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33 ANNI

Post n°375 pubblicato il 06 Gennaio 2017 da aranciaamaraa
 

PIPPO FAVA

 

33 anni fa

muore da vero uomo

 

come oggi non se ne vedono più

 

Vi invito a rivedere l'ultima intervista a Enzo Biagi :

 

www.youtube.com/watch?v=2a89Km8mGi0

 


 

 
 
 

Cosa succederebbe?

Post n°374 pubblicato il 09 Aprile 2014 da aranciaamaraa

Ma se ci stancassimo di pagare le tasse

anche quei  pochi che ancora le paghiamo...

a forza di vedere in quanti non le pagano più....

a forza di essere presi in giro per come ancora ci sforziamo di  farlo.....

 

a forza di vedere come chi dovrebbe essere un esempio

e invece esempio non è.....

 

Cosa succederebbe allora?????

 
 
 

30 ANNI

Post n°373 pubblicato il 06 Gennaio 2014 da aranciaamaraa

Da Infiltrato.it :5 gennaio 1984, ore 21,30: il direttore della rivista I Siciliani, Pippo Fava, arriva con la sua Renault 5 in via dello Stadio, a Catania. Sta andando a prendere la nipote che recita a teatro. Non ebbe neanche il tempo di scendere dalla macchina, che venne freddato da cinque proiettili calibro 7.65, alla nuca. Pochi secondi e la sua vita finisce lì, in un’umida sera di gennaio. La sua etica, la sua volontà di verità, il suo impegno per svegliare le coscienze in un paese dalla mille protezioni e collusioni, avevano dato fastidio a molti. Era un intellettuale scomodo, come lo era stato fino al 9 maggio del 1978 Peppino Impastato.Ma chi era Giuseppe Fava e perchè venne ucciso? Nato nel 1925 a Palazzolo Acreide in provincia di Siracusa, nel 1940 si trasferisce a Siracusa per frequentare il ginnasio ed il liceo Gargallo, distinguendosi per i risultati eccellenti. Dopo gli studi liceali, frequenta Giurisprudenza presso l’università di Catania, però alla carriera d’avvocato preferì la professione del giornalista. Iniziò nella redazione del giornale Sport Sud a Catania. Dal 1951 al 1954 fu capocronista al Giornale d’Isola e, in seguito, al Corriere di Sicilia. Fu poi la volta dell’Espresso Sera, ove lavorò per oltre vent’anni, inviato speciale per il Tempo e corrispondente di Tutto Sport a Torino. Le sue inchieste vennero pubblicate in due volumi: Processo alla Sicilia (1970) e I Siciliani (1980).Fava non fu solo giornalista: era un artista eclettico e versatile, tanto da cimentarsi nella letteratura, il teatro, la pittura. Vinse premi, pubblicò romanzi,espose in alcune gallerie. Dal suo romanzo, Passione di Michel, Werner Schroeter trasse il film Palermo oder Wolfsbur, vincitore dell’Orso d’oro al festival di Berlino del 1980. Proprio nel medesimo anno, venne chiamato a dirigere Giornale del Sud, testata nata dalla volontà degli ambienti culturali-politici-imprenditoriali catanesi. Fava delineò immediatamente il profilo del quotidiano: inchieste, collusioni, complotti, lo scempio edilizio, l’ascesa dei potere mafiosi, la muta rassegnazione della gente onesta, di chi provava a combattere un sistema soffocante ogni luce e bagliore di riscatto. La redazione era composta da giovani cronisti inesperti e improvvisati, forse a voler sottolineare la piena libertà democratica, scardinando la visione del giornalista da salotto: Riccardo Orioles, il figlio Claudio, Michele Gambino, Antonio Roccuzzo, Elena Brancati. Tutti lo avrebbero seguito nelle successive esperienze. Fu in questo periodo che si riuscì a denunciare i traffici di Cosa Nostra, attiva soprattutto nello smercio della droga. Gli editori?? Nomi sconosciuti, ma che in realtà le inchieste rivelarono avere rapporti e contatti con i vari boss, in particolare Nitto Santapaola: Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Aleppo, Salvatore Costa. Subito le minacce, la censura, l’attentato, eseguito con un chilo di tritolo. La sua voce priva di inganno doveva essere messa a tacere per sempre. Giunse il licenziamento e la rivista, poco dopo, chiuse i battenti. Non si diede per vinto: nel 1982, con l’aiuto di quegli intrepidi ragazzi, fondò la cooperativa editoriale Radar, grazie alla quale pubblica un nuovo mensile: I Siciliani. Scarsi mezzi, pochissimi fondi, ma tantissime idee. Il territorio Siciliano era scosso da problemi sempre più gravi: le sue inchieste cominciarono ad intimorire l’ambiente politico e giornalistico. Il no alla base missilistica di Comiso, la distruzione selvaggia dell’ambiente e del paesaggio, le inchieste-denuncia sugli affari loschi di quattro imprenditori catanesi: Carmelo Costanzo, Gaetano Graci , Mario Rendo e Francesco Finocchiaro. Fava stava per scoperchiare una cupola di illegalità, che avrebbe toccato e coinvolto notabili e piani alti (e personaggi come Michele Sindona).Non si arrese mai, continuò ostinatamente a raccontare senza giri di parole il marcio di quella terra, simbolo dell’Italia tutta, dell’enorme potere, di misfatti nascosti, della scia di sangue, dell’omertà e del dolore. Fino a quel 5 gennaio. Nonostante i tentativi di insabbiamento, di calunnia, le clamorose dichiarazioni di onorevoli e sindaci dell’epoca, -secondo i quali la mafia non esisteva-, i suoi articoli, il suo coraggio non si sono spenti. La fondazione che porta il suo nome, lo ricorderà nel paese natio. Rai 3 trasmetterà in seconda serata il docu-film "I ragazzi di Pippo Fava" ,prodotto per la tv da Cyrano New Media per Raifiction e Raitre e patrocinato da Libera e dalla Regione Toscana. La sua frase più famosa: “ A che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?” racchiude il suo pensiero, la sua etica, le sue azioni. Di chi ha creduto nei giovani, nel sogno, nella speranza concretizzatasi in realtà, nei gesti silenziosi sebbene eversivi, nella bellezza della libertà, dell’onestà, della cultura,del diritto e della democrazia. Per bandire l’odio dai cuori, il rumore degli spari. Per salvare un futuro barattato, masticato, sputato. Con umiltà, conoscenza. Una vita che ha sfidato il potere, la violenza del dominio, logiche arcaiche e dannose, lesive della dignità umana. Dominando la paura, non piegando capo. Un uomo che ha provato a cambiare il corso degli eventi, pagando il prezzo più alto, senza indietreggiare. A chi resta, il monito più grande: cambiare la Storia, seguendo il fuoco della verità e della giustizia. Senza tentennamenti.

 
 
 

AVERCENE QUI DA NOI DI GENTE COSì......

