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Messaggi di Gennaio 2020

Kitsch, Kafka, Severino, Pansa, Partei...

Post n°1023 pubblicato il 27 Gennaio 2020 da giuliosforza

Post 944

   In questa pagina di diario pubblico alla rinfusa, ne chiedo scusa al lettore, pensieri vecchi e nuovi, brevi o eccessivi che con un po’ di sforzo e di fantasia potrebbe anche scoprirsi esser connessi da un certo logico interno legame. Ma perché sforzarsi? Per quel che valgono val meglio goderne, o schifarsene, per quel che sono: uno zibaldoncello senza pretese di pensieri sparsi che a me ha dato piacere imprimere sulla carta, nella non illecita speranza che restino impressi anche nella memoria di qualche lettore. Il resto non conta.   

*

Stanotte ho fatto un sogno meraviglioso, che m’ha accompagnato ad un bel risveglio.

   Col nostro Gruppo corale “I nuovi Ragazzi di Vivaro” s’andava a piedi, cantando, (ancora pertinacemente si autointonano dentro di me, e si diffondono per le vallate del mio spirito, i melodiosi versi: “cosa rimiri mio bell’alpin, mio bell’alpin? Io ti rimiro perché tu sei bella, bella se vuoi venire con me alla guerra”…), s’andava dunque  a Roviano a tenere un concerto di canzoni d’osteria, di guerra, d’amore, d’emigrazione e del lavoro, tutto quasi il nostro repertorio folkloristico. E la fantasia onirica non ci faceva retrocedere, come di solito avviene nei sogni, nel tempo e nello spazio: tempi e luoghi erano quelli di noi adesso, rappresentati nella nostra età reale, nella nostra attuale configurazione spazio-temporale. S’andava a piedi, fra canti, motti e vezzi, per colline per valli sentieri scoscesi, quelli, rimasti intatti, del tempo dei nostri anni fiorenti; giovanili le nostre energie, pur se quasi novantenne io, sessanta-settanta-settantacinquenni i ‘ragazzi’. Splendeva un sole primaverile, sgombro e serenissimo era il cielo, le cime del Velino e dei monti che fan loro corona incappucciati dell’ultima neve, colline declivi sentieri rifiorivano di tutti i colori giovani e nuovi, le valli dell’Anio vetus echeggiavano delle mille voci degli uccelli intenti ai novelli amori. Ed io antecedevo in salita, in pianura in discesa, senza affanno, guidando, a squarciagola cantando e insieme dirigendo con gesti ampi e solenni come ad un così infinito proscenio si addiceva. E i villici intenti ai lavori primaverili in vigneti, uliveti, prati e maggesi sospendevano le loro fatiche unendosi ai nostri cori, e le porte dei casolari sparsi s’aprivano, e mature massaie e fanciulle in fiore s’affacciavano sulle soglie a celebrare con noi la festa dell’universo.

   Col mio levarmi (è quasi notte ancora, la prima luce balugina traverso i fori delle serrande, raggi benefici giungono a carezzare i tasti del computer, merli e colombi tornano a salutarmi dalla sponda del mio verone) la festa degli uomini e delle cose sembra accingersi a proseguire per tutto il giorno (fino alla prossima cupa notte almeno, o benevoli Iddii?)   

   P. S.

   (Sia anche tornata a tubare, fra i colombi del mio verone, Taube, la Colombe poignardée?)

 *

   La sola cosa bella della Morte? Che si smette di morire.

 *

   Omaggio alla memoria di Emanuele Severino, parmenideo, il filosofo che, secondo alcuni (io sono tra questi di questi), “ pensava, mentre tutti gli altri parlavano”.

*

   E omaggio alla memoria di Giampaolo Pansa, uomo di sinistra (quella vera che è il luogo del pensiero divergente!) che non aveva messo il cervello all’ammasso. Giornalista vivacissimo e controcorrente, prolificissimo scrittore, ebbe da vivo la mia ammirazione, ha ora tutto il mio compianto.

