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Messaggi di Giugno 2021

Victor Hugo a Judith Gautier. Moriturus te salutat. La Bellezza e la Morte

Post n°1085 pubblicato il 13 Giugno 2021 da giuliosforza

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   Vagabondando per la rete alla ricerca di notizie sul percorso biografico post-Napoleone III di Victor Hugo, (il ‘mio’,  per lungo tempo, Victor Hugo, perché padre e poi culmine, con Les Contemplations, di quel romanticismo francese a me per lunghi anni familiarissimo -possedevo quasi tutto dei più Grandi di quella beata epoca, compresa una copia autografata, prima edizione, delle Méditations poétiques di Alphonse de Lamartine, trafugatami, insieme a un Vocabolario della Crusca I edizione, durante un trasloco) e in particolare cercando notizie sul suo autoesilio, trovo  che questo  durò fino al 1872, due anni dopo la disfatta di ‘Napoléon le petit’; e che al suo ritorno s’imbatté in stazione in una bella signora (risultata Judith Gautier, figlia di quel Théophile al quale Baudelaire aveva dedicato con entusiasmo le sue Fleurs du mal proclamandolo suo grande ‘maestro ed amico’, ‘Poète impeccable e Parfait magicisien ès Lettres Fançaises’), che subito lo incantò e da cui fu preso tanto da dedicarle una bella e nostalgica poesia dal titolo, efficace e triste insieme, Ave Dea, moriturus te salutat, dove la Bellezza e la Morte sono associate in simpatico connubio (cosa per la verità non rara tra i poeti e non solo: per esempio trovo anche il famoso… tuttologo, detto senza malizia e senza spregio, Edgar Morin riprendere il concetto citando la prima strofa nel suo breve saggio Sull’Estetica rilevando: “Forse bisogna legare l’idea di vivere la morte, sviata da sé su un altro, all’idea di estetizzazione della morte che permette la catarsi). Questo ricordano i bei versi di Victor Hugo …” (segue la cit. della prima strofa, p. 64-65 dell’edizione Raffaello Cortina 2019). A quell’epoca Hugo aveva solo settanta anni ma evidentemente, a causa delle sue traversie, gli pesavano come ottanta o novanta. Siamo noi veri vecchi a più poterne capire e goderne, con l’ironico distacco che è proprio della nostra età. Speravo di trovare la poesia, debitamente commentata, nell’edizione Gallimard (Paris 1943-1973) de Les Contemplations, senza ricordare che queste sono del 1856. Mi contenterò perciò del testo senza apparato critico che trovo in rete. 

     Ave dea, moriturus te salutat. Victor Hugo 1872

     La mort et la beauté sont deux choses profondes  

     Qui contiennent tant d'ombre et d'azur qu'on dirait

     Deux sœurs, également terribles et fécondes,

     Ayant la même énigme et le même secret.

   Ô femmes, voix, regards, cheveux noirs, tresses blondes, 
   Vivez, je meurs ! Ayez l'éclat, l'amour, l'attrait
   Ô perles que la mer mêle à ses grandes ondes, 
   Ô lumineux oiseaux de la sombre forêt! 
   Judith, nos destins sont plus près l'un de l'autre 
   Qu'on ne croirait, à voir mon visage et le vôtre : 
   Tout le divin abîme apparaît dans vos yeux.
   Et moi, je sens le gouffre étoilé dans mon âme: 
   Nous sommes tous les deux voisins du ciel, Madame, 
   Puisque vous êtes belle et puisque je suis vieux.
   La morte e la bellezza son due cose profonde 
   che hanno i sé tanto d’azzurro e tanto d’ombra che si direbbero 
   due sorelle, parimenti terribili e feconde 
   possedendo lo stesso enigma e lo stesso segreto.
   O donne, voci, sguardi, capelli neri, trecce bionde 
   Vivete, io muoio! Abbiate lo splendore, l’amore, attrattiva, 
   o perle che il mare mescola alle sue grandi onde, 
   o luminosi uccelli nell’ oscura foresta!
   Giuditta, i nostri destini sono più vicini l’uno all’atro 
   di quanto non si creda, guardando il mio volto e il vostro: 
   tutto il divino abisso appare nei vostri occhi.
   E io, io sento il gorgo spalancato nella mia anima: 
   noi siamo tutti e due vicini al cielo, Signora, 
   perché voi siete bella e perché io sono vecchio”.
   Sinceramente con trovo questi versi poi così belli, se non ritmicamente (io vado pazzo per l’alessandrino perfetto!). Forse gli stessi sentimenti avrebbero potuto essere espressi con maggior trasporto e più profondità. Ma altro forse non può presumersi da versi improvvisati nel trambusto di una stazione, nemmeno da un Hugo.
   Molto più bello trovo il tetrastico che chiude Les Misérables e che l’autore immagina scritti sulla lapide abbandonata fra i rovi e le erbacce della tomba di Jean Valjeans al cimitero di Père-Laschaise: 
   Il dort. Quoique le sort fût pour lui bien étrange,
   Il vivait. Il mourut quand il n'eut plus son ange;
   La chose simplement d'elle-même arriva,
   Comme la nuit se fait lorsque le jour s'en va.»