Post n°372 pubblicato il 11 Novembre 2013 da aranciaamaraa

La felicità al potere. Intervista a José Mujicadi Riccardo Staglianò (Venerdì di Repubblica, 8 novembre 2013)«A dattamento rivoluzionario, come una seconda pelle». È lo slogan az- zurro sotto le ultime Nike da corsa, quelle con la tomaia di maglia, che brillano di "una luce radioattiva in una vetrina già parecchio scintillante. La contraddizione es- senziale tra sostantivo e aggettivo, che il marke- ting magicamente rappacifica, è solo l'inizio. Per- ché, prima di diventare il centro commerciale Punta Carretas, questa era il carcere di Punta Carretas. E al posto di sconfinati negozi, lindi e deumidificati, c'erano dei buchi neri che per pie- tosa convenzione chiamavano celle, tra le tante in cui l'attuale presidente della Repubblica O- rientale dell'Uruguay è stato inghiottito nei suoi quattordici anni di prigionia. Dieci in quasi totale isolamento. A volte in fondo a pozzi. Parlando con formiche e rane per non impazzire. Lascian- doci un rene, perché gli davano da bere col con-tagocce. E guadagnandoci una saggezza che gli fa dire, ricombinando Seneca con chissà quanti altri, che «chi non è felice con poco non sarà felice con niente». Lui, José «Pepe» Mujica, è felicissimo anche rinunciando al 90 per cento del suo stipendio presidenziale. E ha riadattato pezzi di teoria marxiana per spiegare perché il consumismo compulsivo, del tipo che si pratica dentro queste mura, è la schiavitù che molti hanno allegramente scelto di infliggersi. Le sue scarpe, per la cronaca, sono delle espadrillas color carta da zucchero, che con gli anni - più che invecchiate, d'antiquariato - hanno assunto la forma esatta dei suoi piedi. La via proletaria al costoso miracolo promesso dalle tecno-sneakers.Brevi note biografiche. Mujica nasce nel '35, da madre originaria della Liguria e padre col- tivatore. Ciclista promettente. Fa studi di agronomia e si appassiona a come ripartire (poli- ticamente) la terra in modo più equo. Dai primi anni Sessanta fa parte dei Tupamaros, un movimento di lotta armata che si muove sull'onda della rivoluzione cubana. Lo arrestano quattro volte. Gli mettono sei pallottole in corpo. Organizza la più massiccia evasione della storia, così almeno la raccontano i sudamericani, facendo uscire 106 persone grazie a un rocambolesco scavo di tunnel. Quando lo riacciuffano seppelliscono vivi lui e gli altri otto principali leader del movimento. Al primo passo falso dei compañeros fuori, uccideranno uno dei «nove ostaggi» dentro. Dopo tre anni gli consentono di ricevere libri. Lui chiede testi di matematica e Chacra, una rivista di agraria. Reni e vescica però non reggono. I me- dici prescrivono due litri d'acqua al giorno, i secondini gliene concedono una tazza.Sua madre gli porta un vaso da notte rosa, ultima spiaggia dell'emergenza liquidi. Beve la sua pipì. Quando nell'85 finisce la dittatura militare e li liberano lo brandisce come un tali- smano, pieno di margheritine. Dai diamanti non nasce niente. Dalle viscere della terra alla terra, visceralmente. Trova un appezzamento verde al Cerro, a una mezz'ora dalla capitale, con una casetta a un piano, col tetto di lamiera. Nel '95 è il primo ex tupamaro a essere e- letto in Parlamento. Poi diventa senatore. Poi ministro dell’Agricoltura. Infine, nel novem- bre 2009, presidente con il 52 per cento dei voti (slogan: «Un governo onesto. Un Paese di prima classe»). È cambiato tutto, tranne l'uomo. E la casa, di una cinquantina di metriquadrati, in cui vive con la moglie e che preferisce alla residenza presidenziale. È nel sog- giorno, davanti a un tavolinetto su cui è quasi impossibile prendere appunti tanto è angu- sto e stracolmo di carte e libri, che si svolge l'intervista.Roma-Montevideo, da quando non ci sono più voli diretti, è un'odissea lunga un giorno. Niente in confronto alla distanza siderale tra Montecitorio/Palazzo Chigi e Plaza Indepen- dencia. Dei novemila euro cui avrebbe diritto come appannaggio mensile, Mujica ne pren- de 900 e dà il resto in programmi di microcredito. Senza tanti bizantinismi, oltre il grovi- glio apparentemente indipanabile tra indennità fissa o variabile, diaria o rimborsi, che a- veva fatto alzare bandiera bianca alla commissione Giovannini: 9 parti al popolo, 1 parte per sé. Semplice. Con ancora negli orecchi le parole di Antonio Razzi, ex Responsabile poi Pdl, che commentando terrorizzato l'autoriduzione grillina disse che avrebbe significato «dormire in un sacco a pelo», gli faccio li domanda delle domande: «Perché lo fa?». Segue il capitolo principale del Mujica-pensiero: «La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L'alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere». Dal vangelo laico del presidente. Che poi aggiunge: «Lo spreco è funzionale all’accumulazione capitalista», che per essere alimentata «ha bisogno che compriamo di continuo, ci indebitiamo fino alla morte». Ma la vita dovrebbe essere un'altra cosa. Tipo mettere come fondamento la felicità, conseguenza di un comportamento morale. Eudai- monia dunque, non edonismo. Che altrimenti «se in 7 miliardi vivessimo tutti come il nor- damericano medio ci vorrebbero tre pianeti. Serve misura. E fare delle scelte».Lui un catalogo ce l'ha. E il vantaggio rispetto ai politici che conosciamo è che, quando par- la di ridurre la diseguaglianza economica, tendi a crederci. Perché non lo dice, lo fa. Po- trebbe stare nel castello, preferisce questa camera e cucina e dare il resto a chi non ha ne- anche quello. Nessun Letta o Alfano, dall’alto dei loro stipendi, riescono a suscitare altret- tanta fiducia. Perché la realtà mantiene un vantaggio sulle parole. Dalla tribuna della sua coerenza Mujica può ripetere dunque cose già dette, ma che acquistano un peso specifico diverso: «Se si dimezzassero i 2000 miliardi di dollari per spese militari si cancellerebbe la fame dal mondo. I mezzi ci sono, li spendiamo male». Oppure: «Si parla da 20 anni di To- bin Tax, sulle transazioni finanziarie? Per Wall Street cambierebbe poco, tantissimo invece per il welfare in crisi ovunque: perché non si fa?». Obama, per dire, lo ha incontrato e lo «rispetta molto», però pare che «conti più Bernanke che lui, più l'economia della politica. Ed è sbagliato». Anche papa Francesco ha conosciuto: «Un gran personaggio. Condividia- mo la sobrietà. Se lo lasciano fare potrebbe riportare la Chiesa a una vocazione più popola- re». Perché, all'osso, la differenza tra destra e sinistra è proprio che quest'ultima dovrebbe avere «come priorità la fratellanza, ridurre le differenze economiche, e quindi sociali» che per la destra sono invece buone e auspicabili. Sara mica socialista? «La sinistra, anche in Uruguay, la dividerei in tre fette: i nostalgici, che dicono le stesse cose di 50 anni fa, quelli totalmente in linea col mercato e infine quelli, come me, che ne riconoscono l'indispensabi- lità, ma lo criticano per migliorarlo. Perché io so bene che il capitalismo serve a produrre ricchezza, quindi tasse, buone per i servizi di cui anche i poveri si avvantaggiano. E so an- che, come non capivo invece qualche decennio fa, che non ha senso sacrificare una genera- zione promettendo la felicità per quella successiva. A quest'idea rivoluzionaria, che ha avu- to il sopravvento a Cuba e altrove, preferisco una via più gradualista che non perda di vista che la partita si deve vincere adesso, in questa vita».Non punta alla dittatura del proletariato. Ma a ridurre il tasso di abbandono scolastico che oggi si aggira sul 40 per cento. O ad ampliare il progetto One Laptop Per Child che ha giàdistribuito un milione di computer low cost ad altrettanti ragazzini. Vuole moltiplicare le cooperative di lavoratori, la sua terza via tra mercato e socialismo: «Uno è molto più felice se è il capo di se stesso. E abbiamo centinaia di esempi, come Envidrio, una vetreria gestita dagli ex dipendenti che va benissimo. Serve un cambiamento culturale per far questo, ma dà risultati duraturi. Non com'è successo nell'ex Unione sovietica, passata dallo statalismo agli oligarchi». La nostalgia non attacca sul compagno Mujica, lui scommette su un uma- nesimo nuovo. Che ha qualcosa della «decrescita felice» («Sì, ho letto Latouche, ma mi in- fluenzano di più i classici: i problemi dell'uomo sono da sempre gli stessi»), però preferen- do l'aggettivo al sostantivo. Così è andato in visita a Pechino per convincere i cinesi a co- struire un sistema ferroviario uruguayano finalmente decente. Ha aperto il cantiere per un porto in acque profonde a Rocha che potrebbe cambiare le rotte commerciali dell'intera re- gione. E le trivellazioni per possibili pozzi di petrolio sono un altro dei suoi progetti per far crescere un Paese che, come il fratello maggiore argentino, ha agganciato la ripresa alla lo- comotiva cinese esportando soya, grano, carta e carne nella fucina del mondo. Bisogna fare più soldi e ripartirli meglio. Perché «la politica è l'arte di organizzare il futuro, senza subir- lo come se fosse il terremoto».Non sorprende che l'orazione di Mujica al Summit Onu di Rio del giugno 2012 sia diventa- ta un classico («Il miglior discorso del mondo» titolano su YouTube), nello stesso pantheon di quelli di David Foster Wallace o Steve Jobs agli studenti. E quando dice che «la vita è breve, ci scappa dalle mani, e nessun bene materiale vale altrettanto: capire que- sto è fondamentale» all'ascoltatore avvertito scorre davanti il film della vita di questo Mandela sudamericano che, come il sudafricano, non ha sviluppato sentimenti di vendetta durante la sua tremenda prigionia. E anzi confida al biografo Miguel Ángel Campodónico che lo «disturbano quelli che fanno a gara col torturometro. È stata dura perché non sono stato abbastanza veloce, perciò mi acciuffarono. Ma la vita biologica è così piena di trappo- le tanto incommensurabili, tanto tragiche e dolorose che ciò che ho passato io in confronto è una pavada». Che, per quanto stupefacente, si traduce proprio con «sciocchezza». D'al- tronde il prigioniero della cella accanto Mauricio Rosencof, che mi ha raccontato una quantità di cose complimentose su Pepe («Solo chi non lo conosce e sorpreso dalla sua so- brietà», altra cosa dai loden di Monti), dovendo definire il suo decennio a Punta Carretas ha scelto il termine «interessante», per aggiungere subito che è contento di vedere prose- guire «il cammino di giustizia sociale per cui lottavano». Con limiti sin troppo evidenti - era lotta armata - la scuola dei Tupamaros sembra non aver partorito leader rancorosi. E- leuterio Fernández Huidobro, altro internato di Punta Carretas e oggi ministro della Dife- sa, della forza del presidente fornisce un riassunto assoluto: «Pepe pensa come Aristotele ma parla come Juan Pueblo»; il nostro Mario Rossi. Se Mario Rossi parlasse come Pasoli- ni.Tra gli «ostaggi» di allora qualcuno, come Julio Marenales, lo rimprovera di essersi am- morbidito («Le idee che aveva qualche anno fa le tiene, suppongo, nel congelatore»). Però poi riconosce che governare è altra cosa dalla guerriglia. E Frente Amplio, la coalizione nel- le cui file è stato eletto, è un nome che presuppone il compromesso. È famoso anche per questo, Mujica, per saper parlare con l’opposizione. «Si scusa in pubblico con gli insegnan- ti per aver detto, basandosi su dati sbagliati, che lavoravano poco» ricorda Alfredo Garcia, direttore del settimanale Voces e autore di un libro-intervista con il presidente: «È una co- sa che i politici non fanno mai». Lui, «l'uomo più senza cravatta dell’universo», come l’ha definito Josefina Licitra in uno stupendo articolo sulla rivista argentina Orsai, non ha pro- blemi di ego. È, dice un dirigente che ha a che fare con lui ogni giorno, un formidabile «lanciatore di palle»: «Lancia un'idea, guarda l'effetto che fa, ascolta le critiche, la migliora o la rimangia. Ha un'onestà intellettuale mai vista». Che traspare. Gli chiedo del progetto di legalizzare la marijuana, facendola gestire allo Stato a un dollaro ai grammo, che ha su- scitato apprensione nel Paese: «È un tentativo. Odio la droga, ma il narcotraffico è, se pos- sibile, ancora più pericoloso. La guerra fatta sin qui non ha funzionato. Proviamo questa strada e guardiamo come va». Ha già liberalizzato l'aborto, le nozze gay e fatto una leggeavanzatissima sulla donazione di organi. Piccolo Paese, grande laboratorio.Finita la lunga chiacchiera passiamo nella cucina delle dimensioni di quella d'uno studente fuorisede. Ci offre un rum venezuelano, con il ghiaccio che stacca sotto l'acqua del rubinet- to. Viene in mente Paolo Conte: «Ha la genialità di uno Schiaffino/ ma religiosamente tocca il pane/ e guarda le sue stelle uruguaiane. Ah, Sudamerica». Spesso a Natale lo in- vita a pranzo Juan Jose Balocco, imprenditore agricolo («Gli presto le mie celle frigorifere per metterci i gladioli che coltiva e regala agli amici»), ma soprattutto un vicino di casa cui chiede consigli su come potenziare il settore. Ci va con Lucia Topolansky, la compagna di sempre, ex guerrigliera e oggi terza carica del Paese. Una storia che ha resistito a tutto, comprese le rispettive prigionie. Sempre dalla biografia: «Dal momento che eravamo due che procedevano da soli, siamo finiti insieme». E ancora: «Quando uno si approssima ai cinquant'anni pensa che una compagna debba essere una buona cuoca. L'amore è fatto di molta amicizia, di cose che facilitano la convivenza». Sembra una notazione prosaica, che appanna la statura romantica dell'uomo. A me suona come l’ennesima cosa terribilmente sincera profferita da un sopravvissuto. Dà l'idea, chissà se è vero, di dire esattamente quel che pensa senza preoccuparsi delle conseguenze. D'altronde, quali conseguenze si devono temere a 78 anni? «Ma che carqjo di soldi deve accumulare uno alla mia età?» aveva sbot- tato, al cronista (inesorabilmente risucchiato nel campo gravitazionale nazionale, con i set- tantasette di Berlusconi) che insisteva sull'apparente mistero del suo francescanesimo. Non ha figli, questo aiuta. Ma non credo che nel suo caso farebbe troppa differenza.Perché romantico resta, eccome. Negli anni più bui, le memorie del sottosuolo, si era molto appassionato di antropologia: «Erano i tempi del socialismo scientifico, dell'ambizione di capire quale fosse il disco fisso dell'animale uomo. Che resta, essenzialmente, un animale utopico, nel senso che ha sempre bisogno di qualcosa in cui credere, perché se non ci si in- namora di qualcosa non ha senso alzarsi tutte le mattine e continuare a lottare». Ecco, lui nello sprofondo della cella, non ha mai smesso di essere innamorato della lotta contro l'in- giustizia sociale: «Sono uscito e ho ricominciato il giorno dopo». Lo dice senza enfasi, era la sua natura («Ogni anno che passa sento sempre più l'importanza del mio lato naturale rispetto a quello razionale»), l'innamoramento necessario di cui non riusciva a fare a me- no.Perciò deplora le passioni tristi, per oggetti del desiderio da quattro soldi. Tipo quelli deli- ziosi ma frivolissimi di cui va pazzo Monocle, il mensile di culto che l'ha laureato «miglior presidente del mondo». L'ennesimo paradosso. Dice: se sprecassimo meno (anche solo e- nergie) e ci concentrassimo su cose serie staremmo tutti meglio. Nella definizione di spreco rientrano senz'altro le scarpe da tennis che costano come la spesa mensile di un uruguaia- no medio. O le ultimissime meraviglie Apple apparecchiate nell'immacolato negozietto dentro Punta Carretas («Mujica? Non l'ho votato, sono di destra. Ma è uno onesto» conce- de una commessa). È anche immune da un'altra dipendenza che affligge da sempre i politi- ci sudamericani: «il virus della rielezione». Tra un anno si vota, gol a porta vuota, ma ha annunciato che non correrà. Vuole aprire una scuola di agraria. La terra, è sempre lì che ri- torna. A coltivare i gladioli e gli altri amori, mate, tango e Micaela, la cagnetta a tre zampe. Un politico dalla schiena diritta che non ha affatto paura di chinarla.“Il venerdì” di Repubblica, 8 novembre 2013