*

   Mi si chiede come mai la radio a casa mia sia accesa giorno e notte, sintonizzata su radio classica. La ragione è semplice. Voglio che di quella musica pareti pavimento soffitto vengano impregnati, e me morto la restituiscano a chi la inabiterà, testimone della lirica mia eternità (forse anche auspicata immortalità?).

*

   Pur avendo quest’anno, a differenza di sempre, riposto il piccolo presepio in tutta fretta, ho ritratto dalla sua scatola l’alberello di pochi centimetri e l’ho riacceso vicino al presepio ligneo provenzale a tre piani esagonali, rotanti, a mo’ di carosello, in virtù del calore delle sei candelette  che sale alle eliche culminanti; un presepio perenne che, come cosa a me particolarmente cara, perché in sé bella e carica di memorie, è perennemente esposto in uno dei pochi spazi rimasti vuoti della tavoletta murata che mi fa da desco nel mio angolo cucina. L’alberello è destinato a rimanere acceso tutto l’anno. Perché, direte voi, questa ulteriore stramberia? Semplicemente perché per me ogni giorno è Natale, ogni giorno Dio in ogni carne si incarna e in ogni cosa si incosa. Pura stramberia, o qualcosa di più?

 

*

   C’è un amico, lettore appassionato dei miei troppo numerosi versi neoclassici, stampati per esser donati (come ad ogni grazia di Dio s’addice, così scrisse in qualche luogo - la Carta del Carnaro? - il Vate), il quale, senza celia ahimè, vorrebbe propormi per il Nobel! Ahimè di nuovo: io non amo, per orgoglio (o per viltà?), confrontarmi con alcuno, da alcuno farmi giudicare, odio competizioni e concorsi, da cui uscirei regolarmente sconfitto. Gli ho detto: sono premio a me stesso, e tanto mi basta. Non gli è dispiaciuta la battuta. E nemmeno a me. Da giovane, semplice e ignaro dei mercimoni che si fanno attorno alle defecazioni delle muse (ma le Muse, non avendo pane né donandolo, come suona il noto adagio, non dovrebbero nemmen defecare), spedii (unica volta in vita) un plico a un concorso presieduto da Ungaretti (un lagnoso asfittico che non sopportavo vivo e non sopporto morto -come poeta, naturalmente). Si trattava, una volta tanto, di una sperimentazione di versificazione libera, quella che modernamente s’usa e s’ama, sicché ognuno che scriva una frasetta, anche la più triviale, e la spezzi in tre o quattro a capo, possa ritenersi poeta e compiacersene.  Non ho idea di che fine abbia fatto il plico, perché non mi fu reso, né io ne ho una delle copie che ne feci con la mia Olivetti lettera 22. Un poco ne soffro. Io sono uso conservare tutto, qualunque cosa abbia toccato. Un giorno una giovane amica, molto bella e molto intelligente, molto corteggiata e per questo un poco anche snob, entrando a casa mia e osservando tutte le kiccerie in essa affastellate, mi chiese, molto seriosamente, di fronte agli amici che la accompagnavano: ma tu ami il Kitsch?, quasi volesse dire: da uno come te non me lo sarei aspettato. Io la freddai con una risposta secca, assai presuntuosa, che l’ammutolì: sì, ma appena un Kitsch è passato per le mie mani, smette di essere tale. Ne seguì un imbarazzato silenzio da parte sua e un applauso da parte degli amici, al quale s’unì poi anche lei. Uno degli amici aveva frattanto subitamente sussurrato un romanesco ecchellà. Io fui dispiaciuto del suo imbarazzo, anche perché era la prima vota che mi rivolgevo a lei con parole meno che affabili. Ora quella bellissima ha sposato un artista dei suoni, e ne sono geloso. Mi son perso un’opera d’arte autentica, non un Kitsch.

