolo che le compete: rivelazione e liberazione dell’Essenza a sé medesima, celebrazione suprema per essa dell’autogenesi dello spirito.
Speriamo di non averlo in tutto fallito.
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1062 Triste vigilia. Ai miei colli è novembre. Pioviggina. È buio come fosse tramonto, ed è alba avanzata. Esco più che a novembre intabarrato. Anche il vento si quieta e posa. Il Borgo è deserto. Desertissima la Piazza il cui fitto silenzio vieppiù attetrano le lacrime dei platani secolari (gli stessi della mia infanzia) scivolanti tra i rami ancora ignudi. Maddalena la romena col suo cagnolino nero. Scende da me ad insegnarmi come collegare alla rete il calcolatore elettronico mediante il cellulare. Addio laboriosa ‘saponetta’ Vodafone. E penso. Penso all’ultimo verso del Parsifal: Erlӧsung dem Erlӧser o von (come alcuni interpretano, e tra questi io) Erlӧser? Liberazione al o Liberazione dal Liberatore? Cosa veramente intende Wagner? Buona festa a chi festeggia. Io oggi festeggio preparandomi, per il parco pranzo, riso e anellini ai funghi porcini veraci, finocchi e fagioli grandi di Spagna bolliti e conditi con aceto balsamico doc e una goccia d’olio, pettino di pollo ai ferri. E mangiando in silenzio mi comunico. “Io mi comunico del silenzio come, cotidianamente, di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, (Sergio Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale) * Il senso della mia longevità? Forse una Sorte benigna vuol concedermi l'opportunità di recuperare il recuperabile di quelle stagioni della mia vita di cui fui dagli eventi e dagli uomini defraudato Illusione. Nessuno più potrà restituirmi le stagioni della vita di cui fui rapinato. * Noseda. Un direttore coi fiocchi, che ci ha regalato una Lucia di Lammermoor, soprattutto la scena della pazzia, tra le migliori degli ultimi venti anni; ed un Evelino Pidò, un nome a me fino a ieri pressoché sconosciuto, che ci ha incantato con una Medea cherubiniana che sfiora la perfezione. Capisco ora l’entusiasmo di Beeth Haydn e d’altri per il classicista fiorentino. Una strepitosa, come sempre, Anna Caterina Antonacci è stata una Medea di una intensità tragica senza pari. Purtroppo a rovinare il tutto ci hanno pensato le solite regie che coi loro stravolgimenti (modernizzazioni essi le chiamano) di luoghi tempi e spazi compiono gli scempi ai quali siamo purtroppo da molto tempo abituati. Modernizzare non è deformare, in sostanza ridicolizzare: il classico si modernizza da solo se consegnato nella sua integrità al moderno fruitore che lo guarda e recepisce con la sua nuova sensibilità. Il resto è stupida prevaricazione. Perché allora non ‘modernizzare’ musica e testo, cioè scrivere un’opera nuova sullo stesso argomento? * Sarah Ferrati in Lo zoo di vetro di Williams. Che interpretazione! E che voce misurata, chiara, squillante, di cristallo! Finalmente capisco tutte le parole che un’attrice pronuncia. Ciò che quasi mai avviene, soprattutto nei cantanti d’Opera. * Nella Butterfly, Illica e Giacosa fanno diventare ‘alli mortacci tua!’ ‘anime sante degli avi!’. Squisita delicatezza giapponese. * Sogno di una notte di mezza estate (Mitsommernachtstraum). Mi estasio con Mendelssohn Bartholdy e il suo ispiratore Shakespeare, e con Carl Maria von Weber e il suo Oberon. Io, spirito sostanzialmente ancora tutto romantico sotto fredda maschera razionalistica, amo profondamente quest’opera e i suoi maggiori protagonisti, gli elfi, e i loro re e regina Oberon e Titania. Amo tanto Titania ed Oberon da averli messi come parole d’ingresso di molti miei luoghi cibernetici. In fondo anche la cibernetica è una grande magia mascherata. * |
Attori famosi che hanno lavorato con Ronconi lo ricordano uomo attore regista. Lo sento raccontato in rai5 (ma vi saranno altre puntate) da Giorgio Albertazzi e Lavia da pari loro assai brillantemente, da Anna Maria Guarnieri quasi teneramente, senza infamia e senza lodo da Massimo De Francovich, pessimamente da Popolizio.
Ronconi dal limbo degli artisti se ne strafotte.
I morti servono ai vivi, i vivi non servono ai morti.
I Morti non commemorano.
*
Il direttore d’orchestra ucraino naturalizzato italiano Igor Markovich, spia (dicono) e ambiguamente implicato (dicono) nel caso Moro, dirige Le Coefore di Milhaud, la Sinfonia No 5 “Di tre re” di Honegger, Bacco e Arianna di Roussel. Io non so se fosse davvero una spia politica, so che è una fine spia dei segreti di Frau Musika. Da quello che ho sentito non si può che riconoscerglielo.
*
E tanto per cambiare: ieri una bella voce maschile (06 del 17 Marzo) presentava la celebre ‘Habanera’ della Carmen bizetiana in ‘Qui comincia’, la breve trasmissione ‘culturale’ che apre i programmi di Rai3, ne citava qualche verso, sforzandosi di non massacrar troppo, e in parte riuscendoci, la dolce lingua della dolce Francia (non amata, pare, da Schopenhauer che la diceva, pare, ‘un italiano parlato col raffreddore’, affermazione da ritener valida solo come battuta di spirito) ma già al primo verso (L’amour est un oiseau rebelle) incappa in un oiseau pronunciato oiseu e in un rebelle pronunciato ribelle (le altre e, mute, un poco). Molto spesso le presentatrici e i presentatori che si alternano nella conduzione di un programma che ruota attorno ad una parola suggerita dal ‘libro del giorno’ di recente pubblicazione (non so con quali criteri e da chi scelto) e ad essa fanno riferimento anche per le musiche classiche di contorno, lasciano a desiderare sotto molti aspetti. Una presentatrice in particolare mi riesce insopportabile: parla a braccio e col risucchio, crede di essere originale ed invece è solo sciattamente ripetitiva, conosce solo superlativi assoluti e parole equivalenti, come meraviglioso, stupendo, straordinario (per compiacere autore ed editore?) per i libri che presenta, tutti son capolavori assoluti e i loro autori tutti stupendi. Mai mai mai un cenno di critica costruttiva, mai un errore, mai un discuto. Assurdo. Davvero un bel modo per stimolare l’ascoltatore a un pensare critico riflessivo! Più che l’analisi di un testo sembra pubblicità strapagata.
Stamane tocca ad una signora che si sforza lodevolmente di parlare a braccio, per questo motivo però spesso, come è naturale, divagando, ma non sempre con pertinenza, e spesso perdendo il filo del discorso; ma soprattutto rivelandosi la portabandiera dei superlodatori di cui sopra che non trovano un neo, dicesi un neo, nell’opera che presentano, ed è la cosa che più non si sopporta. Il libro che la Lei oggi presenta ha un bel titolo, “Poesia e Musica son due sorelle. Percorsi d’ascolto per le scuole” (Diego Angeli Editore), curato da Giuseppina La Pace e Nicola Badolato, esito di una ricerca promossa dall’Università di Bologna, e per la presentatrice si tratta primo, sicuramente il più nuovo, indiscutibilmente un capolavoro nell’ambito della didattica della musica. Non discuto il capolavoro, per non averlo ancora letto, sì il più nuovo ed il primo.
Si dà di fatto che già dagli anni Settanta-Ottanta il sottoscritto si sia interessato all’argomento e ne abbia fatto oggetto di una ricerca, e di una sistematica attività universitaria, affiancando ai suoi Corsi di Pedagogia Generale, Filosofia dell’Educazione, Metodologia dell’Educazione musicale presso RomaTre (Facoltà di Scienze della Formazione) un Laboratorio di Educazione all’Ascolto di cadenza settimanale, i cui esiti furono documentati in due volumi, Musica in prospettiva europea (SEAM, Roma, 1996) di Maria Teresa Luciani e Giulio Sforza, e Musica Mundi. Percorsi di Ascolto (Edizioni Kappa, Roma, 2004) di Maria Teresa Luciani con Introduzione di Giulio Sforza.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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1061
Variazioni Goldberg.
Le interpreta, mentre scrivo, danzando sui tasti come uno scoiattolo fra i rami, la giovanissima da tutti giustamente celebrata Beatrice Rana su Rai5.
Davvero una ‘Montagna d’oro’ (così suona nella nostra lingua il cognome del primo esecutore delle Variazioni) elevata da Johann Sebastian Bach al buon Dio e alla sua figlia prediletta Frau Musika.
Il cielo, fosco fuori (Proserpina non brilla ancora nell’aria né per li campi esulta), si fa per esse radioso dentro di me.
Grazie, Ruscello sgorgante da Elicona.
*
Animula vagula blandula
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula rigida nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos…
Piccola anima vagabonda e leggiadra,
ospite e compagna del corpo.
che ora ti allontanerai in luoghi
pallidi rigidi desertici,
né più potrai, come suoli, spargere intorno a te la gioia...