 
 
 

Quirinal parto, l’editoriale di Marco Travaglio

Post n°371 pubblicato il 16 Agosto 2013 da aranciaamaraa

Quirinal parto, l’editoriale di Marco TravaglioIn attesa che i luminari a ciò preposti, con lenti di ingrandimento e occhiali a raggi infrarossi, ci diano l’interpretazione autentica del Supermonito serale del presidente della Repubblica e dell’incunabolo che lo contiene, una cosa è chiara fin da subito: il fatto stesso che sia stato emesso già dimostra che Silvio Berlusconi non è un cittadino uguale agli altri. Mai, infatti, in tutta la storia repubblicana e pure monarchica, un capo dello Stato – re o presidente della Repubblica – era mai intervenuto su una condanna definitiva di Cassazione per pregare il neopregiudicato di restare fedele al governo, facendogli balenare in cambio la grazia e garantendogli che non finirà comunque in galera. Intanto perché spetta al giudice di sorveglianza, e non a Napolitano, applicare al caso concreto la legge svuota-carceri del 2010: fino alla condanna di Sallusti, infatti, chi doveva scontare fino a 1 anno di pena (totale o residua) finiva dentro e di lì chiedeva gli arresti domiciliari; dopo invece, per salvare Sallusti, il procuratore capo di Milano decise che la pena viene comunque sospesa e si tramuta automaticamente in domicilio coatto. Ma l’ultima parola appunto spetta al giudice, non al Quirinale. Il fatto poi che la grazia, per ottenerla, uno debba almeno fare lo sforzo di chiederla dopo aver riconosciuto la sentenza di condanna (“prenderne atto” è perfino poco), è noto e arcinoto alla luce della sentenza della Consulta 200/2006: quella che diede ragione a Ciampi nel conflitto col ministro Castelli per la grazia a Bompressi. Solo che quella sentenza dice ben più di quel che Napolitano le fa dire: afferma che la grazia può essere motivata solo con “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, mai “politiche”. Se fosse un atto politico, richiederebbe il consenso e la controfirma del governo, visto che per gli atti politici il Presidente è irresponsabile. Ma siccome la grazia deve rispondere a una “ratio umanitaria ed equitativa” per “attenuare l’applicazione della legge penale” quando “confligge con il più alto sentimento della giustizia sostanziale” e per “mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio… garantendo soprattutto il ‘senso di umanità’ cui devono ispirarsi tutte le pene… non senza trascurare il profilo di ‘rieducazione’ proprio della pena”, essa “esula da ogni valutazione di natura politica” ed è “naturale” attribuirla in esclusiva al Colle. E qui Napolitano si dà la zappa sui piedi, quando dice che il condannato in carcere non ci andrà, dunque non c’è alcuna detenzione disumana da “mitigare”. Infatti rivendica il potere di graziare B. per motivi tutti politici (la sopravvivenza del governo, la condanna di un ex presidente del Consiglio): proprio quelli esclusi dalla Consulta, che verrebbe platealmente calpestata da una grazia a B.. Se poi, come scrive, la grazia non gliel’ha chiesta nessuno, non si capisce a chi Napolitano risponda, e perché. Non una parola, poi, sulla gravità del reato di B: la frode fiscale. Né sui vergognosi attacchi ai giudici. Né sui 5 procedimenti in cui è ancora imputato: che si fa, lo si grazia una volta all’anno per tenerlo artificialmente a piede libero? La grazia seriale multiuso non s’è mai vista neppure nello Zimbabwe, ma dobbiamo prepararci a tutto. Nell’attesa, resta lo spettacolo grottesco e avvilente del Quirinale trasformato per due settimane in un reparto di ostetricia geriatrica, con un viavai di giuristi di corte e politici da riporto travestiti da levatrici con forcipi, bende, catini d’acqua calda, codici e pandette, curvi sull’anziano puerpero per agevolare il parto di salvacondotti, agibilità e altri papocchi impunitari ad personam per rendere provvisoria una sentenza definitiva e cancellare una legge dello Stato (la Severino su incandidabilità e decadenza dei condannati). Ieri sera, al termine di una lunga attesa che manco per il principino George, il partoriente ha scodellato un mostriciattolo che copre ancora una volta l’Italia di vergogna e ridicolo. Ma è solo l’inizio: coraggio, il peggio deve ancora venireMarco Travaglio sul Fatto Quotidiano

 
 