*

   Lo zelo di FB ogni tanto ripubblica i miei ricordi, perché anch’io faccia lo stesso. Non lo faccio quasi mai, ma questa è la volta buona poiché è ricomparsa, telefonicamente, dopo tanti anni, la Lei che fu al centro di questa memoria. Ora è una sessantenne, immagino splendida nella sua maturità di corpo e d’anima. E ridisponibile al corteggiamento intellettuale. Ecco il ricordo.

    “Son solito trascorrere da sempre la notte di San Silvestro in solitudine, un po’ per ostentazione, un po’ perché nostalgico delle irrecuperabili chiarità elleniche e dei loro thiasi, ricordando, meditando, ascoltando Palestrina Beeth e Wagner, scrivendo. E la cartelliera della mia biblioteca pseudo-rinascimentale trabocca di manoscritti, in parte rilegati in un grosso volume dal titolo Notti di San Silvestro, ai quali, più che alle cosucce che ho pubblicato, è affidata post mortem la mia immortalità. Siano avvisati eredi e posteri: tutto vada perso, donato, venduto, bruciato, ma non le quasi diecimila pagine manoscritte di varia diaristica che, con Notti di San Silvestro, stipano gli scaffali della mia amata cartelliera. Ripeto, da quelle dipende la mia immortalità!”.

   A tale ricordo un altro, un pochino qui rimaneggiato, seguiva:
   “Un giorno, credendo di fare a una donna assai bella e, presumevo, intelligente, di me venticinque anni più giovane, il più bel complimento, le dedicai il bellissimo verso di Michelangelo (il primo della stanza del "Canzoniere" scritta per Vittoria Colonna): Un uomo in una donna, anzi uno iddio che io trovavo e trovo semplicemente straordinario, lapidario come un colpo di scalpello (il Capresano scriveva come scolpiva, e bene scrisse di lui il Berni contro i petrarchisti: "E’ dice cose, e voi dite parole""). Che fece la sciocca? Non dico che s’offese, ma di certo non lo gradì, trovandolo … maschilista. Erano i tempi dell’invasamento, e glielo perdonai. Non lo farei adesso che l’uomofobia mi par vivaddio meno di moda, prestandosi più attenzione, per la verità una attenzione anch’essa ossessiva, all’omofobia (senza dire che, date le tendenze sessuali michelangiolesche, nel verso è possibile cogliere più sottili allusioni). Avesse lei detto a me Una donna in un uomo anzi una dea! Ma me lo attesi inutilmente: non era persona da tanto, pur essendo una persona fine. Che destino abbia avuto non so; voglio immaginare, e sperare, sia una di quelle splendide sessantenni che sempre più spesso oggi si incontrano. E anche che, senza darmi la soddisfazione di dirmelo, sia una delle mie cinque lettrici; e che, levigata dalla vita, sia in grado di godersi, magari con quel tanto di ironico disincanto che a una sessantenne si addice, i versi che oggi, per dispetto, le ridedico per intero.

 

“Un uomo in una donna, anzi uno dio
per la sua bocca parla,
ond’io per ascoltarla
son fatto tal, che ma’ più sarò mio.
I’ credo ben, po’ ch’io
a me da lei fu’ tolto,
fuor di me stesso aver di me pietate;
sì sopra ’l van desio
mi sprona il suo bel volto,
ch’i’ veggio morte in ogni altra beltate.
O donna che passate
per acqua e foco l’alme a’ lieti giorni,
deh, fate c’a me stesso più non torni".
Inizio modulo Fine modulo

 *  

   A guardia del mio bunker, da sempre, Lui. Con Lui il gallo del rinnegamento, che 'excitat Auroram', l'Aurora del Super-Oltre-Uomo che per quasi cento anni ormai inutilmente attesi. A voi, miei posteri, sia riservata migliore ventura.
Sulla copertina di uno dei manoscritti esposti sul leggio, il retorico monito giovanile: "Frendentem dentibus canem - noumenon spiritusque yerodominatum - impotenti vi - ad mysterii ostia defendentem - amici inimici - Gabrielem Nuncium caveatis".
Sia perdono (non ancora pace) al Vegliardo.