La giovanissima età non impedì a un collegiale undicenne in ‘passeggiata’ settimanale per una Roma appena “liberata” (stuprata, meglio si direbbe, dai nuovi lanzichenecchi in divisa marocchina del generale barbaro Alphonse Juin: tutte le più belle Ville, dalla Borghese alla Glori, dalla Doria Pamphili alla Ada, ridotte a bordelli all’aria aperta) di cogliere il senso di profonda delicata malanconia di questi delicati versi adrianei scritti con mano malferma da un prigioniero sul muro dello scalone di quel tetro carcere al quale i papi avevano ridotto, col nome di Castel Sant’Angelo, il solenne Mausoleo di Adriano, e di mandarli a mente. Marguerite Yourcenar glieli ricorda ora, restituendoli integri nella loro insanabile malinconia.
*
Al ritorno da una visita medica, appena a casa mi accorgo di aver smarrito una catenina con due pesanti medaglie (forse la causa, con il loro annoso strusciare sulla mia pelle delicata, di lesioni sospette) doni preziosi, ambedue altamente evocativi: l’una dorata a forma di mandala carico di simboli esoterici, l’altra d’argento, inventatasi dalla sua donatrice, in forma di un ovale, delicatamente incisa in leggeri tratti con una quasi invisibile immagine d’apis argumentosa, chiaro riferimento alla leggenda platonica che vorrebbe il neonato filosofo nella culla visitato da un’ape inviata a deporre sulle sue labbruzze il dolcefluente miele dell’eloquenza. Mi fosse caduta, mi chiedo, durante la denudazione nello studio medico? Ne chiedo alla dottoressa che nega e promette di domandarne alle donne delle pulizie e alle segretarie.
Ricerca per tre giorni inutile.
Nel frattempo io, non rassegnato, come un segugio addestrato ripercorro più volte metro per metro a ritroso il breve percorso fatto dalla camera da letto alla porta, finché, con grida di esultanza, scovo il tesoro, e il come è in questo breve messaggio alla dottoressa: “Bonsoir Madame. Ho ritrovato il tesoro in una tasca di un paio di pantaloni sostituiti poco prima di uscire e già riposti nel caos dell’armadio. Tre ore di ricerche affannose, una decina di tappe percorse à rebours guidato dalla mia formidabile memoria centenaria!”. Al che lei, laconicamente: “Lei è sconvolgente! Lei è formidabile!”, con tali espressioni implicitamente sconfessando il luogo comune che vorrebbe i novantenni tutti irrimediabilmente rimbambiti.
Rimbambiti necessariamente i Vegliardi?
Obbligatoriamente rimbambiniti, forse, non, per Giove, necessariamente rimbambiti. Non fu detto il rim-bambini-mento condizione sine qua non per l’ingresso nel Regno? Si veda Mt 18,3: Nisi conversi fueritis et efficiamini sicut parvuli non intrabitis in Regnum Coelorum. E, si parva licet, si veda Richard Bach, quello del Nessun luogo è lontano: “Crescere non significa uscire d’infanzia”.
Forse mi resta una qualche speranza.
*
Sabato Santo, Anno Domini MMXXIII. Al Frainile regna un silenzio surreale. La neve cade lenta lenta lenta e a larghi fiocchi, quasi a voler ricoprire di una candida coltre la terra, mentre i tulipani gialli curiosi ed impavidi si godono lo spettacolo. Fosse il Cristo risorto che tenta di nascondere, almeno momentaneamente, le nefandezze che deturpano il mondo, visto che nemmeno a Lui sembra essere stato dato di poternelo ripulire? * Il primo regalo di nozze che mi feci circa sessanta anni fa fu questo gioiellino di organo elettronico da camera 'Farfisa, (colore noce chiaro, 52×55×96, due tastiere di tre ottave, una pedaliera di una ottava, 11 registri) che, al contrario del pianoforte Hanel ottocentesco, ha brillantemente resistito all'usura del tempo (anche il suo fratello più grande, in verità, ma troppo ingombrante per il mio piccolo appartamento romano, resiste al Frainile dove m'attende per le vacanze estive). Ieri per reagire alla sempre più incombente depressione senile ho deciso di riaccarezzare i suoi tasti giornalmente con le mie dita ancora non troppo anchilosate: chissà che un piccolo miracolo non s'operi, il mio gioiellino risponda alle mie carezze, e per esso avverta le dolci carezze di Frau Musika, ed essa continui a vegliare su me come un'amorevole, sensuale, celestiale Badante? * Buona Resurrezione con la violetta del Frainile che, incurante di freddo neve e gelo, è già risorta. E poi la dicono timida, fragile, 'mammola'! * Pubblico una foto dell’Ultima Cena di Daniele Crespi (1598-1630) condivisami da una figliola e brevemente osservo: Non è bellissima questa Ultima Cena di Daniele Crespi, morto ad appena 32 anni di peste, quella "manzoniana" del 1630, che preferisce il ‘familiare’ cerchio al monacal-convivial-convegnistico ferro di cavallo leonardesco? Io la preferisco a quella del più geniale bastardo della Storia. D’accordo Franco Moscetti: È vero Prof., è estremamente efficace il diverso punto di vista rispetto a quello leonardesco, e conferisce al dipinto una profondità ed una tridimensionalità davvero uniche. E Fio Rella: Bellissimo, non lo conoscevo. Eppure i due dipinti mi sembrano simili anche se inscritti dentro due diverse cornici spaziali: rettangolo per Leonardo, cerchio per Crespi. Colpisce molto il gesto affettuoso del Cristo verso l’apostolo/a (Giovanni/Maddalena?) alla sua destra: ciò che per Leonardo ha fatto scrivere fiumi di congetture e interpretazioni, qui è esplicitato in un chiaro abbraccio. Discorde, da poeta-pittore (ut pictura Poesis), Paolo Statuti: Caro Giulio, se me lo consenti, il mio modesto parere è questo: c'è troppa animazione, senza mancare di rispetto mi sembra più un'atmosfera da osteria. Ognuno parla slegato dagli altri. L'animazione c'è anche nella Cena di Leonardo, ma è più contenuta e l'attenzione di tutti è rivolta A Cristo. Ma in fondo diciamo come al solito che è questione di gusti. * Così i nipoti dell'era cibernetica prendono in giro i nonni. Evviva le app onnipotenti. È il mio breve commento al divertente video di un me canterino e danzante, tale ridotto dalla manipolazione virtuale di una mia immagine…luciferina ad opera di Jacopo Numa Leon. * Tristi pensari pasquali (pensierì pensati: inerti fatti'; 'pensieri pensanti: Atti puri -Reminiscenze gentiliane). Tamburi trombe bande militari cori guerreschi sempre e ovunque stimolarono nei secoli gli eserciti alle peggiori carneficine. Frau Musika nei secoli al servizio degli scellerati guerrafondai. Quando mai musica salvatrix, musica serenans, musica laetificans? Non son forse tremende sinfonie i rombi dei mostri che sul mondo, da cielo terra mare, seminano morte? Solo diversi i suoni, diversi i ritmi. Caduta delle ultime illusioni. Ancora non t’arrendi, Sforza? Non odi sui mondi squillare le trombe dell’apocalisse? * Balugina appena in questo giorno della fuga di Proserpina dal talamo inverecondo di Ade: sparita è la notturna caligine, il cielo sfavilla del suo più azzurro splendore. È dunque davvero Primavera. Ne annuncia a voce spiegata Madre Natura in ogni suo aspetto il ritorno: 'Persefone risorse e il mondo infiora / Pan non è morto, non è morto Pan!'. Solo Procne tace. Non ne scorgo i voli arabescanti in cielo, non mi giunge rasserenante il suo garrire. __________________ Chàirete Dàimones! Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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Assisto giorno per giorno con impotenza curiosità e rodimento allo spettacolo osceno del mio ineluttabile disfacimento. Non v’ha pace pei morituri.
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Stamane, dopo l’ennesimo sogno turbolento, ho il muscolo cardiaco non in gola ma nelle orecchie. Che fastidio. Il Cuore invece chissà in quale anfratto del mio io profondo si è perduto. Non lo avverto più, arido di linfa e sangue.
Quando il mio muscolo cardiaco si ridesta con tutte le sue irregolarità, lo avverto pulsare confuso tra i fischi i ronzii i rombi gli acufeni di ogni sorta dell’orecchio sinistro che dissero assolutamente morto, ma, paradosso, non tanto da non sentire se stesso Non era dunque già da quindici anni il mio udito sinistro defunto, fulminato da un microtrombo? Fallacia degli otorinolaringoiatri e della loro scienza. Come di tutto al mondo, del resto. Più onesta la meta-scienza o meta-fisica del ‘tutto nel mondo è burla’? O del da incubo, tragico, diabolico, non vano, ahimé, sognare?