   Dove l’ange è Cosette, naturalmente. Al qual proposito traduco il seguente articolo, rinvenuto in rete, del saggista e critico letterario Pierre Campion:

   “Jean Valjean restituito agli elementi.

   L’erba nasconde e la pioggia cancella.

   C’è, al cimitero di Père-Lachaise, nei pressi della fossa comune, lontano dal quartiere elegante di questa città di tombe, lontano da quei sepolcri fantastici che sfoggiano in presenza dell’eternità le mode schifose della morte, in un angolo deserto, lungo un vecchio muro, sotto un grande tasso sul quale si arrampicano i convolvoli, tra le gramigne e i muschi, una pietra. Questa pietra non è più esente delle altre dalle lebbre del tempo, dalla muffa, dal lichene, e dagli escrementi degli uccelli. L’acqua la inverdisce, l’aria l’annerisce. Non è vicina ad alcun sentiero, e non si ama andare da quella parte, perché l’erba è alta e si hanno subito i piedi. Quando c’è un po’ di sole, ci vengono le lucertole. C’è, tutt’intorno un crepitio di avena fatua. In primavera, le capinere cantano sull’albero. Questa pietra è completamente spoglia. Intagliandola si è pensato al puro necessario per una tomba, e non si è avuta altra preoccupazione che fare questa pietra lunga e stretta quanto basta a coprire un uomo.

   Non ci si legge nessun nome.

   Solo, da parecchi anni ormai, una mano ci ha scritto a matita questi quattro versi che son diventati a poco a poco illeggibili sotto la pioggia e la polvere e che probabilmente oggi sono cancellati (segue la quartina citata).

   Sono le ultime righe dell’immenso romanzo.

   Una frase prima di tutto, per condurre, di termine in termine, lo sguardo del lettore fino alla pietra ignorata, per portare questa pietra lontano dalle distinzioni troppo umane che regnano persino nei cimiteri, per ritardare la parola che ce la consegna innominata. In questa ultima pagina, il nome di Jean Valjean non appare più.

   Ma questa pietra non è indeterminata. Tagliata esattamente sulle misure mortali di un corpo e sulla dismisura di un destino, questa piccolezza gli conferisce la funzione d’un monumento funebre fatto per avvertirci - per avvertire quelli che non temono di bagnarsi i piedi - di ciò che è l’eternità: i valori incarnati nel momento fuggitivo d’un uomo. La tomba restituisce Jean Valjean all’anonimato degli elementi: dell’aria e della pioggia, delle piante e degli esseri inutilizzabili, della natura incondizionata - e dell’umanità.

   Stranamente, per epitaffio una quartina ricorda, in rime baciate, la lunga storia che si è appena letta. Per designare colui che è qui, l’anafora di un pronome; per spiegare questa morte, l’allusione all’occultamento naturale degli affetti; e, per compiere questo destino, la metafora del ritmo della notte e del giorno. Ma questi versi furono scritti a matita (da Mario, chissà? per proteggere Cosette, ancora, dal nome di Jean Valjean?), e solo la perennità del romanzo ci assicura, provvisoriamente, che questa morale resterà”.

_________________

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 
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