 

da: IL VENERDI' DI REPUBBLICA

Post n°370 pubblicato il 30 Giugno 2013 da aranciaamaraa

IL MISTERO DI SPATUZZAdi Enrico DeaglioPalermo. L'11 giugno scorso, nell'aula bunker del carcere di Rebibbia a Roma, è successo un fatto importante nella storia della lotta alla mafia; e nello stesso tempo piuttosto sgradevole per chi ha a cuore verità e trasparenza: ovvero noi (quasi) tutti. Purtroppo, però, sull'avvenimento è subito sceso un mantello di silenzio.Argomento, le stragi di mafia di ventuno anni fa. Processo Borsellino, detto quater, perché i primi tre erano solo riusciti nella formidabile impresa di depistare la verità e condannare all'ergastolo sette innocenti. Dopoché, nel 2009, il famoso pentito Spatuzza si accusò della strage e fece crollare tutto il castello di carte; i sette innocenti (ridotti a povera cosa) sono stati liberati ed è cominciato il quater. L'11 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito.Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un "incidente". L'avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, quello che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L'avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D'Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. "Non ricordo". Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all'allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l'attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo.Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell'avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L'avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo. La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette. Che peccato, vero?Piccolo briefing su Gaspare Spatuzza. È un killer di Cosa Nostra al servizio dei fratelli Graviano del quartiere Brancaccio di Palermo, fedele ai suoi padrini come lo era il terribile Luca Brasi a don Vito Corleone. Ha ammazzato padre Puglisi, ha rapito il piccolo Di Matteo, ha sciolto nell'acido decine di cadaveri. Arrestato il 2 luglio del 1997 a Palermo (una soffiata la mattina, un'operazione militare della Squadra Mobile a mezzogiorno, ovvero una giornata inconsueta per uno Spatuzza che a Palermo la faceva da padrone, e che invece si vede addirittura sparare addosso dai poliziotti), viene messo al 41 bis da cui ricompare, folgorato dalla Fede e immerso nella Grazia del Signore, undici anni dopo. Ci dicono che è pentito, studia le vite dei Santi, ha capito i suoi misfatti, chiede perdono, vuole espiare. Si è detto anche che il suo pentimento sia il vero miracolo di don Puglisi, recentemente nominato Beato.Spatuzza la sa ma- le- detta-mente lunga sulle stragi del 1992-1993, perché c'è la sua mano sia a Palermo, che a Milano, che a Roma. In particolare, spiega ai giudici di Caltanissetta che quel ragazzo che hanno accusato per la strage di via D'Amelio, Vincenzo Scarantino (uno psicolabile) che ha convinto schiere di magistrati addirittura in nove processi, non c'entra assolutamente nulla. Poi Spatuzza racconta che i Graviano hanno messo le bombe per fare un piacere a Berlusconi, ma - mannaggia! - non ha le prove (il governo Berlusconi, in attesa della deposizione di Spatuzza, pare appeso a un filo). Tutto ciò si svolge tra il 2008 e il 2010.Alla luce di quel dimenticato documento, oggi si scopre che la storia di Spatuzza non è andata proprio così. E che, addirittura nel 1998, la Procura Nazionale Antimafia sapeva tutto quello che, con grande stupore, noi cittadini abbiamo appreso dieci anni dopo.Il terribile Gaspare Spatuzza, infatti, cominciò a parlare appena messo in galera. Colloqui riservati, promesse e una vera e propria trattativa con la Dna di Pierluigi Vigna. Il 26 giugno 1998, nel carcere de L'Aquila dove Spatuzza è stato trasferito su sua richiesta, Vigna e Grasso parlano con lui di possibili arresti domiciliari, del trattamento della sua famiglia e dei tempi della sua collaborazione. Ma intanto lo sondano per sapere quanto è disposto a dire. E Spatuzza ne dice di tutti i colori. Dettagli sull'attentato a Costanzo (il presentatore e Maria De Filippi devono la vita al fatto che i due mafiosi incaricati si azzuffarono su chi dovesse azionare il telecomando), su Firenze (l'obiettivo venne scelto consultando la rivista Leonardo, in pole position c'era anche Ponte Vecchio), su Milano (sbagliarono a posteggiare la macchina e così arrivarono i Vigili del fuoco). Non solo: Spatuzza rivelò già allora il progetto di un'ecatombe di carabinieri allo stadio Olimpico, rivelò che l'esplosivo per Capaci non veniva dalla ex Jugoslavia, ma da residuati bellici raccolti in mare da pescatori ( "ce n'è da far esplodere tutta l'Italia"), rivendicò un attentato alla caserma dei carabinieri a Gravina di Catania (che nessuno aveva attribuito a Cosa Nostra) e altri attentati in Calabria, raccontò invece che altri gruppi, a lui sconosciuti, fecero un attentato contro una "sede americana" a Roma, e che depositarono una bomba su un treno a Genova.Parlò, soprattutto, della strategia politica dietro le bombe: i Graviano avevano agito per un patto stipulato con Dell'Utri e per suo tramite con Berlusconi. Ma poi i due fratelli vennero arrestati, a Milano dove erano andati per colloqui (gennaio 1994, i giorni della "discesa in campo"), e dopo il loro arresto "il contatto si chiude", la gestione passa in mano al cognato di Riina, Bagarella.Deve essere stato un colloquio indimenticabile per i due magistrati. Non avevano davanti il solito pentito di mezza tacca, ma un super killer con le mani ancora bagnate di sangue, protagonista della stagione delle stragi, con cui trattare una collaborazione piena sul più grande mistero della storia d'Italia. Certo bisogna verificare, controllare, riscontrare; ma i due magistrati sono colpiti dalla quantità di cose che Spatuzza rivela. Era una storia, la Storia, come nessuno l'aveva mai detta prima. Vigna, Grasso lasciano Spatuzza con l'intesa di rivedersi, gli chiedono anche se può adoperarsi per far collaborare i Graviano stessi, ma Spatuzza si rifiuta di firmare il verbale. È la sua parte nella trattativa.Non sappiamo molto altro, se non che passano quindici anni prima che quegli 82 fogli diventino pubblici, accolti - chissà perché - con ostilità dalle toghe di Caltanissetta. (È possibile, però, che ne risentiremo parlare, perché potrebbe essere chiamato a testimoniare al Borsellino quater l'ufficiale giudiziario Filippo Spalletta, che trascrisse il nastro del colloquio - importante per le nuances dell'eloquio, ottima base per una futura trasmissione di Michele Santoro - e, naturalmente, il presidente del Senato Piero Grasso).Ma torniamo al secolo scorso. Nel 1998 Spatuzza si dimostra straordinariamente informato sulla strage di via D'Amelio. Lo fa capire senza nemmeno tanti giri di parole a Vigna e Grasso, indicando macchina, officina, targhe, esplosivi utilizzati per imbottire la famosa Fiat 126.Di fronte a queste notizie, Vigna e Grasso devono essere sobbalzati, perché la verità ufficiale era completamente diversa. Infatti, per merito del più brillante investigatore della polizia, Arnaldo La Barbera (diventato per questo Prefetto), il delitto Borsellino era stato risolto a tempi di record. Tre ragazzi del misero quartiere della Guadagna a Palermo avevano organizzato il tutto. Uno di loro, Vincenzo Scarantino, sotto l'apparenza dello scemo di borgata era in realtà un "uomo d'onore coperto", cui i boss Salvatore Riina e Pietro Aglieri avevano affidato l'esecuzione del piano.Ma ora Vigna e Grasso avevano davanti il possibile vero autore che tranquillamente di Scarantino diceva, secondo la trascrizione: "Lui è a Pianosa perché ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare e ci ficiru diri chiddu ca nu avia a diri. Toto La Barbera". E subito dopo definiva lui e gli altri due, "una cordata di pentiti".Come biglietto da visita, niente male. Gaspare Spatuzza la sapeva veramente lunga. Ma chi era Toto La Barbera? Il super investigatore, morto nel 2001, si chiamava Arnaldo. Tra i suoi sottoposti c'era un certo Salvatore La Barbera che oggi dirige il compartimento della Polizia Postale della Lombardia. Spatuzza si riferiva a lui? Non sappiamo.Voi adesso vorreste sapere che uso fece la Dna di Vigna e Grasso di questa informazione.La comunicarono a Caltanissetta, dove c'era l'inchiesta? Informarono i colleghi nisseni che esisteva una "versione Spatuzza" del delitto? Venne chiamato a rapporto il prefetto La Barbera? Non si sa. Però si sa che pochi mesi dopo quel colloquio, Scarantino si presentò in aula a Como e denunciò di essere stato torturato a Pianosa ("da 110 chili sono sceso a 60"), e di non sapere proprio nulla della strage. Ma i magistrati di Caltanissetta spiegarono che Scarantino ritrattava perché Cosa Nostra lo minacciava e che proprio quella ritrattazione era la prova della sua veridicità; quindi, visto che aveva accusato magistrati e poliziotti, gli appiopparono per direttissima sei anni per calunnia.L'ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nell'avallare una pista falsa è una delle cose che in questa vicenda continuano a colpire. Fin dal suo arresto, nessuno credeva che l'attentato potesse essere stato fatto da una nullità come Scarantino. Non ci credevano i pm di Palermo, non ci credevano i giornalisti. Nel 1994, sia Ilda Boccassini che Roberto Sajeva, due magistrati che seguivano il caso, scrissero a chiare lettere che i verbali di Scarantino erano stati ottenuti illegalmente. I grandi boss pentiti, da Cangemi a Brusca, misero in guardia i magistrati, come dei padri di famiglia: "Fate attenzione, è una trappola". Ora, come abbiamo visto, addirittura la DNA sapeva. Perché dunque si ostinarono, contro ogni logica? Perché ancora adesso sembrano avere perso la memoria di quanto successe?Che strana storia, in cui un mafioso ha parlato dieci anni prima del suo pentimento ufficiale e i magistrati invece sembrano legati, a vent'anni di distanza, a qualcosa che assomiglia all'omertà. Che strana storia, quella in cui il più valente sbirro italiano favorisce gli autori della strage costruendo una falsa pista che regge ben quindici anni e impedisce che si indaghi sui reali autori del delitto. Perché? Solo per fare carriera?Problemi per uno studente di Giurisprudenza: un magistrato che avalla il falso in un delitto di mafia, può essere accusato di favoreggiamento alla mafia? Un magistrato che viene a conoscenza di una verità su un delitto di mafia, commette un reato se non la comunica a chi di dovere?Come i lettori sanno, di quello che successe in quei terribili anni 1992-1993, le poche verità raggiunte sono state sostituite da una nessuna verità, sostituita da sospetti e accuse reciproche, con processi in corso tanto teatrali quanto macchinosi e destinati al nulla, se non agli scoppiettii dei media e a qualche ricatto politico. Carabinieri, ministri, giudici, servizi segreti, uomini politici sono accusati della "trattativa", una parola dietro cui ormai si immagazzina praticamente tutto.E se anche questo falso pentito (Scarantino) e questo antico confidente (Spatuzza) fossero parte di una trattativa? E se anche chi oggi indaga ne fosse stato più o meno consapevole tassello?Tra poco saranno ventuno anni dalla uccisione di Paolo Borsellino. Nessuno sa dire chi l'ha ucciso; chi ha ordinato di ucciderlo; perché è stato ucciso.Ma è spaventoso quanto faccia ancora paura la verità sulla sua morte.