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Una quarantina di anni orsono mangiai un’ottima frittura di pesce su un trabocco di Vasto con una collega di commissione. Stanotte ho rivissuto in sogno l’evento, stessa collega, stessa ambientazione, stessi commensali, stesso giorno, stessa ora. Fu sogno allora o è stato sogno stanotte? Così è (se vi pare).
Così è (se vi pare) sta trasmettendo adesso rai5. Non amo i giochi, i grovigli, i sofismi pirandelliani.
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Scopro con piacere che il Cadet-Rousselle in tenuta da guascone, quello della mia porcellana limosina, impugna un massiccio bastone a forma di serpente, ma molto meno raffinato di quello da me ricavato da un ramo di castagno sepolto da secoli sotto un cumulo di letame nella stalla ‘ ‘e Giulio ‘e Mottabbruscio’.
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Pongo mano in questi giorni a due progetti impegnativi: il quarto volume di Dis-Incanti (il terzo è da poco venuto alla luce), e una breve autobiografia dedicata esclusivamente ai miei rapporti con la Signora che sopra tutte, ricambiato, ho amata, che non ho mai tradito (tranne allorché s’abbassa a umiliarsi consentendo il sacrilego esilio dell’organo e le volgari schitarrate nelle Chiese, così offendendo se stessa in primis e i suoi più grandi cultori nell’ambito del sacro, da Pierluigi a Perosi): Frau Musika. Come dovessi campare mill’anni! L’autobiografia si intitolerà: “Io e la mia unsterbliche Geliebte: Frau Musika”, evidente omaggio all’‘Amata immortale’ (amore irrisolto, come tutti gli amori irrisolti destinati a durare in eterno) della famosa lettera di Ludwig.
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Balugina appena in questo giorno della fuga di Proserpina dal talamo inverecondo di Ade: sparita è la notturna caligine, il cielo sfavilla del suo più azzurro splendore. È dunque davvero Primavera. Ne annuncia a voce spiegata Madre Natura in ogni suo aspetto il ritorno: 'Persefone risorse e il mondo infiora / Pan non è morto, non è morto Pan!'.
Solo Procne non l’ode. Non ne scorgo i voli arabescanti in cielo, non mi giunge rasserenante il suo canto.
E me lo annuncia anche Taube che proprio in questo istante trova un varco tra la tenda abbassata e il muro del mio verone, e viene a posarsi vicino vicino alla finestra dello studio, e a beccare, ogni tanto alzando lo sguardo verso di me, tra il terriccio del vaso rialzato entro il quale ancora resiste parte del per metà secco, riarso dal feroce solleone dell’anno passato, mandarino cinese. Per molti anni ogni giorno la mia diletta deutsche kleine Taube volava, senza bisogno di essere invocata, da me, ma da molto, troppo tempo era sparita. Io per mio conto non passa giorno che ancora non la invochi. Che sia dunque lei quella che gurrt e pickt stamane dentro il vaso di quel che resta del mio diletto Kumquat, alias Fortunella Margarita? Che sia finalmente tornata da me riappacificata a darmi il Guten Morgen? Speranzoso esco per salutarla, incautamente batto le mani, vola via impaurita per, una volta io rientrato, tornare, posarsi sul davanzale della finestra trasparente come cristallo e fissarmi quasi a volermi parlare. Ecco, attraverso il vetro davvero mi parla, mi tuba parole che ben comprendo, o mi illudo di comprendere, poi un ultimo più intenso sguardo e riprende il volo verso i suoi cieli oggi cupi.
Un Auf Wiedersehen, mia immortale Colomba?
O un crudele definitivo Abschied?
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Verone Verona. Che strana coincidenza! Che Verona derivi da Verone? In realtà Verona sembra coincidere col suo Verone più che con la sua Arena, e che ne abbia preso il nome solo con una minima variazione vocalica. Etimologia bislacca? Sarà, ma a me piace pensarla così. È più romantico e anche più giusto: Giulietta frutta alla bella Città molto più delle sue Arene e dei suoi pandori.
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Puccini, La Rondine (libretto di Giuseppe Adami). Un’opera di cui ho dalla prima giovinezza, prima ancora che di essa nulla sapessi, nell’orecchio una canzone che trovai nel mio Nuovo Canzoniere Italiano Signorelli, Milano 1951.
Nell’Opera la canzone è affidata a una ‘Voce lontana’:
“Nella trepida luce d'un mattin
m'apparisti ricinta di rose...
E ti vidi leggera camminar
seminando di petali il ciel.
Mi vuoi dir
chi sei tu?
- Son l'aurora che nasce per fugar
ogni incanto di notte lunar!
- Nel amor non fidar!”.
Opera di cui di sbagliato trovo solo il titolo. Ché la vicenda della cortigiana Magda, vista con occhi disincantati non si conclude con un libero volo, ma con una ricaduta a precipizio nel peggiore degli stati femminili: quello della mantenuta.
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Leggo che Antonio Ghislanzoni, altro librettista di Verdi, tra l’altro dell’Aida, morì nel a 1893 69 anni e ricevette sepoltura nelCimitero monumentale di Lecco. Nella sua vita prese posizione a favore della cremazione, a proposito della quale aveva scritto un efficace epigramma. Eccolo:
«Contro il sistema della cremazione Protestano con ira i collitorti Noi non cremiam che i morti, Preferì sempre di cremare i vivi.» (da Libro proibito) |
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Epigramma in fondo non cattivo, perché non fa che registrare una verità. Molto più …epigrammatico, perché cattivo, uno mio di qualche anno fa che trovò posto in L’Èvità: È morto Mario Luzi novantenne / L’italica Calliope ne esce indenne. Da allora non smetto mai di chieder perdono alla memoria del grande e pio personaggio di Sesto Fiorentino, grande poeta e non solo, anche drammaturgo, critico letterario, traduttore e critico cinematografico e, a novant’anni, ahimé, senatore a vita della Repubblica. Una brutta fine. __________________ Chàirete Dàimones! Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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Fui in gioventù, tutti i miei lettori lo sanno, grande ammiratore, amico, e persino corrispondente di ‘Gianfalco’, pseudonimo di quell’iconoclasta che risponde al nome del fiorentino Giovanni Papini. Lo restai anche dopo il famoso Agosto della Verna, il monte delle Stigmate (anche delle sue, metaforiche) quando fece scandalo indossando il cordiglio per diventare membro del Terz’Ordine francescano, convertirsi a un Cattolicesimo sui generis (ultraconservatore e rivoluzionario insieme, una sorta di strano fondamentalismo, diremmo oggi, da crear molti problemi alle Gerarchie ecclesiastiche, soprattutto con la sua fortunatissima Storia di Cristo e con Il Diavolo nel quale sostiene la possibile riassunzione del ‘’Portatore di Luce’ fra le schiere celesti) senza per altro perdere becco e artigli, solo cambiando obiettivi; e gli restai ammiratore e amico fino a dopo la morte avvenuta nel ’56. Con gli anni divenni un poco più critico, ma non lo tradii mai, lo difesi al tempo della lunga damnatio memoriae, attaccai su un quotidiano nazionale il silenzio colpevole della sua nipote prediletta Ilaria Occhini, bellissima donna e grande attrice, ma vigliacchetta, soprattutto dopo il suo matrimonio con La Capria; lo amai anche quando il cordiglio io lo tolsi, per intraprendere un cammino del tutto opposto a quello dantesco e suo. Ma oggi, rileggendo con altro spirito, sul suo postumo Giudizio universale, le pagine dedicate al domenicano spagnolo Torquemada, il terribile, famigerato, sanguinario giudice inquisitore da non confondere con l’omonimo zio cardinale che fu anche vescovo di Albano e Palestrina nonché Amministratore apostolico di Subiaco e dei suoi monasteri benedettini (il che me lo rende simpatico e quasi famigliare, avendo io svolto molta della mia attività culturale para-accademica in quei luoghi), non riesco a soffocare un’immensa rabbia, ci scopro una malcelata connivenza. Gliele darei di santa ragione, pur senza usare, la cosa mi ripugna, nei suoi confronti la legge del taglione o del contrappasso facendogli soffrire le stesse pene da Torquemada inflitte agli eretici: non lo scorticherei, non lo scarnificherei, non gli trafiggerei la lingua con la mordacchia, non lo squarterei, non loro farei a pezzi per infine gettare i brandelli alle fiamme: mi accontenterei, memore dell’antico amore, di una bella ‘scrullata’, come si dice efficacemente dalle mie parti.
Torquemada:
“L’ipocrita rappresaglia dei ribelli e l’imbecillità lagrimante delle plebi mi raffigurò, sulla terra, come un rosticciere infernale vestito da frate che per fanatismo frenetico e feroce ambizione si compiaceva di mandare alle fiamme turbe d’innocenti.