*

Ein Idiot ist ein Idiot, zwei idioten sind zwei Idioten, zehntausend Idioten sint teine Partei. Lo attribuiscono a Kafka, potrebbe esser di Kafka, non contrasta col suo umore, ma non lo giuro. Lo trovo in rete senza indicazione di fonte (un malvezzo ricorrente), ma non mi dispiace se non per le donne (Partei, partito, è stranamente, in tedesco femminile, e me ne chiedo il perché - ma non me lo chiedo per Liebe, amore, Sonne, sole, anch’essi femminili); come non mi chiedo perché Moon, luna, sia maschile. Amore e sole evocano luce, chiarità, splendore e calore, qualità, si ritiene, essenzialmente femminili; mentre Moon, luna, evoca pallore, freddezza, se non glacialità e algidezza, ritenute attribuzioni essenzialmente maschili. Del che non son molto convinto: avete mai visto la faccia di una donna inferocita nell’atto di sputarvi addosso, non solo metaforicamente, tutto il suo veleno? L’avete mai osservata nell’atto di affibbiarvi un sonoro ceffone al termine di un rapporto che lei è decisa a troncare? L’avete mai vista nelle sfilate femministe, l’avete mai sentita urlare i suoi slogans? Qualora no, evidentemente vi sono stati risparmiati gli anni furenti della contestazione. Farei dunque femminile anche Partei, senza tentennamenti e ripensamenti. Magari un piccolo partito, uno sciame di piccoli insetti i quali però, quanto più piccoli sono, tanto più fanno male.

Honi soit qui mal y pense.

______________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 
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La Scuola nella dannunziana "Carta del Carnaro". "Quale scuola per quale società".

Post n°1022 pubblicato il 14 Gennaio 2020 da giuliosforza

 

Post 943

   La riproposizione provocatoria su queste pagine, a Centenario fiumano da poco concluso, degli articoli dedicati alla scuola nella Costituzione fiumana (quanto più di magnificamente utopistico si possa immaginare) introduce e anche conclude, come ipotesi alternativa ‘giocosa’, ipotesi di scholé, quel poco che riferirò del convegno organizzato da Scienze della Formazione di Rome Tre in collaborazione con MicroMega sul tema “Quale scuola per quale società” (per quale futuro, in una diversa versione) il 9 dicembre scorso. Una scuola utopistica da ipotizzare per una società utopistica, partendo da poche situazioni accertate.

   Visionarietà per visionarietà, utopia per utopia, preferisco quelle deambrisiano-dannunziane della Carta del Carnaro, forse la più bella Costituzione mai vagheggiata, pensata dal Poeta Soldato in collaborazione con l’anarco-socialista Alceste De Ambris e da lui messa in bella, nel suo stile inimitabile. È oltretutto questo il mio contributo alle celebrazioni del Centenario della politico-estetica impresa fiumana. Anche se quanto qui appresso della Carta riporto è stato da me più volte, pur di recente, su questo blog ripresentato, farlo nuovamente, in occasione del Convegno, non mi par cosa superflua. Dà in anticipo ragione dell’atteggiamento col quale mi sono accinto a presenziare all’evento.

 

DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA

 

   50) Per ogni gente di nobile origine la coltura è la più luminosa delle armi lunghe.

   Per la gente adriatica, di secolo in secolo costretta a una lotta senza tregua contro l’usurpatore incolto, essa è più che un’arme: è una potenza indomabile come il diritto e come la fede.

   Per il popolo di Fiume, nell’atto medesimo della sua rinascita a libertà, diviene il più efficace strumento di salute e di fortuna sopra l’insidia estranea che da secoli la stringe.

   La coltura è l’aroma contro le corruzioni. La coltura è la saldezza contro le deformazioni.

   Sul Carnaro di Dante il culto della lingua di Dante è appunto il rispetto e la custodia di ciò che in tutti i tempi fu considerato come il più prezioso tesoro dei popoli, come la più alta testimonianza della loro nobiltà originaria, come l’indice supremo del loro sentimento di dominazione morale.