 
 
 

IL CAMMINO DELLA SPERANZA

Post n°369 pubblicato il 07 Aprile 2013 da aranciaamaraa

DI STE'FANE HESSEL e EDGAR MORIN (chiarelettere)Robadaricchi:Basta con gli interessi personali, l'egoismo e l'appiattirsi a queste logiche imperanti. Oggi occorre la Rivoluzione! Ma chi scrive queste cose? Un giovane? No. E' opera di due novantenni, che danno la "paga" a molti giovani. Sveglia ragazzi, e fuori a correre nelle strade per "cambiare il mondo"...o almeno provarciIceman:Un libro che si lascia leggere tutto d'un fiato. Leggero ma allo stesso tempo serissimo, sorprende positivamente per il contenuto che mette alla prova tutti i giovani d'oggi. Un grido di battaglia: ragazzi sveglia, e tutti fuori a fare la Rivoluzione!!Hayden:Etica della politica, etica degli affari. Cosa quantomai scomparsa dalla nostra vita. Ogni giorno ne abbiamo conferma osservando disgustati il "teatrino" della politica; e altrettanto disgustati apprendiamo il marcio che sta ai vertici delle "poltrone" degli apparati finanziari che reggono il potere economico. Da leggere.

 
 
 

IL BENE CONVIENE di Ervin Laszlo

Post n°368 pubblicato il 10 Febbraio 2013 da aranciaamaraa

http://www.ideasolidale.org/UploadedFiles/ilbene.pdf

 
 
 

SENZA SOCIETA' CIVILE LA MAFIA NON SI BATTE

Post n°367 pubblicato il 06 Dicembre 2012 da aranciaamaraa

di Antonio Ingroia - 4 dicembre 2012Al mio secondo mese in Guatemala, credo di aver capito una cosa già imparata in Sicilia. E cioè che nessun’azione di contrasto contro qualsiasi forma di potere mafioso può vincere senza il sostegno della società civile.È una verità incontestabile di cui non vi è sufficiente consapevolezza, né in Italia, né altrove. Quando nel nostro Paese questa consapevolezza è penetrata nelle istituzioni, almeno in alcune, quanto meno in alcuni uomini delle istituzioni che vedevano la realtà meglio degli altri, e che non avevano paura di vedere quello che altri non volevano vedere, ebbene, proprio in quel momento, le cose che sembravano immutabili sono cambiate.Così è successo con la mafia. Quando Falcone rievocava con nostalgia il momento in cui la gente “faceva il tifo” per i giudici, alla base della sua considerazione non vi era ovviamente la ricerca di sostegno popolare alle sue indagini. Non cercava sentenze di condanna a furor di popolo. Ma sapeva essere impossibile prescindere dalla società civile. Sapeva che senza il suo appoggio non ci sarebbe stato neanche il maxi-processo, il primo che aveva davvero intaccato l’atavico mito dell’impunità dei mafiosi. Perché il maxi-processo fu consentito dall'introduzione dell'art. 416 bis del codice pena-le, avvenuta nel 1982 sotto la spinta del movimento antimafia spontaneamente sorto e irrobustitosi sull'onda dell'emozione che si diffuse a seguito della terribile stagione di delitti culminata con l'omicidio del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.Ovvio che su questo crinale si gioca anche la delicata questione dei rapporti fra magistrato e comunicazione con la società, anche mediante l'uso dei mezzi di comunicazione di massa, giornali e Tv. Crinale sul quale bisogna evitare che la sollecitazione della società civile possa apparire la molla, l'obiettivo occulto dell'attività giudiziaria, invece che il suo necessario supporto. Il che dipende, in pari misura, dal senso di responsabilità e di misura del singolo magistrato nel governare l'esposizione mediatica dell'indagine, ma anche dal senso di responsabilità degli operatori dell’informazione a scongiurare enfatizzazioni gridate e gratuite. In ogni caso rimane la considerazione di partenza. Senza la società civile non si può vincere nessuna battaglia contro i poteri criminali. L'esperienza di Paesi come il Guatemala e il Messico ne è una riprova, laddove si è dimostrato come la mera e brutale repressione, magari affidata all'esercito, non ottiene risultati accettabili. Anzi, risulta controproducente, soprattutto perché certe, conseguenti, violazioni dei diritti umani determinano l'ampliarsi e l’irrobustirsi della rete di complicità di cui godono i narcotrafficanti.Che fare allora per sollecitare l'appoggio della società civile? Bisogna meritarselo. E per meritarselo occorrono innanzitutto comportamenti virtuosi. Proprio l'assenza di comportamenti virtuosi ha creato la dilagante crisi di fiducia nelle istituzioni che in Guatemala ha indotto l’Onu a costituire un organismo ad hoc per sostenere la giustizia locale anche attraverso una costante relazione con la società civile. Così come è l'assenza di questi comportamenti virtuosi in Italia, anzi il susseguirsi per accumulazione di comportamenti sempre più immorali e illeciti del ceto politico del nostro Paese, ad avere determinato quella progressiva disaffezione di così tanti italiani nei confronti della politica, che ammala la nostra democrazia. Il che dimostra che il Paese non ha bisogno di antipolitica, ma di buona politica, che però paradossalmente non può venire dalla politica odierna, di partiti ancora in crisi. Può venire soprattutto dalle energie migliori della società civile che quei comportamenti virtuosi ha prodotto in questi anni sul terreno della legalità, della trasparenza e dei diritti. Occorre un'assunzione di responsabilità da parte di quella società civile. Una società civile che sappia cambiare, rivoluzionare il mondo asfittico della politica italiana.Tratto da: Il Fatto Quotidiano

 
 
 

MALALA YOUSUFZAI

Post n°366 pubblicato il 13 Novembre 2012 da aranciaamaraa

E’ stata lanciata ieri la campagna italiana per la candidatura al Premio Nobel per la Pace di Malala Yousufzai, la ragazza pakistana di 15 anni che lo scorso 9 ottobre è stata gravemente ferita da un colpo di pistola alla testa per aver difeso il diritto allo studio delle ragazze nel suo paese. La petizione richiede ai leader dei maggiori partiti presenti nel Parlamento Italiano – che hanno la possibilità di presentare candidature per il Nobel – di sostenere Malala.

 
 
 

Da LEGGERE.....