“In verità io fui sempre ispirato, nel mio terribile ufficio, dal bene della società civile in terra e dalla salvezza delle anime per la seconda vita. L’unità spirituale del popolo è necessaria alla pace e alla prosperità delle nazioni; senza ordine e giustizia anche l’esercizio della virtù diventa ai più quasi impossibile. Se non v’è unità di fede, concordia di spiriti, non vi può essere neppure quell’unità morale e politica ch’è condizione prima del bene comune. Io feci dunque opera necessaria condannando coloro che tentavano di incrinare e di rompere questa unità. Gli ebrei non eran soltanto i discendenti dei deicidi, ma son d’altro sangue d’altro culto d’altra indole, in tutto contrari alla natura dei popoli cristiani. I mussulmani erano invasori infedeli, nemici del nome e dell’impero cristiano. Gli eretici erano ancor meno scusabili perché si sottraevano insieme all’autorità del pontefice e a quella del re.
“E tali estirpazioni degli ostacoli del beneficio supremo dell’unità non eran contrarie allo spirito dell’Evangelo, come i calunniatori andavan gridando: Una parabola famosa comanda al contadino savio di strappare il loglio ch’è cresciuto fra il grano e di buttarlo nel fuoco. E Gesù consigliò anche di gettar via l’occhio o di tagliar la mano ch’era di scandalo. Quando lo scandalo è nel pensiero, cioè nella testa, non v’è altro rimedio allo scandalo che la morte: tremenda necessità ma necessità.
“Io fui il contadino solerte e ubbidiente che si studiò di togliere l’erbe velenose dal buon frumento della Cristianità.
“E poi la verità cristiana mi apparve così chiara ed evidente, scaturita dalla Rivelazione, confermata dalla Ragione, comprovata dalle profezie e collaudata dai miracoli che nessun uomo sano di spirito e puro di cuore poteva negarla e rifiutarla. Gli oppositori, i fuorusciti, i rivoltosi li giudicai in mala fede, cioè in colpa più che in errore. Erravano perché volevano errare, conoscevan la luce e sceglievano deliberatamente le tenebre. Non erano dunque sol da compiangere, come coloro che per debolezza di mente son sedotti dall’errore, ma da riprovare e detestare perché tratti all’errore da pertinace malizia e determinata volontà. Attraverso la tremenda purificazione del fuoco io salvai per sempre le loro anime. Col tormento di poche ore le sottrassi ai tormenti eterni. La dura espiazione terrena li rese degni dell’indulgenza celeste. Consegnai al fuoco le carni mortali per salvare le anime immortali.
“Il mio compito era arduo e grave e ho sofferto per l’ostinazione e la sofferenza degli eresiarchi assai più che costoro non potessero immaginare. Anche io fui creatura umana, anch’io ebbi un cuore, anch’io fui tentato di continuo dalla pietà. Nel mio interno vi fu sempre accanito conflitto fra i miei doveri di preservatore della fede e i miei impulsi di perdono e talvolta da questi impulsi fui vinto E segretamente piansi quando dovetti condannare e segretamente fui lieto quando potei assolvere. Ma di tutto quel che feci per difendere l’unità minacciata, necessaria all’uman genere, non mi pentii né mi pento.
Angelo:
“Se’ tu veramente sicuro che a quell’acerrima difesa dell’unità non ti movessero anche ragioni temporali e calcoli politici? E se’ tu davvero certo che nella tua natura non vi fosse, forse a tua insaputa, una compiacenza morbosa dei terrori e dei tormenti altrui, una punta d’orgoglio per la paura che ispirava la tua potenza, qualche speranza di tornaconto o almeno di fama?
Torquemada:
“E non sai tu quanto sia pauroso il timore di colui ispira il terrore? E non ricordi che per l’opera mia non raccolsi che il disprezzo e l’odio di molti in vita e perpetua infamia dopo la morte? Io fui, se peccai, la maggior vittima del mio peccato”.
Parole non ci appulcro. Sono fresco di una rilettura di Voltaire, e s’immagini con quale animo io mi trovi. Non proprio quello più adatto per accettare i sofismi e i cerebralismi (astuzie, trappole dialettiche nelle quali non cado) che Papini mette in bocca all’angelo per cercare attenuanti al comportamento del carnefice di Salamanca.
*
Nunc est ridendum.
Sto lavorando a un libretto di memorie che riguarda i miei rapporti con l’'Amata Immortale' (plagio, ma son certo del suo perdono, il Ludwig del 'Testamento di Heiligenstadt', che contiene, tra l’altro, la famosa 'Briefe an die unsterbliche Gelibte') e tra le mie composizioncelle giovanili trovo un ‘'Inno degli A. C. S. dedicato al Col. Renato Prato". Lo so che siamo in tempo di guerra (il mondo ne è pieno, non solo in Ucraina) e non c'è assolutamente nulla da ridere. Ma questa la devo raccontare.
Quando tardivamente (come tanti altri laureati che avevano frequentato corsi di specializzazione post lauream, in Italia e all’estero, o semplicemente fuori corso) fui richiamato 'sotto le armi' e destinato a San Giorgio a Cremano al corso A.C.S. (Allievi Comandanti di Squadra, chiamati ad ‘elevare la qualità dei sottufficiali’, si diceva, ‘signorine dell’esercito’, per quanto riguardava quelli come me destinati alle telescriventi, si celiava), il capitano della nostra Compagnia mi chiese di scriverne l'inno, parole e musica. Ed io mi prestai. Ne venne fuori una marcia stile Fascio: da balilla avevo appreso a mente tutte le canzoni del regime e la cosa non mi fu difficile. Non ricordo se riuscimmo mai a eseguirla; ricordo bene invece che i miei commilitoni, chi medico chi avvocato chi ingegnere chi matematico che fisico chi filosofo chi psicologo ecc. erano quasi tutti stonati come campane, e più d'uno, potenziale obiettore di coscienza, si rifiutava non solo di sparare, ma anche di cantare. E alle prove al pianoforte si rideva tutti a crepapelle tra battutacce e sfottò. Ora voglio che ridano anche i miei cinque lettori, soprattutto alle parole, gonfie di una bolsa retorica impossibile da sopportare. Non ho inserito tali parole fra le mie raccolte poetiche per pudore, ma forse ho fatto male, perché 'factum infectum fieri nequit'. La tonalità era La maggiore per la strofa, Re maggiore per il ritornello, e le parole erano le seguenti:
Strofa:
"Con note squillanti la nostra fede cantiam, / siam virgulti turgidi e al vento opponiam / un'impavida / una indomita / volontà di pugnar. / I nostri cuori alieni da viltà / nutrisce il culto della verità. / Maturiamo di linfe pregno e vigor / per la Patria un immortale allor".
Ritornello:
“Sorte avversa e rio dolor / vincerà il nostro valor; / non intimida, / non invalida / furia ignobile il nostro ardor. / Capisquadra in alto i cuor / le pupille fise al sol. / Non dei timidi / sol dell’aquile / s’offre libero all’etra il vol.
Riuscito a terminare il servizio militare pochi mesi anzi tempo per l’intervento di un personaggio eminente, padre di una futura nota giornalista rai, che mi aveva chiesto un aiutino nella preparazione di un esame universitario per la figlia (io ero all’epoca assistente volontario a Magistero, mi arrabattavo in un liceo serale privato per studenti lavoratori onde sopravvivere, e attendendo la scadenza regolare della naja avrei perso l’anno scolastico: prospettiva tragica, tanto più che nello stesso anno avevo commesso la pazzia di convolare a nozze) potei finalmente anche dedicarmi alla mia passione ludica predominante, la direzione di un coro polifonico amatoriale al quale, fra le tante cose serie proposi, per divertimento, anche l’Inno, che cantammo per altro senza le parole, esse sostituendo con un irriverente pa parapapà pa parapaparapapà, e non dico lo spasso.
Ma della melodia non ero e non sono del tutto scontento, e il grave è che nemmeno me ne vergogno. Peccato non sia in grado di riprodurla qui. Son sicuro che piacerebbe un pochino anche a voi che scontate i vostri peccati leggendo, ormai quasi quotidianamente (ma sono scusabile: prossimi al termine della corsa si accelera, 'motus in fine velocior'!) le mie paranoie (ma anche un poco, ammettetelo, dianoetiche e metanoetiche). La potrei addirittura trasformare in un Inno di qualche associazione religiosa, tipo l’Inno dell’Azione Cattolica della mia infanzia (musicato da Mario Ruccione, autore anche di famose canzoni fasciste tra cui 'Faccetta nera piccola abissina') la cui prima strofa iniziava con “Qual 'falange' di Cristo Redentore” ecc, e il cui ritornello suonava : “Bianco Padre che da Roma ci sei 'meta' 'luce' (qualcuno di noi più birbone sostituiva luce con duce) e 'guida', in ciascun di noi confida, su noi tutti puoi contar. Siamo 'arditi' della Fede, siamo 'araldi' della Croce, al tuo 'cenno' alla tua 'voce', un 'esercito' all’Altar. Ritmo e spirito bellicoso in Bianco Padre e nel mio Inno coincidono, come è evidente dalle parole cui ho dato rilievo nell'unico modo in fb possibile. Sarebbero indifferentemente intercambiabili ed eseguibili in Piazza San Pietro e in Piazza Venezia indifferentemente.