   La dominazione morale è la necessità guerriera del nuovo stato.

(...)

   Qui si forma l’uomo libero.

   E qui si prepara il regno dello spirito, pur nello sforzo del lavoro e nell’acredine del traffico.

(...)

   51) È istituita nella città di Fiume una Università libera, collocata in un vasto edificio capace di contenere ogni maggiore aumento di studii e di studiosi, retta da suoi propri statuti come la Corporazione.

Sono nella citta di Fiume istituite una scuola di Arti belle, una Scuola di Arti decorative, una scuola di Musica, poste sopra l’abolizione di  ogni vizio e pregiudizio magistrali, condotte dal più sincero e ardito spirito di ricerca della novità, rette da un acume  atto a purificarle dall’ingombro dei mal dotati e a sceverare i buoni dai migliori e a secondare i migliori nella scoperta di sé e dei buoni rapporti  fra la materia difficile e il sentimento umano.

   52)

(…)

   In tutte le scuole di tutti i comuni l’insegnamento della lingua italiana ha privilegio insigne.

   Nelle Scuole medie è obbligatorio l’insegnamento dei diversi idiomi parlati in tutta la Reggenza italiana del Carnaro.

   L’insegnamento primario è dato nella lingua parlata dalla maggioranza degli abitanti di ciascun Comune e nella lingua parlata dalla minoranza in corsi paralleli.

(…)

   Un consiglio scolastico determina l’ordine e il modo dell’insegnamento primario, che è d’obbligo nelle scuole di tutti i Comuni.

   L’insegnamento del canto corale fondato sui i motivi della più ingenua poesia paesana e l’insegnamento dell’ornato su gli esempii della più fresca arte rustica hanno il primo luogo.

(…)

   54) Alle chiare pareti delle scuole aerate non convengono emblemi di religione né figure di arte politica.

   Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni religiose, i credenti di tutte le fedi, e quelli che possono vivere senza altare e senza dio.

   Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza. E ciascuno può fare la sua preghiera tacita.

   Ma ricorrono su le pareti quelle iscrizioni sobrie che eccitano l’anima e, come i temi di una sinfonia eroica, ripetute non perdono mai il loro potere di rapimento.

   Ma ricorrono su le pareti le imagini grandiose di quei capolavori che con la massima potenza lirica interpretano la perpetua aspirazione e la perpetua implorazione degli uomini.

(….)

 

Come piacevole intermezzo trovo utile ripubblicare anche il paragrafo sulla Edilità (a suo modo anch’esso musicale) che è una maniera raffinatissima di presentare quello che noi prosaicamente diciamo assessorato all’urbanistica, di discorrere delle sue mansioni essenzialmente estetiche alle quali deve presiedere quel senso del bello che consente l’educazione del popolo al ‘decoro del vivere cittadino’ e all’’amore della linea bella e del colore’. Abituati come siamo agli sconci che inestetiche ed anestetiche politiche amministrative hanno fatto e fanno delle nostre città, soprattutto dell’edilizia popolare, i compiti affidati nella Carta agli “Ufficiali dell’ornato della città” ci appaiono cose di un altro mondo. Eppure quel mondo in qualche beata epoca fu, perché non dovrebbe poter tornare ad essere?

 

DELLA EDILITÀ

 

   63) È istituito nella Reggenza un collegio di Edili, eletto con discernimento fra gli uomini di gusto puro, di squisita perizia, di educazione novissima.

   Più che l’edilità romana il collegio rinnovella quegli “Ufficiali dell’Ornato della città” che nel nostro    Quattrocento componevano una via o una piazza con quel medesimo senso musicale che li guidava nell’apparato di una pompa repubblicana o in una rappresentazione carnascialesca.