Post n°365 pubblicato il 02 Settembre 2012 da aranciaamaraa

«L'ESPRESSO« ONLINE.Numero 35 del 2012.OPINIONIAVVISO AI NAVIGANTI. Ma non basta colpire i patrimoni, di Massimo Riva.è una misura necessaria però non sufficiente. Bisogna anche intervenire suquei meccanismi finanziari che hanno permesso a poche persone di lucrareguadagni incredibiliL'aumento delle disuguaglianze economiche è uno degli effetti piÙmacroscopici della crisi finanziaria che sta scuotendo il mondo da ormaicinque anni. Si accentuano le distanze fra paesi poveri e paesi ricchi, maanche all'interno di questi ultimi è prepotente il fenomeno dellaconcentrazione delle risorse nelle mani di una fascia sempre piÙ ristrettadi cittadini. Non è per caso, quindi, che il primo movimento dicontestazione a questo stato di cose sia sorto negli Stati Unitiautoproclamandosi alfiere del 99 per cento della popolazione in lotta controgli enormi privilegi accumulati dal restante 1 per cento degli americani. Edè altrettanto significativo che proprio quello del trattamento fiscale dellaricchezza sia diventato il tema cruciale dello scontro fra democratici erepubblicani nella campagna elettorale per il rinnovo della presidenza Usa.Anche in Europa, del resto, il nodo dell'iniquità distributiva dei redditi èal centro del dibattito politico in piÙ di un paese. In qualcuno addiritturaè già diventato oggetto di azioni governative: come la Francia dove ilneo-presidente Hollande ha deciso di portare al 75 per cento il prelievo peri redditi superiori al milione di euro. Salvo la destra americana piÙottusa, insomma, nessuno crede piÙ ai miracolosi effetti della «curva diLaffer« secondo cui lasciare piÙ soldi in mano ai contribuenti piÙ ricchiserve a stimolare da parte loro nuovi investimenti col favoloso esito diottenere maggiore benessere per tutti.Sta tornando, piuttosto, d'attualità la lezione di un acuto pastore inglesedi un paio di secoli fa. Quel Thomas Malthus che, con la sua teoria degliingorghi, individuò nella concentrazione della ricchezza in poche mani unacausa primaria di caduta della crescita economica complessiva. Secondo lasua analisi, infatti, gli eccessi di accumulo di denaro tendonoinesorabilmente verso la speculazione finanziaria piuttosto che versoimpieghi nell'economia reale. Mentre il conseguente impoverimento dellarestante popolazione innesca una spirale discendente della domanda globaleche porta dapprima alla stagnazione e poi alla depressione.è il caso di sottolineare che proprio le turbolente vicende degli ultimianni sembrano voler dare tardiva ma esemplare conferma pragmatica alla bontàdelle intuizioni del misconosciuto Malthus. Cominciata con tracolli bancaridovuti ad eccessi di speculazione finanziaria, la crisi ha poi accentuatogli squilibri nella distribuzione dei redditi per condurre infine a unacontrazione della domanda ovvero dei consumi che, a sua volta, staprovocando una frenata delle attività produttive unita a maggiori difficoltànel finanziamento dei bilanci pubblici.Spezzare questo processo involutivo con il ricorso all'arma del fisco è unpassaggio necessario. Anche perchè il mantenimento di privilegi a favore diuna minoranza, che già gode di enormi vantaggi, è un insulto all'equità fracittadini e può diventare fattore di disgregazione sociale.Ma nessuno può illudersi di uscire dall'ingorgo economico presente soltantobrandendo le forbici fiscali sui redditi piÙ elevati. La lezione di Malthusindica un obiettivo piÙ importante e risolutivo.Va bene tassare di piÙ i grandi ricchi vuoi nei redditi vuoi nei patrimoni,ma il problema cruciale sta nei modi e nei processi che consentono questastraordinaria accumulazione di ricchezze da parte di minoranze così minute.E ciò perchè la deleteria finanziarizzazione dell'economia che ha portato aiguai presenti non nasce solo dalla clemenza fiscale di molti governi verso icittadini piÙ doviziosi. Essa ha le sue radici soprattutto nella benevolanegligenza con la quale gli Stati hanno abbandonato a se stessi i mercatifinanziari. In particolare, lasciandoli liberi di moltiplicare a dismisuraquelle posizioni di conflitto d'interesse su cui pochi privilegiati,appunto, hanno lucrato margini di guadagno altrimenti impensabili. Se non sichiude questa stalla, sarà vano inseguire i buoi con gli sceriffi del fisco.

 
 
 

Roberto Scarpinato DA MICROMEGA

Post n°364 pubblicato il 12 Agosto 2012 da aranciaamaraa

"I don Rodrigo dello Stato cominciano ad avere paura. Sanno che uno di questi giorni alla loro porta busserà il vero Stato, quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte". Pubblichiamo il testo della lettera a Paolo Borsellino letta pubblicamente dal Procuratore generale di Caltanissetta in occasione del ventennale in via D'Amelio. Per queste parole il Csm ha aperto un'azione disciplinare contro il magistrato.di Roberto ScarpinatoCaro Paolo,oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà. E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi. Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza.Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti. Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti.Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti:“Lo Stato non si presenta con la faccia pulita... Che cosa si è fatto per dare allo Stato... una immagine credibile?... La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti:“No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle Forze dell’Ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione. Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato.Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari.Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “Lo Stato siamo noi”.Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori.Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.Parlando di Giovanni dicesti: “perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato...”Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni. Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “…la morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.Missione doppiamente compiuta, Paolo.Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso.E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava - come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime - che tutto fosse ormai finito.Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita.Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri. Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi.Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suo rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo. Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico.Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.Si racconta che la mafia è costituta solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano.Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni.Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti.E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti. Per questo dicesti a tua moglie Agnese:“Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito. Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura.Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati.Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo.Sanno che riusciremo a scoprire la verità.Sanno che uno di questi giorni alla porta dei loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.

 
 
 

FUKUYAMA=LA STORIA CONTINUA (da l' ESPRESSO)

Post n°363 pubblicato il 30 Giugno 2012 da aranciaamaraa

La storia non è finita con la caduta del Muro di Berlino e la rivoluzione liberale a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, contrariamente a quanto pensassero i numerosi lettori del suo più celebre libro. Francis Fukuyama, politologo americano, oggi in forza alla Stanford University in California, in questa intervista spiega invece quanto quella rivoluzione abbia finito per divorare i propri figli e ipotizza le vie d'uscita dell'attuale crisi: parlando dell'Occidente in trasformazione, ma anche della possibilità di una democrazia in Cina. Partiamo dalla crisi. Lei ha scritto ultimamente che occorre riportare l'equilibrio fra il mercato e lo Stato, equilibrio turbato dagli ultimi 25 anni di dominio assoluto del neoliberismo. Qual è il bilancio?

"Un bilancio positivo, ma non basta. Intanto, il mondo globale, aperto, che commercia ed è libero dai conflitti, di cui parlavano i teorici del neoliberismo è diventato realtà. Grazie a esso l'India e la Cina hanno fatto uscire dalla miseria centinaia di milioni di persone. Ma così come tutte le rivoluzioni, anche quella neoliberista ha finito per divorare i propri figli. Nel mondo finanziario si è giunti ai peggiori abusi. Abbiamo consentito che le banche crescessero troppo e non le abbiamo controllate. Il capitale finanziario si è comprato l'accesso alle decisioni politiche".

E' stato violato il principio del capitalismo, in base al quale per ogni rischio esiste un premio o una punizione?
"Sì. Dopo lo scoppio della crisi, e sto parlando del 2007-2008, il governo americano avrebbe dovuto nazionalizzare le maggiori banche, dividerle e venderle, e quindi porre dei limiti alla loro espansione, perché solo le banche minori possono rischiare senza compromettere la società nel suo insieme. Questo non è avvenuto perché le lobby finanziarie si sono dimostrate potenti persino in seno all'amministrazione democratica di Barack Obama".

Il divario fra ricchi e poveri, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è più profondo di quanto non sia mai stato.
"Infatti è la sperequazione dei redditi la base materiale della crisi. Negli Stati Uniti i guadagni della classe media si sono fermati negli anni Settanta, a causa della perdita di posti nelle fabbriche. E questo mentre un'enorme parte degli incassi dell'economia è andata ad arricchire i più abbienti. Così i governi, anche per mitigare il divario sociale che andava aumentando, hanno iniziato a finanziare le ipoteche sulle case, ma senza procedere a una ridistribuzione del reddito. In tal modo hanno consentito ai poveri di credere di essere in grado di comprarsi delle case, che in realtà non erano in grado di acquistare. In conseguenza è scoppiata la bolla. La crisi finanziaria dunque è un effetto del divario sociale".

Forse è colpa dell'economia di mercato.
"Non necessariamente. L'economia di mercato può e deve essere equa, basta agire nella maniera giusta. Mi spiego: il mercato crea vincitori e vinti. Ma questo fatto può essere equilibrato da principi come "un uomo un voto", oppure dal controllo democratico dei cittadini. Come è avvenuto durante le riforme del New Deal di Franklin Delano Roosevelt".

Pensiamo troppo poco al bene pubblico, alla solidarietà?
"Sì. Però ho una buona notizia. Stiamo uscendo dall'epoca neoliberista. Negli Stati Uniti il dibattito sulla disuguaglianza è cambiato. Quando il candidato Obama nel 2008 aveva parlato di ridistribuzione del reddito, McCain lo aveva attaccato dicendo che era lotta di classe, socialismo e cose simili. Ora la gente è cosciente di quanto lontano si sia spinta la sperequazione, e ciò è anche merito del movimento Occupy".

Che fare?
"Riabilitare l'idea di bene pubblico. Bisogna rendersi conto che non si tratta di un insieme di beni individuali e che la società non ne costituisce la somma, ma che è un concetto collettivo. Abbiamo bisogno di un nuovo progetto riformista, più credibile della socialdemocrazia e del Welfare tradizionali. E' necessario reinventare lo Stato".

"La forma classica dell'organizzazione economica era la fabbrica Ford degli inizi del XX secolo. Un'industria simile all'esercito. Gerarchia, burocrazia, regole. Il settore pubblico è rimasto fermo a questo modello rigido, mentre l'organizzazione aziendale è invece cambiata. Le aziende sono elastiche, basate su reti di rapporti, in grado di prendere decisioni veloci e rischiose. Ecco perché lo Stato deve modernizzarsi come lo hanno fatto le aziende. Ma attenzione: questo non significa ritirarsi dalla sfera pubblica".