Ma qui mi fermo per non rischiare due denunce, una per apologia di fascismo, una per oltraggio alla religione.
E io vorrei crepare, se possibile, in pace!
P. S.
Che fine ha fatto l’INNO’, mi si chiede?
Non è che, come in internet si vendono i tuoi libri, quelli di cui sei autore ma cui non desti un editore, che stampasti in un limitatissimo numero di copie 'tuis impensis' perché destinati in tuo ricordo ad amici ed ex allievi (begli amici, begli allievi), così qualche Compagnia dell’Esercito della Repubblica abbia cancellato il tuo nome dall’Inno e se ne sia appropriata? In questo caso, rispondo, ne andrei veramente orgoglioso. La nostra Repubblica, che fedelmente servii spedendo giorno e notte dispacci d’ogni genere di ministri sottosegretari e onorevoli vari a sindaci parroci polizia e carabinieri, non è certo la ‘Repubblica degli stracci’ che al mio paese, fino a poco tempo fa, un vecchio centenario nostalgico del Papa Re scherniva in una irriverente filastrocca '(varavaccìccì varavaccccì la repubblica degli straccìccì'). Il Vegliardo si riferiva alla Repubblica romana di mazziniana memoria! Tutt’altra cosa è la nostra Repubblica, vivaddio. Ripeto, ne andrei orgoglioso, sinceramente orgoglioso. E non sto scherzando.
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Chàirete Dàimones!
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Così dalla rete:
“Uno dei capolavori del compositore ceco Leos Janacek: è “La piccola volpe astuta”, tratto dal romanzo di Rudolf Tesnohlidek, che Rai Cultura propone giovedì 16 febbraio alle 10 su Rai 5, nell’allestimento andato in scena al Teatro Comunale di Firenze del 2011.
L’orchestra e il coro del Maggio Musicale Fiorentino sono guidati dal grande direttore giapponese Seiji Ozawa. Composta nel 1924, l’opera rappresenta il sentimento di fiducia nella natura, fonte di libertà e autenticità. L’allestimento del regista francese Laurent Pelly restituisce alla perfezione la dimensione favolistica del lavoro. Cona interpretazione di Isabel Bayrakdarian.
….
Le avventure della volpe Bystrouška, meglio conosciuta come La piccola volpe astuta, è un’opera in tre atti di Leoš Janáček. Il libretto, dello stesso compositore, è basato su una storia a fumetti apparsa sul quotidiano Lidové noviny disegnato da Stanislav Lolek, a sua volta basato da un racconto di Rudolf Těsnohlídek.
L’ispirazione per la composizione dell’opera venne offerta al compositore dalla domestica Maria Stejskalova, assidua lettrice del quotidiano locale Lidové noviny.[1] Sfogliando il giornale, Janáček si imbatté nelle puntate del romanzo per ragazzi La volpe Bystrouska di Rudolf Těsnholídek, illustrato da Stanislav Lolek.
Il compositore, che da tempo meditava sul tema del conflitto tra uomo e natura, sollecitato anche dalla letteratura del proprio paese (Kafka in primis), decise di mettere in musica lo strano soggetto, un vero unicum nella produzione operistica mondiale, eguagliato solo in parte dal fiabesco (che
debutterà l’anno dopo quest’opera) L’Enfant et les sortilèges di Maurice Ravel. Dopo alcuni incontri con Těsnholídek, Janáček lavorò alla composizione della nuova opera tra il 1922 e il 1924, e nel novembre dello stesso anno l’opera è rappresentata per la prima volta al Teatro Nazionale di Brno. L’opera è una delle più conosciute del compositore ceco, ed appare frequentemente nei repertori dei teatri mondiali. Dell’opera esiste anche una Suite sinfonica, curata da Václav Talich, amico e collega del compositore.
La traduzione letterale del titolo Příhodi lišky Bystroušky è Le avventure della volpe Orecchiuccio-aguzzo. Alla prima rappresentazione italiana, avvenuta alla Scala nel 1958, l’opera è stata proposta al pubblico con il titolo Le avventure della volpe Briscola. In seguito a un’altra rappresentazione scaligera, avvenuta nel 2003, il titolo appare nei cartelloni italiani col titolo La piccola volpe astuta”.
Confesso che la visione della favola di Janacek in TV ha rappresentato per me una vera novità. Avevo iniziato a frequentare il compositore ceco all’epoca del nostro (mio e della mia immortale Maria Teresa Luciani) ‘Laboratorio di Educazione all’Ascolto’, per altro mai spingendomi oltre la Marcia Funebre, Taras Bulba e Pellegrinaggio dell’anima. Ma sicuramente mi inganna la memoria. Sarebbe stato strano che Maria Teresa, sensibilissima ai problemi educativi dell’infanzia (aveva, dopo essersi laureata, per molto tempo insegnato nelle elementari e in una classe di bambini oncologici ricoverati al ‘Bambin Gesù’, fino a quando non ne richiesi il comando presso la mia cattedra di Pedagogia Generale) proprio la bella favola trascurasse. Quel che ne ho visto in questi giorni me la fa preferire in freschezza a L’Enfant et le sortilège raveliano: una vera festa della Natura tutta che anche la realistica scenografia esalta, evidenziandone l’implicita concezione filosofica che la sottende: la celebrazione dell’unità, panteisticamente intesa, del Creato, che nemmeno la volpe astuta con tutti le sue furbesche prevaricazioni riesce a sconvolgere.
Una vera festa anche per il bambino novantenne per il quale crescere, come vuole l’assunto della favola di Richard Bach, non è uscire d’infanzia.
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Grido di dolore.
Mi viene segnalato da più parti che copie delle mie raccolte poetiche (Canti di Pan e ritmi del thiaso, L'Evita', Aqua Nuntia Aquae Iuliae) che non sono in commercio avendole io stampate a mie spese per farne dono-ricordo agli amici, si trovano in vendita in Internet. La cosa prima che offendermi mi affligge: begli amici coloro che fanno mercato d'un atto di stima d'amicizia e d'amore! Dei miei libri, quelli che non recano indicazione di casa editrice sono proprietà dell’Associazione Culturale di Varia Umanità e Musica 'Vivarium' e in copertina recano, in luogo dell’Editrice, l'indicazione 'Metanoesi'. Ve ne prego, se i miei libri non vi piacciono dateli alle fiamme, condannateli con me al rogo, ma non vendeteli! Non umiliatemi fino a questo punto, non fatene mercato, non fatene 'mammona d'iniquita'!
Qualche commento:
Inquietante! Ecco l'amicizia... La mia forte solidarietà.
Sicuramente è stata letta e per atto di generosità hanno voluto condividere e diffondere il suo pensiero. Un abbraccio affettuoso.
Paolo Statuti:
Caro Giulio, dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Dio!
Sono senza parole!
Ecco alcune offerte della Rete:
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POESIA AUTOGRAFO SFORZA GIULIO L'EVITÁ ALTRE LIRICHE NEOCLASSICHE | eBay
Di Vitam impendere Pulchro, che è dell’editrice Anicia, hanno cambiato addirittura copertina e titolo introducendovi uno strafalcione, scrivendo imprendere anziché impendere!
Presso alcune case editrici è un fenomeno purtroppo diffuso, si appropriano dei testi ad insaputa degli autori. Amazon addirittura li fa ristampare all’estero in formati spesso bruttissimi. La vendita su ebay o altre piattaforme da parte di privati dei tuoi libri è deplorevole, anche perché contengono dediche…non dispiacerti, chi li comprerà avrà scelto di averti con se’.
incredibile!
Pazzesco!!!
…non ragioniam di lor, ma guarda e passa...
…questo però già lo sai! Un abbraccio di solidarietà! Ieri le indimenticabili Bruniadi
*
A tutti i nostalgici delle nostre serate bruniane e dei nostri goliardici "brindisi libertini", dal Gianicolo, "sulla Roma addormentata dei necropompi, dei necrofori, dei tafei" dedico questo ricordo di:
“MARTEDI 17, CDXV del Rogo, intorno alle 16, sarò, con qualsiasi tempo, al Campo de' Fiori presso il Suo monumento. Sarebbe per me una grande gioia incontrarvi qualcuno di voi.
*
Trilussa
INNA NANNA DE LA GUERA
(1914)
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili.