   Esso presiede al decoro del vivere cittadino;

cura la sicurezza la decenza la sanità degli edifizii pubblici e delle case particolari;

impedisce il deturpamento delle vie con fabbriche sconce o mal collocate;

allestisce le feste civiche di terra e di mare con sobria eleganza…

   Persuade ai lavoratori che l’ornare con qualche segno di arte popolesca la più umile abitazione è un atto pio, e che v’è un sentimento religiose del mistero umano e della natura profonda nel più semplice segno che di generazione in generazione si trasmette inciso o dipinto nella madia, nella culla, nella conocchia, nel forziere, nel gioco;

   si studia di ridare al popolo l’amore della linea bella e del colore…

 

La Carta del Carnaro si conclude con una sezione dedicata alla Musica. Sarà per questo che essa mi esalta e mi commuove? Quale Costituzione al mondo chiude elevando un Inno a Frau Musika, innalzandola a divinità protettrice dell’animale ‘politico’ nel suo tribolato farsi storico? All’aprirsi dell’Anno beethoveniano (che mi aspetto seriamente celebrato, con profondità di conoscenza critico-storica, e non con luoghi comuni; con iniziative capaci di restituirci del Titano la vera immagine di Artista e di Uomo, quella ad esempio che ci trasmise Richard Wagner, e non con insulse celebrazioni puramente divulgative, come risultano solitamente quelle affidate agli strumenti della comunicazione massiva, soprattutto radiotelevisiva) mi attendo una rimeditazione del compito riservato alla Musica, più che a qualunque altra espressione artistica, nella scuola, ai fini della della formazione dell’Uomo nuovo, l’uomo restituito dalla alienante frammentarietà (l’homme fractionnaire rousseauiano, il Teilmensch goethiano) alla sua Umanità totale. L’uomo che senza scandalo ormai possiamo dire Super-oltre-Uomo.

 

DELLA MUSICA

 

64) Nella Reggenza italiana del Carnaro la Musica è una istituzione religiosa e sociale.

Ogni mille anni, ogni duemila anni sorge e dalla profondità del popolo un inno e si perpetua.

Un grande popolo non è solo quello che crea il suo dio a sua simiglianza ma anche quello che crea il suo inno per il suo dio.

Se ogni rinascita d’una gente nobile è uno sforzo lirico, se ogni sentimento unanime e creatore è una potenza lirica, se ogni ordine nuovo è un ordine lirico nel senso vigoroso e impetuoso della parola, la Musica considerata come linguaggio rituale è l’esaltatrice dell’atto di vita, dell’opera di vita.

Non sembra che la grande Musica annunzi ogni volta alla moltitudine intenta e ansiosa il regno dello spirito?

Il regno dello spirito umano non è cominciato ancora.

«Quando la materia operante su la materia potrà tener vece delle braccia dell’uomo, allora lo spirito comincerà a intravedere l’aurora della sua libertà» disse un uomo adriatico, un uomo dalmatico: il cieco veggente di Sebenico.

Come il grido dell’alba eccita l’alba, la Musica eccita l’aurora, quell’aurora: « excitat auroram».

Intanto negli strumenti del lavoro e del lucro e del gioco, nelle macchine fragorose che anch’esse obbediscono al ritmo esatto come la poesia, la Musica trova i suoi movimenti e le sue pienezze.

Delle sue pause è formato il silenzio della Decima Corporazione.

65) Sono istituiti in tutti i Comuni della Reggenza corpi corali e corpi strumentali con sovvenzione dello Stato.

 