In concreto?
"Faccio un esempio. La supremazia dei Paesi asiatici si basa sul fatto che danno maggiori responsabilità ai propri funzionari. Che sono meno ligi alle regole, possiedono migliori basi per la contrattazione e i concorsi, prendono decisioni in tempi più brevi. In Occidente abbiamo invece costruito troppe barriere. E poi abbiamo attribuito il diritto di veto ad alcuni attori della scena sociale, che non sono abbastanza forti da imporre qualcosa alle istituzioni pubbliche, ma sono abbastanza potenti da bloccarle. Così abbiamo la paralisi delle decisioni inerenti l'interesse pubblico generale. Lo Stato, ecco cosa significa la nuova socialdemocrazia, dovrebbe avere più capacità decisionale".

Ma se la gente è convinta che ognuno debba badare solo a se stesso?
"Ne ho parlato con il governatore della California Jerry Brown, un democratico riformatore. Deve riuscire a far fronte a un deficit enorme. Ma quando aveva cercato di tagliare i costi dell'amministrazione è stato denunciato dagli impiegati. Ha vinto il processo, ma solo dopo due anni. Ora la decisione è bloccata dalla Corte d'appello. E lui mi ha detto: volevo fare qualcosa nell'interesse pubblico, nell'interesse della parte più povera della società, ma non posso. Vede, il Golden Gate Bridge a San Francisco, uno dei grandi investimenti pubblici del New Deal, è stato costruito in due anni. Ora stanno costruendogli accanto una strada d'accesso. E i lavori durano già da sette anni: è il prezzo delle baruffe per le questioni ambientali. Sono i prodotti collaterali della politica progressista, che in apparenza garantisce la tutela dei più deboli e che in realtà finisce per danneggiarli".

E' la Cina è il futuro del mondo?
"Il modello cinese è così peculiare che non può venir applicato in nessun altro Paese. In Europa non si può copiare la burocrazia cinese. Nessuno in Africa o in Medio Oriente potrebbe imitare i mandarini cinesi. Ma anche in Cina questo modello finirà presto per estinguersi".

Perché?
"Fra cinque, dieci anni la Cina sarà un Paese diverso. Un'economia basata sull'export sostenuto da investimenti statali non può durare a lungo nel mondo di oggi. Se la situazione non cambia nei prossimi vent'anni la Cina non avrà dove trovare forze produttive. I cinesi non sono in grado di creare novità in maniera autonoma. Sono meravigliosi nel riprendere la tecnologia importata, ma chissà se sarebbero in grado di dar vita a una nuova Silicon Valley o alla rivoluzione biotecnologica".

I cinesi studiano però nelle migliori università del mondo.
"E investono nel sistema educativo, ma è un sistema difettoso. Funziona benissimo per imparare la matematica, l'alfabeto o le scienze esatte, ma manca l'elemento creativo, la messa in dubbio degli assiomi e delle autorità, la discussione aperta sui risultati. Le cose stanno ancora peggio per quanto riguarda il sistema politico. Il regime continua a basarsi sul marxismo-leninismo-maoismo, in cui non crede più nessuno, e si mantiene solo grazie all'efficienza economica".

Appunto. Finché i cinesi stanno bene perché dovrebbero ribellarsi contro il governo?
"Perché la modernizzazione della società crea una classe media colta e trasforma la politica. Lo scorso anno c'è stato un terribile incidente di un treno ad alta velocità. Il primo istinto del governo era stato di mettere tutto a tacere. Ma i cinesi sono riusciti a fare una serie di foto sul luogo dell'incidente e poi hanno messo tutto in Rete. Ciò ha costretto il governo a condurre un'inchiesta. E poi, l'ultimo scandalo riguardante Bo Xilai (membro dell'Ufficio Politico del Partito comunista, spiava il presidente; la moglie è sospettata di aver assassinato un businessman inglese, ndr.) ha mostrato che cosa sta succedendo ai vertici del potere. E' finito il mito secondo cui gli abusi si verificavano ai livelli più bassi, mentre in alto le autorità erano oneste. Se vuole mantenere la pace sociale, la Cina ha bisogno di istituzioni, di principi che limitino il potere dei governanti".

Il modello cinese può comunque sedurre l'America Latina o l'Africa.
"In America Latina la Cina non seduce nessuno. La democrazia liberale laggiù ha raggiunto dei risultati inaspettatamente buoni. Alcuni Paesi sono riusciti nel corso dell'ultimo decennio a ridurre le disuguaglianze sociali e a rafforzare la classe media. Quelli che non sono riusciti a farlo, come la Bolivia e il Venezuela, sono finiti sotto governi populisti, ma neanche per loro la Cina è un modello. Seguono piuttosto il miraggio del grande condottiero. In Africa, alcuni leader accettano con piacere soldi e investimenti cinesi, e vogliono un capitalismo controllato da uno Stato forte, ma non rincorrono il modello cinese, insediano invece dittature tipicamente africane. La Cina non è un prodotto da export".

Torniamo a parlare dell'Occidente. C'è molta incertezza. I giornali sono letti da sempre meno persone. I giovani, terminati gli studi, trovano solo lavori precari.
"Cominciamo dalla crisi dell'editoria. E trattiamola come se fosse un esempio. Una volta le case editrici stampavano i libri nelle tipografie, poi camion guidati da autisti li trasportavano nelle librerie dove venivano venduti dai librai. Adesso, grazie a iPad, si può avere un libro in un istante. E' più economico e veloce. Però abbiamo tagliato fuori l'autista, il tipografo, il venditore. Abbiamo privato insomma di lavoro una massa di gente di media cultura, e tutto il guadagno finisce nelle tasche di Amazon e all'autore. E' un male? Io dico che è un effetto del progresso tecnologico e non della politica liberista. La gente deve adeguarsi al nuovo e gli Stati devo aiutare i loro cittadini a imparare a maneggiare le nuove tecnologie e non difendere posti di lavoro che non sono più utili".

E chi deve assicurare questo processo? La scuola pubblica? Anche la scuola è in cattive acque.
"Sì, la scuola pubblica. E' lo strumento principale per consentire alla gente di imparare".

Lei ha scritto che compito della politica è soggiogare l'economia. I mercati globali sono una creazione degli uomini, e gli uomini possono addomesticarli. Ci sono dei segnali che ciò stia avvenendo?
"Probabilmente stiamo facendo ritorno alla socialdemocrazia. Negli Stati Uniti dopo la catastrofica politica estera e il crac economico dettati dal pensiero di destra stiamo forse oscillando verso una pratica social-liberale. Ma le idee non balzano fuori dalle teste e non prendono vita così, per magia. Devono farsi strada attraverso delle modifiche istituzionali, e le istituzioni vanno cambiate in maniera profonda. Questa è la mia principale preoccupazione".

traduzione di Laura Mincer

 
 
 

PAOLO FLORES D'ARCAIS

Post n°362 pubblicato il 25 Aprile 2012 da aranciaamaraa

La nostra non è affatto una democrazia rappresentativa. La metà degli italiani dichiara che alle prossime politiche non intende votare. Si sa per esperienza che in prossimità del voto questa percentuale finirà per ridursi, ma è molto probabile che un terzo (forse più) dei nostri concittadini nel 2013 diserti davvero le urne.Nel paese tutte le liste messe insieme raccoglieranno il 65 per cento dei voti, ma in Parlamento occuperanno il 100 per cento dei seggi (in realtà le liste minori resteranno escluse, dunque quel 100 per cento sarà appannaggio di un 60 per cento e anzi meno). Decine di milioni di cittadini non avranno rappresentanza, saranno stati di fatto ostracizzati dalle istituzioni. Si dirà: peggio per loro, se vogliono farsi rappresentare vadano a votare. Peccato che nel “mercato” della politica non trovino un “brand” in cui minimamente riconoscersi (anzi, come è noto, anche la maggioranza di quanti scelgono una lista riesce a votare solo grazie a previa anestesia olfattiva). E il sistema rende assolutamente ardua la creazione di nuovi “soggetti” con pari risorse e “chance”.Eppure, la possibilità di rendere davvero rappresentativa la democrazia c’è: se a votare vanno i due terzi degli aventi diritto, solo i due terzi dei seggi verranno distribuiti tra le liste in competizione: il restante terzo verrà assegnato per sorteggio tra i cittadini che non si sono recati alle urne. Il sorteggio è una modalità che vanta titoli ineccepibili di “nobiltà” democratica. Non solo era strumento essenziale nella democrazia ateniese, ma oggi negli Stati Uniti sono cittadini estratti a sorte quelli che, in rappresentanza dell’intero popolo, condannano a morte un innocente o mandano libero un criminale efferato (anche l’inverso, ovviamente): potere non meno rilevante che promulgare una legge, si direbbe. Del resto, sondaggi assolutamente accurati si basano ormai su un campione di mille persone per cinquanta milioni, la rappresentatività effettiva per sorteggio potrebbe essere di caratura perfino superiore a quella del voto a narici occluse. I partiti non accetteranno mai? Ovviamente.A loro l’astensionismo va benissimo, se non intacca la percentuale delle “cadreghe” da occupare in Parlamento. Ma – proprio per questo motivo – un movimento di opinione può fare di questa riforma un suo convinto cavallo di battaglia. Poco più di un secolo fa, anche il suffragio universale sembrava assurdo o utopistico, ma un “estremista” della Realpolitik come Max Weber ha già ricordato che “il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.Il Fatto Qutotidiano, 24 Aprile 2012