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
Chè quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finchè dura sto macello:
fa la ninna, chè domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
*
Dedicato ai miei amici enofili:
“Lo dolce ber che mai non m’avria sazio” (Purg., XXXIII, 128)
Non troppo enofili, però.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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1057
L’eremita calabrese Sri Atmananda Swami, di cui il mio ex allievo Antonio Pintimalli, che vive ed opera nel Catanzarese, è seguace e che me lo ha fatto conoscere, mi ha sempre parecchio incuriosito, avendo trovato la sua mistica visione del mondo e di Dio molto prossima a quella mia panteistica di matrice idealistico-hegeliano-gentiliana. Antonio sovente mi aggiorna sulle vicende spirituali di ‘Atmananda’ e io me ne nutro come di un miele quotidiano. In attesa di condividere per i miei amici, a consenso ottenutone, brani del diario dell’eremita, prendo la breve ma precisa presentazione che del personaggio fa in rete, martedì 15 gennaio 2002, Marco Cannavaro:
“Sembra incredibile, eppure la storia di Piero Bucciotti, 54 anni, potrebbe essere la storia di ognuno di noi. Quante volte abbiamo detto: "Lasciamo tutto, lavoro, famiglia, traffico e stress ed andiamo a vivere completamente da soli, in un luogo sperduto". Buciotti ha avuto questo coraggio. Dopo aver passato i primi e turbolenti 14 anni ad Orvieto, Piero ha cominciato a vagare per il mondo. Da 20 anni vive in un piccolo paese in provincia di Catanzaro, Cerva, in un casolare senza acqua e senza luce. Predica una religione che lui stesso definisce indocristiana ed ha assunto il nuovo nome di Svami Atmananda. Ha raccolto i suoi pensieri in un diario che è stato pubblicato dalla Ursini Editore 'Diario di un samnyas indocristiano'. ha vissuto in Israele, Nepal, Shri Lanka ma soprattutto in india, terra che ha determinato il suo modo di vivere e pensare. La sua unica fonte di sostentamento è un orticello, cammina scalzo anche sulla neve, fa il bagno nelle gelide acque di un fiume. Predica tutti gli esseri viventi e parla poco perchè come è scritto nel suo diario "ogni parola può essere superflua". Molti pellegrini lo vanno a trovare per condividere con lui il silenzio e la pace di Madre Natura”.
Più densa la breve biografia, presente in rete, anonima ma immagino dovuta ad Antonio Pintimalli, che mi comunica di starne preparando una voluminosa.
“Breve biografia.
Il corpo fisico di Atmananda nasce a Orvieto nel 1948. Vive una giovinezza turbolenta e un'adolescenza ribelle, a Roma dove la famiglia si trasferì in seguito alla perdita del padre. Nel Maggio '68 è sulle barricate parigine, e qui che realizza l'insegnamento sull'inutilità della violenza, impartitogli, prima della della partenza, da colui il quale Atmananda considera come primo maestro, Don Lorenzo Milani. Poco dopo il rientro da Parigi e la morte di Don Lorenzo, proprio mentre leggendo una rivista apprende della sua dipartita, il giovane ribelle è atterrato "da un cazzotto in testa da parte del Signore", la sua mente è annullata, il suo corpo come morto, la Presenza Beata si rivela nello spazio della sua Coscienza. Da allora inizia un percorso di approfondimento di quell'esperienza, che lo porterà a scoprire la propria Coscienza Cristica. Prima monaco di clausura presso la Trappa delle Tre Fontane a Roma, poi monaco Camaldolese in Toscana, si abbandona infine alla sua vera vocazione: la Solitudine dell'Eremita. Abruzzo, Sicilia ecc ed infine Calabria, dove viene invitato dall'allora parroco di Cerva, piccolo paesino della pre-Sila catanzarese. Viaggia, in Israele e poi in India e Nepal. Nel sud dell' India incontra Padre Bede Griffiths presso il Satchitananda Ashram, che egli dirigeva. L'ashram, fondato nel 1950 da due missionari francesi, Jules Monchanin e Henry Le Saux, era il primo tentativo di fondare in India una comunità cristiana che seguisse i costumi di un ashram e s'adattasse, nel modo di vivere e di pensare, allo stile indù e che fondesse le verità ultime di queste ed in sostanza di tutte le tradizioni iniziatiche, le quali hanno a fondamento l'unica Verità Essenziale. Qui riceve la Sannyasa, è iniziato alla Rinuncia ed entra nell'antico ordine degli Swami con il nome di Atmananda (Anima Beata). Abbraccia la filosofia Advaita Vedanta, la più ardita delle metafisiche trascendentali, che annulla qualsiasi mediazione tra l'atma individuale e l'Essenza Eterna/Dio. Da oltre trent'anni conduce una vita semplice e solitaria all'Eremo dell'Armonia Primigenia, senza denaro, corrente elettrica e nessuna delle comodità della vita moderna, egli vive nella pienezza dello Spirito, testimone silenzioso della Tradizione Eterna, Sanatana Dharma, in continuità e comunità con i maestri di ogni tempo e luogo”.
Per meglio intendere cosa dell’induismo attrae l’Eremita di Cerva, ho cercato ancora una volta aiuto nella rete ed ho trovato un testo abbastanza chiaro di un John Martin Sahajananda Kuvarapu, dal titolo Cosa rende l'Induismo superiore alle altre religioni in India?, dal titolo
Come in più parti di questo diario ho riferito, io da parte mia dedicai all’Induismo un anno di corso con l’intento di fare una lettura filosofico-pedagogica oltre che lirica della parte più famosa del poema epico Mahābhārata, il Bhagavadgītā, ed ebbi modo in quell’occasione di enucleare dal testo con gli studenti alcuni concetti fondamentali capaci di fare con chiarezza intendere le differenze e le eventuali complementarità tra due visioni del mondo, quella occidentale e quella indiano-vedica. Quelle differenze e quelle complementarità ritrovo ora esposte con chiarezza nell’articolo citato di John Martin Sahajananda, in grado di fare intendere, collocate nel loro contesto più autentico, anche la filosofia e la mistica di Piero Bucciotti. Egli fa riferimento tra l’altro alla scuola Advaita Vedanta, la più radicale sostenitrice del monismo, cioè del principio dell'indivisibilità del Sé o Ātman dall'Unità (Brahman)..
“Non si può dire che l'induismo nel suo complesso sia superiore ma la visione advaitica (non duale) dell'induismo dà il rapporto divino-umano più alto possibile rispetto alle religioni abramitiche …
L'induismo non è una religione ma una congregazione di molte religioni o sistemi di credenze. Tra tutti i sistemi di credenze indù il sistema Advaita o non dualisitico dà il più alto rapporto divino-umano possibile. In questo sistema una persona può evolversi e dire: aham Brahma asmi, io sono Brahman, meglio dire 'il mio sé infinito è Brahman. (Non l'anima umana è Brahman). Questa è la visione che gli Upanishad presentano. Ogni Upanishad lo presenta nel suo modo unico.
Le religioni abramitiche, l'ebraismo, il cristianesimo, l'Islam e la fede dei Baha'i, offrono relazioni creatore- creatura. Dio è il creatore e la creazione, che comprende gli esseri umani, è una creatura di Dio. C'è un divario tra Dio e le creature. È una visione dualistica. Anche dopo la morte gli esseri umani saranno separati da Dio. (Le correnti mistiche di queste religioni offrono anche più del rapporto creatore-creatura ma non sono così affermative come la tradizione advaitica).
Gesù Cristo ha trasceso questa visione dualistica e ha realizzato una visione non dualistica. "Io e il Padre siamo uno", ha dichiarato. È meglio dire 'nel livello più profondo io e Dio siamo uno’. (Ayam atma Brahma). Il terreno del mio essere (Atman) e il terreno dell'universo (Brahman) sono uno.
I suoi leader religiosi hanno rifiutato le sue affermazioni. Le sue dichiarazioni erano considerate blasfeme. Per quello doveva morire sulla croce.
Nel cristianesimo ci sono due visioni: dualistiche e non dualistiche.
Per i cristiani, è una visione dualistica. I cristiani sono creature di Dio e Dio è il creatore. C'è un divario tra Dio e i cristiani. I cristiani non possono mai pretendere di essere tutt'uno con Dio. Possono andare in paradiso solo dopo la morte, ma non potranno mai rendersi conto di essere tutt'uno
Per Cristo è una visione non dualistica. Gesù Cristo non è una creatura di Dio. Egli è l'incarnazione di Dio e l'uno con Dio. Ma questa esperienza o realizzazione si limitano solo a Cristo, non una possibilità per nessun altro essere umano.
Quindi il cristianesimo è la combinazione di visione dualistica (per i cristiani) e visione non dualistica (per Cristo). È la combinazione di visione abramica per i cristiani e visione advaitica per Cristo. Una gamba è nella visione abramomica e un'altra è nella visione advaitica.
Secondo la mia comprensione Gesù Cristo ha aperto la porta alla possibilità di un'esperienza non dualistica di Dio ad ogni essere umano ma la tradizione cristiana la limitava solo a Cristo e chiuse la porta ai cristiani. 'Io sono la luce del mondo' (aham brahma asmi) e 'tu sei la luce del mondo' (tat vam asi), ha dichiarato Gesù Cristo. La tradizione cristiana ha sottolineato la prima affermazione e in qualche modo ha trascurato la seconda.
Gesù Cristo non può essere inserito completamente nella categoria delle religioni abramitiche. Naturalmente è nato lì e ci è cresciuto ma la sua esperienza di Dio ha trasceso Dio abramotico. 'Prima che Abramo fosse, io sono' ha dichiarato. Il suo Dio non era un Dio settario di un unico gruppo esclusivo ma un Dio universale, il Dio dell'umanità intera e della creazione.