   Ciò premesso, facile è immaginare quale sarà, e non potrà non essere, il tenore delle mie poche considerazioni sul Pomeriggio dedicato dal Dipartimento Scienze della Formazione di Roma Tre e da MicroMega al dibattito: Quale scuola per quale società. Ecco, dirò subito che il tono generale mi è apparso nella sua media alto, culturalmente corretto anche se qua e là, sia pur velatamente, tentato di ideologismo, cosa fino a un certo punto inevitabile trattandosi di incontro-scontro fra due generazioni: Galli della Loggia e un irriconoscibile e impacciato Flores d’Arcais dall’altra (sessantottini doc entrambi ma che tenevano e tengono a dichiarar ben distinte le loro posizioni in seno al movimento; ambedue per altro obbligati, crudeltà del tempo e della storia, a rivedere almeno in parte le loro posizioni, tali da farli sembrare approdati ad un revisionismo filogentiliano); un Flores d’Arcais messo all’angolo, se non umiliato, dalle catapulte dei rappresentanti delle nuove generazioni (Bocci di Roma Tre, Baldacci di Urbino, l’insegnante Boscaino, portavoce informata e motivata degli operatori sul campo, Corsini di Roma) arroccati su posizioni avanguardistiche, dure da comprendere e da condividere da gente della mia generazione. A rappresentare la generazione di mezzo una Carmela Covato, storica della scuola, soprattutto nel suo versante femminil-femminista, che non ha perso nulla della verve e della “pasionarietà” ibarrutiana che le ricordo dai tempi in cui le fui umile collega; e il rettore di Roma Tre, il francesista Luca Pietromarchi, la cui funzione in quel contesto, oltre che rappresentativa, non mi è apparsa ben chiara: nel suo lungo saluto non sono stato in grado di riconoscere una tendenza culturalmente ben delineata e perciò difficilmente valutabile.

   A impostare il tema e introdurre il dibattito un pacato Massimiliano Fiorucci, direttore del Dipartimento, la cui passione educativa e sociale appare da ogni parola e da ogni atteggiamento, stavo per dire trasuda da ogni poro. Voglio molto bene a Fiorucci, di cui poco ho letto, ma che so interessato alle problematiche dell’intercultura e dell’accoglienza, milaniano nel pensiero, rodariano nell’estetica sensibilità che gli consente di tradurre in delicati poetici divertissements le sue idee e i suoi sentimenti. Della sua breve introduzione ho apprezzato tutto e quasi tutto ho condiviso. Non ho condiviso il suo pregiudizio (m’inganno?) antigentiliano, proprio per altro di tutti coloro che al Castelvetranese si sono avvicinati sui banchi di scuola nel periodo postbellico, e su libri di autori molti dei quali, smesso l’orbace, s’erano affrettati ad indossare colbacco o zimarra. Fra l’altro Fiorucci ha tenuto a ripetere, e a contestare, la frase alla quale si è soliti ridurre alquanto semplicisticamente la complessa concezione pedagogica e didattica dell’autore del Sommario di pedagogia come scienza filosofica: chi sa sa insegnare (affermazione che non intendo certo io qui ridiscutere - troppo lungo sarebbe il discorso, troppo vasto e complesso il quadro di riferimento dal quale prende senso), ma che io trovo, come molte cose del Filosofo dell’Atto, di una evidenza addirittura lapalissiana: ché, se non necessariamente chi sa sa insegnare, indiscutibilmente chi non sa non sa insegnare: primato del sapere, condicio sine qua non di ogni didattica. Non si dà un come senza un cosa!

   Dalla maggioranza degli interventi un fatto certo è emerso, quello che d’altronde è evidente agli occhi, ed è sulla bocca, di tutti: la scuola di questa nostra tribolata Italia, in ogni suo ordine e grado, essere allo sbando, incapace di cogliere il senso dei compiti ad essa affidati dalla Conoscenza in tempi di intelligenze artificiali, di scienze informatiche con tutta la serie delle loro figlie ‘maggiorate’, le tecniche. In queste son sembrati riporre la loro fiducia i relatori più giovani nella prospettiva dell’homo novus (‘nuovo’ ma anche ‘ultimo’) dell’homo cyberneticus; ad esse prevalentemente hanno dedicato le loro complesse e articolate riflessioni, chi più fiducioso chi più prudente. Io, pur avendo celebrato, in certe mie divagazioni poetiche (Canti di Pan e ritmi del thiaso. Liriche neoclassiche dell’immanenza) Internet come intelletto unico averroistico, in grado di elaborare nell’io individuale categorie nuove, più kantiane che aristoteliche, ora son portato a vedere in tale intelletto unico più un pericolo di massificazione che una occasione di liberazione, tale da mettere a rischio il fine essenziale della scuola, che dovrebbe esser quello della formazione di menti critiche e creative, capaci di liberamente e autonomamente pensare, uomini e non ‘pecore matte’ …pergentes, pecorum ritu, non quo eundum est sed qua itur (Seneca, De vita beata, Cap. 1).

