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Colorati, trascinanti, eccessivi, a 17 anni dalla morte del loro leader
esce un libro del giornalista Primi sul gruppo fondato da Freddie
Mercury: di etnia parsi, scintillante sacerdote della liberazione. Gay
ma non solo.
Colorati di colori estremi, alfieri di passioni
travolgenti. Farookh Bulsara li chiamava i «Cecil B. de Mille del rock
‘n roll»: epici, grandiosi ai limiti al kitsch, proprio come il film
del più maestoso di tutti i registi della vecchia Hollywood. Visionari
e trascinanti, come il loro creatore, il suo cuore pulsante. Uno strano
tipo dalla strana capigliatura e dalla dentatura sporgente che solo la
«swinging London» della grande rock revolution poteva accogliere tra le
proprie braccia come un figlio prediletto: Farookh Bulsara appunto, in
arte Freddie Mercury, padre e madre dei Queen. Sì, a 17 anni dalla
morte del loro leader, i Queen si confermano come una delle
incarnazioni più emblematiche della storia del rock: una specie di
caleidoscopio luccicante, un icona della trasformazione in cui la
pulsazione erotica del rock più pelvico si sposa a luccichii dell’opera
lirica, al gusto dell’esagerazione come senso stesso di una vita che
solo se «piena» è degna di essere vissuta.
Forse non poteva
essere altrimenti per quel ragazzo nato nel ‘46 a Zanzibar, figlio di
una famiglia di etnia parsi e pertanto in qualche modo discendente di
Zoroastro: pareva lui stesso un sacerdote post moderno della
liberazione, il giovane Freddie, mentre intorno a lui pioveva la
folgore di David Bowie, del glam rock e del progressive, entra ancora
il sogno di un mondo capace di cambiare dal di dentro i propri
connotati avvolgeva tutta la parte occidentale del globo come una
specie di coltre magnetica. Così, la vita e le vicende del signor
Bulsara e dei suoi tre compari May, Taylor e Deacon diventano un
curioso paradigma musicale del penultimo pezzo del secondo millennio,
avendo cavalcato il mondo dai beat al rock-kolossal degli stadi tipo
live Aid, attraversando coraggiosamente la tempesta del punk e le
pulsazioni elettroniche, giù fino alla «peste del secolo», l’Aids, che
dovette stroncare Mercury nel ‘91.
Una parabola che mischia in
sé gli elementi della commedia e della tragedia, del coraggio e
dell’esibizione, dell’identità sessuale (Mercury era in realtà
bisessuale avendo pure un sacco di amanti femmine, ha dichiarato di
recente Brian May in una specie di outing al contrario) e del rock
business. O almeno, questo e altro è quello che vi racconta il
giornalista rock Michele Primi (scrive per Rolling Stone e per Mtv),
nell’altrettanto colossale volume ampiamente illustrato Queen, edito
dalla Giunti (240 pagine, 19,50 euro): un libro che narra le avventure
e la musica, disco per disco, del gruppo da quando le scene britanniche
erano timidamente varcate da quelli che all’inizio si chiamavano Smile,
diventati poi Queen per intuizione geniale di Freddie.
Libro
denso di un numero incredibile di dettagli, di aneddoti, di storie, di
fotografie, corredate di discografia completa, di un elenco minuzioso
di ogni concerto del gruppo in oltre vent’anni di attività e,
soprattutto, di una cronologia che annota, giorno per giorno, tutto ciò
che è stata - ed è - la storia dei Queen dai loro primi passi fino alla
loro ultimissima, recente, rinascita con Paul Rodgers a vestire gli
impossibili panni di Mercury. Una storia vorticosa.
Il primo
concerto con il nome Queen si tiene il 18 luglio 1970 tra le mura di
casa dell’Imperial College di Londra. L’invito, Freddie - già studente
d’arte - se lo disegna a mano. In scaletta solo rovente rock ‘n roll:
pezzi di Buddy Holly, Little Richard, Gene Vincent. Solo due anni ed
ecco il primo disco, realizzato nei pochi momenti in cui lo studio non
era occupato da David Bowie, e sette anni da quello che li avrebbe
traghettati dalla tempesta assoluta, bastarda e iconoclasta del punk.
Siamo nel ‘77, e mentre dappertutto impazzano i Sex Pistols, i Queen se
ne escono con News of the World: il disco per intendersi, che contiene
We are the Champions. Laddove Johnny Rotten & co. erano diventati
l’essenza del nuovo, i Queen - racconta Primi - diventano il prototipo
del passato, con i Pistols che irridono a corona britannica e Mercury e
gli altri che presenziano al giubileo di Sua Maestà. Curioso impiccio
della storia, Freddie incontrerà Sed Vicious nello studio di
registrazione. «Ehi Freddie, sei riuscito finalmente a portare il
balletto alle masse?», chiede il punk. «Ah mister Ferocious, sto
cercando di fare del mio meglio, mio caro».
Fatto sta che esce
We are the Champions, il brano più potente e frainteso, che si butta
alle spalle l’opera in versione rock di Bohemian Rapsody, diventa
l’inno da stadio per definizione, per preparare poi il campo a tutte le
tante, successive trasformazioni dei Queen, dall’elettronica di Radio
Gaga al ritorno della classicità di Kind of Magic. Noi siamo i
campioni, cantavano i Queen: e quegli stupidi degli sportivi hanno
sempre pensato che fosse l’inno dei vincitori tronfi. «Tutti noi siamo
i campioni», spiegava Farookh da Zanzibar. Compresi i punk. In un modo
e nell’altro, campioni della liberazione, mio caro. Gli arrabbiatissimi
non avevano capito l’ironia del personaggio. Quella volta dalla sovrana
Freddie aveva dichiarato: «Io amo la regina, sono molto patriottico. La
amo, fa cose assolutamente oltraggiose»!
ROBERTO BRUNELLI
di
Il Manifesto