L'ebraismo, l'Islam e la fede dei Baha'i credono in un Dio creatore. Tutti sono creature di Dio, compreso Gesù Cristo. Il cristianesimo sostiene che Gesù Cristo è pienamente umano e pienamente divino.
La persona di Gesù Cristo divide il cristianesimo dall'ebraismo, dall'Islam e dalla fede dei Baha'i. L'altra questione controversa è il concetto di Dio come Trinità.
La tradizione advaitica dell'induismo non avrà alcuna difficoltà ad accettare l'esperienza advaitica di Gesù Cristo, ma quell'esperienza è possibile a tutti e non si limita solo a Gesù Cristo. Questo è ciò che divide il cristianesimo dalla visione advatica dell'induismo. Anche questa è una grande sfida al cristianesimo.
In questo senso possiamo dire che non l'induismo nel suo complesso è superiore ma la visione advaitica dell'induismo dà il più alto possibile rapporto umano- divino rispetto alle tradizionali religioni abramitiche. Certo che le correnti mistiche nelle religioni abramitiche vanno oltre la visione dualistica, aprono la porta all'esperienza non dualistica di Dio…”.
*
Il periodo della quiete alcionia, o del Fuoco e del Sole Zarathushtriani, o della Stella di Betlemme, sono particolarmente adatti agli approfondimenti mistici, al ripiegamento sul sé onde trovi senso nel Sé (nel significato che questi termini avevano prima che la ‘scienza’ psicanalitica se ne appropriasse e li laicizzasse).
Io per la prima volta l’ho vissuto intensamente ed ha inaugurato, spero, una fase nuova (l’Eternità ha le sue fasi che chiamiamo impropriamente Tempo), quella advaitica di una Vita sempiterna.
Tat tvam asi.
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1056
La Lollo nostra sublacense era ancora calda sul suo cataletto che tutti i mezzi di comunicazione di massa si sono precipitati a commemorarla trasmettendo film interviste controversie (queste soprattutto finanziarie, vergogna, vergogna vergogna, avvoltoi!). Quasi nessuno spazio, altra vergogna, alla sua complessa personalità di donna pressoché totale, bravissima sì nel cinema, ma assolutamente non mediocre in scultura, pittura, fotografia. Non so quale delle reti abbia battuto il record della velocità, ma a me è per puro caso capitata la Rai con la trasmissione di Fanfan la Tulipe di Christian-Jacques (1952) dove una Gina e un Gérard Philipe, belli come dei, se non danno già il meglio di sé, il loro meglio già prefigurano. Ma le vicende dello spadaccino alla D’Artagnan e della sua innamorata hanno risvegliato in me memorie antiche di altro genere, belle memorie della mia giovinezza inquieta.
In uno dei miei primi viaggi-pellegrinaggio in terra di France la douce, capitai in quel di Limoges, nella nuova Aquitania, famosa per i suoi smalti, le ceramiche, le maioliche, le porcellane, e mi invaghii di una serie di sei piattini finemente porcellanati, ognuno dei quali riproduceva un personaggio del folklore popolare, con relativa immagine e versi che brevemente ne illustravano la storia: Il pleut bergère, Cadet-Rousselle, J’ai du bon tabac, La mère Michel, le roi Dagobert e Fanfan la Tulipe, appunto. Comprai tutte la serie che ora adorna un angolo della mia cucinetta all’americana. Particolarmente simpatico il piattino che riguarda Fanfan la Tulipe, che riproduce le gesta dello smargiasso protagonista che di bravata in bravata riesce a far adottare dal re la sua fidanzata e finalmente a sposarla, vedendo così verificata la profezia di una strega che gli aveva profetizzato che avrebbe sposato la figlia di un re. Un altro piattino racconta la storia del buon re Dagobert, il merovingio che conquistando nel settimo secolo l’Aquitania divenne re di tutti i Franchi. Così in minutissima ma perfetta grafia il piattino ne narra ironicamente la storia.
1.
Le bon roi Dagobert Avait sa culotte à l’envers. Le grand saint Éloi Lui dit : “Ô mon roi!
Votre Majesté Est mal culottée”.– C’est vrai, lui dit le roi, Je vais la remettre à l’endroit.”
2.
Le bon roi Dagobert Chassait dans les plaines d’Anvers. Le grand saint Éloi Lui dit : “Ô mon roi! Votre Majesté Est bien essoufflé.” – C’est vrai, lui dit le roi, Un lapin courait après moi.”
3.
Le bon roi Dagobert Avait un grand sabre de fer. Le grand saint Éloi
Lui dit : “Ô mon roi! Votre Majesté Pourrait se blesser.”– C’est vrai, lui dit le roi, Qu’on me donne un sabre de bois.”
4.
Le bon roi Dagobert Se battait à tort, à travers. Le grand saint Éloi Lui dit : “Ô mon roi!Votre Majesté se fera tuer”. -C’est vrai, lui dit le roi, Mets-toi bien vite devant moi.”
5.
Quand Dagobert mourut Le diable aussitôt accourut. Le grand saint Éloi Lui dit : “Ô mon roi! Satan va passer, Faut vous confesser. -Hélas! dit le bon roi Ne pourrais-tu mourir pour moi?”
Con queste amenità io commemoro la Lollo e Gérard Philipe, che ringrazio per esserci stati e averci deliziati, il francese troppo poco, per esser morto, per un tumore al fegaro, a 37 anni, 44 anni prima della sua compagna di avventure cinematografiche.
A proposito: di Limoges era Renoir, tra gli impressionisti il mio preferito. E di uno dei suoi quadri più belli, il Bal au moulin de Galette, posseggo di un particolare copia perfetta, dono dell’autrice, una mia ex allieva di vasti interessi, laureata anche all’Accademia delle belle Arti di Roma, che ha amato restare anonima, ma lasciando sul retro due massime virgolettate (che appartengano a Renoir stesso?) : “Le passioni diventano spesso trasgressioni”, “ Se ammettessimo che Dio ha creato l’uomo per un dato scopo, avrebbe dovuto crearli o mortali senza passioni o eterni”. Confesso di non trovarle molto originali.
*
Una Bohème con Bocelli! Decisamente la voce di Bocelli non è adatta per un’opera lirica, adattissima per un’opera pop-rock. La moda di oggi che ritiene taluni cantanti, anche famosi, come una sorta di crossover, una sorta di androgeni musicali e come tali utilizzabili, soprattutto per la loro redditività, proprio non riesco a condividerla. Con tutto rispetto per la sua non veggenza, ritengo che Bocelli non dovrebbe prestarsi per operazioni di questo genere. Ne va anche della sua credibilità di straordinario uomo di spettacolo. Volete mettere la voce di un Licitra e di una Gunevina ucraina nei recenti, in rete, Don Pasquale e Un ballo in maschera di Liliana Cavani? Quello sì che è un cantare!
Ne ultra crepidam, sutor!
*
In sogno (non si è responsabili dei propri sogni) concionavo con ridicola magniloquenza contro gli americani (gli importati, non certo i primitivi) che una volta costituitisi, con fratricida violenza, in un immenso stato, decisero di fare strage degli aborigeni, di conquistarsi con la violenza e la ricchezza un impero mondiale, di far direttamente guerra, o essere a una guerra di supporto, alle madri 'patrie', trasformandosi in corialani patricidi e matricidi., senza tregua, senza tregua.
Coriolani, fratricidi, patricidi, matricidi gli americani?.
Onirica follia! Me la si perdoni!
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Il mio caro ex allievo di Ginnasio poi d’Università Luciano Pranzetti, musico, pittore, scrittore versatile nonché filologo sopraffino, assiduo lettore delle mie nugae diaristiche e molto in esse presente, così ha commentato le mie note su Brahms, Ratzinger, von Karajan e l’Ein Deutsches Requiem:
“Anche io, caro Prof. vorrei che alle mie “solenni” esequie si eseguisse l’Ein Deutsches Requiem di cui ho spesso cantato, in vari concerti, il terzo brano Herr, lehre doch mich. Straordinario l’incipit, che riflette quasi uno scorrere lento di un fiume, senza strepito, secondo quanto afferma la materna saggezza latina: “Altissima quaeque flumina minimo sono labi”. Straordinario von Karajan. Grazie prof. per il meraviglioso richiamo.
Chaire”!
Me la sua citazione, che mi risulta tratta dal Quinto Curzio Rufo delle famose Historiae Alexandri Magni, il sanguinario discepolo dello “Maestro di color che sanno”, ha molto incuriosito, e ho già ordinato il libro, che mi farà compagnia, insieme alla piacevole rilettura del Giuliano di Gore Vidal, uscito in Italia da Rizzoli nel lontano 1969, uno dei pochi libri originali e contro corrente sull’imperatore filosofo che sognò uno stato ‘etico-estetico’ e la utopistica restaurazione del paganesimo.
Grazie, maestro Luciano.