 Relazionavano e dibattevano (poco per la verità: il tempo contratto per la troppa carne al fuoco non lo consentiva): Paolo Flores d’Arcais , Ernesto Galli della Loggia, personaggi troppo noti perché io qui li presenti, i sopracitati Bocci, Baldacci, Boscaino, Corsini, Covato. Avvertita l’assenza di Montanari, il noto critico d’arte e politico, che avrebbe dato forfait a causa del terremoto di Firenze. La sua assenza ha tolto molto al convegno: un suo confronto-scontro dal vivo con Galli della Loggia sul tema Quale scuola per quale società già raccolto e pubblicato da MicroMega, riproposto in Aula avrebbe vivacizzato l’atmosfera d’insieme. Un vero peccato.

   Dunque.

   Chi scrive, recuperato all’antisistema dal Folle di Rӧcken , già consegnato da Tommaso ad Hegel, da questi a Marcel, da Marcel a Gentile e da Gentile, non suoni strano, su un piatto d’oro al dannunziano ‘Distruttore’ (qui m’è d’obbligo rimandare al mio intervento al Convegno di Montecatini -1975 - in occasione del Centenario del Castelvetranese, dal titolo“Gentiliano, ergo post-gentiliano”, ora riportato in “Variazioni sul tema”, Anicia 2007) non lamenta certo la diversità dei punti di vista emersi dall’incontro. Finita è l’epoca dei sistemi ai quali ricorrere per placar le proprie inquietudini, comode poltrone su cui riposare le membra stanche. Ma ciò non significa che debbano essere ostracizzate dai consessi una filosofia critica, tale anche, direi soprattutto, quando è critica di se stessa, e una pedagogia come scienza (episteme) anche filosofica. La differenza dei punti di vista è fondamentale già dall’epoca della scoperta bruniana della infinità dei mondi e della revolutio mentium terrestrium in essa implicita, dal Nolano fatta discendere dalla copernicana revolutio orbium coelestium, ma mai come oggi, che una nuova fede, quella nel dio cibernetico-telematico-tecnologico, sembra voler sostituire l’antica, con quali perniciose conseguenze non è difficile immaginare. Al trionfalismo neopositivistico dei nuovi tecnicismi (risottolineo: non delle nuove scienze -ogni scientia come Conoscenza essendo di per sé salvifica) non si farà mai abbastanza resistenza critica, per impedire oltretutto che il positivo, tanto, nelle nuove tecnologie contenuto, vada disperso. Nessuno ha difficoltà ad ammettere che la tecnologia è mezzo, non fine; pochi s’avvedono (e ne tremano) che il rapporto subdolamente tende ad invertirsi e il mezzo a farsi fine. La tecnologizzazione dell’umano sarebbe la fine irrevocabile dell’uomo. Un destino già forse segnato?

   P. S.

   A Natale mi sono regalato due libri di recentissima stampa, uno della Procopio di Napoli, l’altro della InSchibboleth Edizioni di Roma, che evidenziano due nuove tendenze apparentemente in contrasto: una antiintellettualistica, l’altra di una rinascita attualistica, che il concetto di Atto rivisita in direzione di una sua più variegata complexio. Del primo è autore Romano Gasparotti che associa , in maniera assai originale, addirittura l’arte e la riflessione magrittiane all’Atto gentiliano, e il titolo è L’amentale. Arte, danza e ultrafilosofia; del secondo Massimo Donà, professore al San Raffaele e discepolo di Emanuele Severino (tanto nomini…), del libro stesso dedicatario, e il titolo è Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile.

   A me i due libri piacciono. Mi permetto di consigliarli anche ai relatori del Convegno. Tanto perché si …divaghino.

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 

 
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