*
Su due volumi di Julius Evola. A proposito di personaggi fuori dal coro.
Continua, tranne che in settori della pubblica opinione ben individuabili, il silenzio su quel geniale, originalissimo personaggio della cultura italiana che risponde al nome di Julius Evola, E il motivo è sempre lo stesso: avrebbe aderito al Fascismo. Se si dovesse tacere di tutti i filosofi i pittori i poeti i romanzieri i saggisti che aderirono ai Fasci o per essi simpatizzarono, si dovrebbe tacere del novanta per cento della cultura italiana tra le due guerre. Motivi pretestuosi in verità, che nascondono la paura di doversi cimentare con una cultura contemporanea al confronto di quella perdente, o di quella quasi totalmente debitrice come qualche onesto comincia a riconoscere. Io, perciò, infastidito dal solito ritornello intonato da chi non ha nulla di nuovo da dire, ancora una volta confesso per nulla interessarmi se questo o quello ha vestito l’orbace, o ha fatto l’occhiolino ai littori e poi ha indossato la zimarra o il colbacco. Guardo la sostanza delle cose, considero la forza o la debolezza di un’idea, la potenza o la nullità di un’arte, e mi assumo la responsabilità di quello che penso e dico. Non ho chiese di alcun genere a cui la sera rispondere.
La prima cosa che di Evola lessi fu La metafisica del sesso, per me a quel tempo noiosissima. Ma confesso che il titolo mi incuriosì. E decisi di approfondire la conoscenza di uno studioso serissimo e fecondissimo, autore di un centinaio di voluminose pubblicazioni, pittore poeta filosofo romanziere esoterista dal multiforme ingegno dalla cui frequentazione c’è solo da apprendere. L’esoterista soprattutto a quel punto mi interessò e perciò mi sentivo obbligato ad approfondire quell’aspetto. Solo da poco mi è tornata la curiosità, e per Natale mi son fatto regalare dalle figlie la compendiosa autobiografia Il cammino del Cinabro e la raccolta delle sue riflessioni e ricerche su Mithra e i suoi misteri curata da Stefano Arcella e intitolata La via della realizzazione di Sé secondo i misteri di Mithra. Mithra tra tutte le divinità fu uno dei miei preferiti (i vari Mitrei sparsi in vari luoghi non solo di Roma e d’Italia furono per un periodo quasi la mia casa) forse poiché la sua etimologia si riallaccia a mysterium, dal greco μυστήριον segreto, arcano, a sua volta da μύστης, iniziato: e l’iniziato, l’esoterico, è il concetto, nelle sue varie accezioni e sfumature di significato, in vita mia più frequentato.
Ma di ciò più approfonditamente a suo tempo.
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1055
‘La Sonnambula’. La bella voce di coloratura di Eva Mei oggi mi commuove anziché infastidirmi, così fuori luogo in un contesto di cuori infranti. Mi commuovo più e più volte. Ma ad ‘Ah! Non credea mirarti, sì presto estinto, o fiore’ premono le lagrime dal cuore agli occhi, ché fanno irruzione le memorie: Catania è qui, la recuperata tomba di Lui è qui, il robusto fusto di bambù, sottratto furtivamente all’hortus conclusus che un recente risveglio di Enkélados e Tiphòn sbuffanti ha ricoperto di recente polvere vulcanica quasi manto di neve nera, sul quale trascrivo, in un momento particolare della mia travagliata vita sentimentale, l’Aria struggente impressa sul marmo del sarcofago, è qui, tra gli altri innumerevoli centoventi lignei diari della mia vita silvestre. E intatti sono ancora i colori rosso e nero dei righi e delle note. Ma ancora è qui, ahimé, nel musicale policromo e incorrotto giardino della mia Anima, il Fiore delicato strappato troppo presto dal suo stelo in quei giorni di Fuoco.
Esulti pure, dunque, il popolo in coro: Elvino e Amina finalmente sposi. Ma nel fondo abisso della mia anima le voci di epitalamio risuonano di trenodia. ‘Sunt lacrimae rerum’.
*
E poi uno Zauberflӧte (mai sètta, quale la Massoneria settecentesca nei suoi nobili ideali di umanità, bontà e fratellanza, ebbe più delicata e insieme possente celebrazione) che anche per me, nel mio tramonto, possiede una confortante messaggio di serenità e di speranza: per la potenza della Musica attraverseremo sereni la porta buia della Morte, oltre la quale è ad attenderci lo splendore di Iside e di Osiride.
L’ho sempre saputo, su tale convincimento si è fondata e si fonda la mia filosofia della Musica. Ora Wolfgang me lo riconferma, ancora una volta benevolo dai suoi cieli. Che egli con Frau Musika, la Musica che egli è, sempre sia lodato.
*
Per la prima volta ascolto La Straniera di Bellini. Mi meraviglia che per tanto tempo sia stata ignorata dai nostri teatri. Una compattezza degna di Wagner, senza che ne perda l’immancabile nostrano melodismo. Purtroppo noto che anche la sua fonte letteraria è straniera, L’Étrangère di Charles-Victor Prévost d’Arlincourt.
Quasi tutte le opere italiane dell’Ottocento hanno libretti ricavati da autori stranieri. Credo quasi il 99%, ed è un vero peccato. Le storie sono quindi quasi tutte di seconda mano, di fonti per lo più francesi e tedesche (fra queste imperversa un genio come Schiller, per fortuna). Non è un fatto di poco conto. L’Opera d’arte totale ne risente e molto ci rimette, oh se ci rimette!
*
E di “Così fan tutte” per la prima volta m’incanto al ‘trio del vento’. Soave sia il vento Tranquilla sia l'onda Ed ogni elemento Benigno risponda Ai nostri desir.
Sarà piaciuto ad Achille-Claude Debussy de La Mer? Quanto gli debbono il suo Simbolismo e il suo Impressionismo? Mi piacerebbe indagare.
*
Amleto2, di Filippo Timi
Così una nota redazionale di Rai5: “Un Amleto spiazzante, comico, furibondo, folle e colorato: si chiude con “Amleto² (Il popolo non ha pane? Diamogli le brioche)”, in onda sabato 21 gennaio 21.15 su Rai 5, il ciclo “Lo specchio del mondo”, dedicato ai cinquant’anni del Teatro Franco Parenti di Milano. Andato in scena nella stagione 2012-2013, con la regia di Filippo Timi, lo spettacolo vede lo stesso Timi – accompagnato da Lucia Mascino, Marina Rocco, Luca Pignagnoli, Elena Lietti - protagonista di una rilettura di Shakespeare dove ogni gesto o parola diventa gioco e voce personale, provocazione intelligente, “helzapoppin” ad alta gradazione di divertimento. Di fronte alla tragedia, Amleto ha due possibilità: soccombere o esplodere nel massimo della vitalità. Timi ha scelto la seconda, trasformando la tragedia in commedia, tra potere, oblio, frivolezza e pazzia, La regia tv è di commedia, tra potere, oblio, frivolezza e pazzia. pazzia. La regia tv è di Felice Cappa”.
Non conosco Filippo Timi. Ma la presentazione è allettante. Non resto deluso, sì pensoso. E non servirà troppo tempo per smaltire l’irriverente ennesima irrisione al buonsenso.
*
Alla giovane dotta intelligente dottoressa Gemma (sì, tale il suo nome), dermatologa di grande talento, in riconoscimento dei suoi meriti per avermi liberato dei fastidiosissimi pruriti (impresa nella quale tanto di barbassori avevano fallito) ho scritto a mano, col dono di un volume dei miei DIS-INCANTI. Dianoie Metanoie Paranoie d’un Vegliardo diarista virtuale (nell’inconfessata speranza ch’ella abbia questo sproloquio più caro del suo diploma di laurea, e non ne rida) quanto segue:
All’amabile dottoressa Gemma
il Vegliardo dona questo zibaldone di pensieri, sovra (super)-pensieri, folli-pensieri,
con l’augurio che la VITA
“dono grande e terribile del Dio” (Gabri)
CELEBRI A LUNGO IN LEI I SUOI FASTI
per il progresso della CONOSCENZA, che di lei fece l’adepta dei suoi MISTERI,
e per il bene dei pazienti che avranno la felice VENTURA di incrociarla sul loro cammino.
In Roma, il 13 Gennaio 2023 di Cristo
Idibus Ianuariis Anno MMDCCLXXIII ab Urbe condita.
Umilissimamente G. S.
Sono proprio incorreggibile.
*
Ora sì che mi rilasso con Brahms, Tragische Ouverture. Ottima, ottima. Un direttore giapponese, Iijii Oue, che scimmiotta, simpaticamente, in meglio, Pappano.
E Due balletti: Giselle e Onegin. Romantici che più romantici non si può. In ambedue Adolphe-Charles Adam e Ciaikovskij danno il meglio di sé. Li ho seguiti immaginando di avere accanto, a goderne, il più grande innamorato e celebratore della Danza come vittoria suprema sulla forza di gravità, Friedrich di Rӧcken. Quanto abbiamo goduto insieme!
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