 
 
 

DAL BLOG DI BEPPE GRILLO

Post n°361 pubblicato il 12 Aprile 2012 da aranciaamaraa
 
Tag: TASSE

"Le tasse sono bellissime". Lo disse Padoa Schioppa. Io però aggiungerei: "Dipende dall'uso che se ne fa!". Le tasse per comprare cacciabombardieri, per finanziare finte missioni di pace in Iraq e in Afghanistan, per i rimborsi elettorali di un miliardo di euro ai partiti, per le centinaia di milioni di contributi ai giornali? Per i vitalizi dei parlamentari ottenuti dopo una legislatura, per tenere in piedi le Province, per i costi da monarchia rinascimentale del Quirinale, per le Grandi Opere Inutili come la Tav, la Gronda o Expo 2015? Per i maxi emolumenti dei parlamentari, dei consiglieri regionali e provinciali, per le doppie triple pensioni, per centinaia di migliaia di auto blu? Potrei continuare per ore.Fino ad oggi c'è stato un patto tacito con lo Stato. Io pago e tu in cambio mi eroghi dei servizi. Il contribuente non si è preoccupato di dove finissero i suoi soldi per due motivi, il primo è che il livello di tassazione era gestibile mentre adesso si lavora solo per lo Stato fino ad agosto inoltrato, il secondo è che i servizi erano accettabili o a costi contenuti. Ora questo non è più vero. I servizi fanno schifo e li paghiamo doppi con le scuole private, gli ospedali privati, la sicurezza a spese nostre con porte blindate, sistemi di allarme e grate alle finestre. Una delle prime voci di spesa sono gli interessi sul debito pubblico, pari a circa 100 miliardi all'anno. Li paghiamo con le nostre tasse. Ma perché siamo indebitati per duemila miliardi, per fare che cosa? Qualcuno ci ha il chiesto il permesso per ridurci in miseria? Mentre Rigor Montis fa il curatore fallimentare, chi ha causato la bancarotta del Paese è ancora a piede libero, a pontificare cazzate.E' corretto pagare le tasse. E' corretto che tutti le paghino in proporzione al reddito. Non è corretto lavorare come gli schiavi ai tempi dei faraoni per vedere dilapidato il frutto del nostro lavoro da presuntuosi e incompetenti nel migliore dei casi, corrotti e ladri nel peggiore, che si spacciano per statisti e ci propongono le loro ricette per la crisi in prima serata televisiva. Il Patto con lo Stato va ridiscusso presto e con altri interlocutori. Se, per ipotesi, si raddoppiasse il gettito fiscale, io sono più che certo che, senza cambiare le regole e dare ai cittadini la possibilità di entrare nel merito dei meccanismi della spesa pubblica per decidere su base referendaria on line, ad esempio l'intervento in Afghanistan o l'abolizione delle Province, la situazione si aggraverebbe. La Grecia ci sembrerebbe un Paradiso. I conti dello Stato peggiorerebbero. E' come buttare i soldi in un pozzo senza fondo. E' necessario introdurre la destinazione d'uso per le nostre tasse. Io pago se so dove vanno a finire i miei soldi. Il tempo della fiducia sulla parola a questa gente è alle nostre spalle.

 
 
 

da IL FATTO QUOTIDIANO di MARCO TRAVAGLIO

Post n°360 pubblicato il 14 Marzo 2012 da aranciaamaraa
 

Ma interessa ancora a qualcuno sapere perché vent’anni fa è morto Paolo Borsellino con gli uomini di scorta? Sapere perché l’anno seguente sono morte 5 persone e 29 sono rimaste ferite nell’attentato di via dei Georgofili a Firenze, altre 5 sono morte e altre 10 sono rimaste ferite in via Palestro a Milano, altre 17 sono rimaste ferite a Roma davanti alle basiliche? Interessa a qualcuno tutto ciò, a parte un pugno di pm, giornalisti e cittadini irriducibili? Oppure la verità su quell’orrendo biennio è una questione privata fra la mafia e i parenti dei morti ammazzati? È questa, al di là delle dotte e tartufesche disquisizioni sul concorso esterno in associazione mafiosa, la domanda che non trova risposta nel dibattito (si fa per dire) seguìto alla sentenza di Cassazione su Marcello Dell’Utri e alle parole a vanvera di un sostituto Pg. O meglio, una risposta la trova: non interessa a nessuno. A parte i soliti Di Pietro e Vendola, famigerati protagonisti della “foto di Vasto” che va cancellata o ritoccata come ai tempi di Stalin, magari col photoshop, non c’è leader politico che dica: “Voglio sapere”. Anzi, dalle dichiarazioni dei politici che danno aria alla bocca senza sapere neppure di cosa parlano, traspare un corale “non vogliamo sapere”. Forse perché sanno bene quel che emergerebbe, a lasciar fare i magistrati che vogliono sapere: il segreto che accomuna pezzi di Prima e Seconda Repubblica, ministri e alti ufficiali bugiardi e smemorati, politici, istituzioni, apparati, forze dell’ordine, servizi di sicurezza. Quel segreto che viene violato solo quando proprio non se ne può fare a meno perché mafiosi e figli di mafiosi han cominciato a svelarlo. Quel segreto che ha garantito carriere ai depositari e ai loro complici. Già quel poco che si sa – che poi poco non è – è insopportabile per un sistema che si ostina a raccontarci la favoletta dello Stato da una parte e dell’Antistato dall’altra, l’un contro l’altro armati. La leggenda del “mai abbassare la guardia”, delle “centinaia di arresti e sequestri”, “della linea della fermezza”, del “tutti uniti contro la mafia”, mentre dietro le quinte si tresca con quella per venire a patti, avere voti, usarla come braccio armato e regolare i conti sporchi della politica, rimuovendo un ostacolo dopo l’altro: da Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, giù giù fino a Falcone e Borsellino. Ora, nel ventennale di Capaci e via D’Amelio, prepariamoci a un surplus di retorica, nastri tagliati, cippi, busti e monumenti equestri, moniti quirinalizi, lacrime tecniche e sobrie, corone di fiori delle alte cariche dello Stato (anche del presidente del Senato indagato per concorso esterno che spiega all’Annunziata la sua teoria di giurista super partes sul concorso esterno senza neppure arrossire). Sfileranno in corteo trasversale quelli che -come da papello – han chiuso Pianosa e Asinara, svuotato il 41-bis facendo finta di stabilizzarlo come da papello, abolito i pentiti per legge, tentato di abolire pure l’ergastolo, regalato ai riciclatori mafiosi tre scudi fiscali. Quelli che han detto “con la mafia bisogna convivere” e ci sono riusciti benissimo. Casomai interessasse a qualcuno, i disturbatori della quiete pubblica riuniti nell’Associazione vittime di via dei Georgofili, guidata da una donna eccezionale, Giovanna Maggiani Chelli, hanno appena reso noto la sentenza con cui la Corte d’assise di Firenze ha mandato all’ergastolo l’ultimo boss stragista, Francesco Tagliavia. “Una trattativa – scrivono i giudici – indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. Dopo il concorso esterno, se ci fosse un po’ di giustizia, la Cassazione dovrebbe abolire anche la strage. Oppure unificare i due reati in uno solo, chiamato “schifo”. Il Fatto Quotidiano, 13 Marzo 2012

 
 
 

lama

Post n°359 pubblicato il 11 Febbraio 2012 da aranciaamaraa

La lama migliore

 

è quella che taglia

 

senza dolore...

 

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ANIMA

Post n°358 pubblicato il 12 Dicembre 2011 da aranciaamaraa

A forza d'essere schiaffeggiata

 

l'anima si anestetizza.....................

 

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DAL BLOG DI BEPPE GRILLO

Post n°357 pubblicato il 29 Ottobre 2011 da aranciaamaraa

Un criminale lega le braccia di una donna a una trave del soffitto con delle corde. E' inerme di fronte a lui. Sul suo petto disegna con un pennarello i contorni di un bersaglio. Quindi, con una mazza e un punteruolo, le spacca lo sterno per estrarle il cuore. Una scena di un telefilm su una rete nazionale dopo cena. L'orrore è entrato nelle nostre case. E' un ospite abituale, a cui siamo assuefatti, spesso atteso e benvenuto. Quanti hanno avuto un brivido di piacere nel vedere in televisione lo strazio di Gheddafi?
Per strada la gente ti guarda torva, i sorrisi sono sempre più rari. Al tuo saluto per le scale, gli inquilini tirano dritto senza risponderti. Le discussioni, in ufficio o al tavolo con gli amici e i parenti la domenica, da sfottò e ironia, sono diventate cloni dei talk show. Tra una portata e l'altra come i cani rabbiosi contro i cani rabbiosi dei salotti televisivi istigati dai presentatori. E' il nuovo modo di conversare. Alla guida della macchina al mattino ad ogni curva, ogni semaforo, al minimo intoppo ti esce un vaffanculo catartico. Ti aiuta a diminuire la pressione. Inspira, espira, fancula. Inspira, espira, fancula. Siamo immersi nello Stige quotidiano, il fiume infernale del Quinto Cerchio della Divina Commedia. Iracondi e inconsapevoli. I nostri spazi si riducono a metri quadri. Topi in gabbie sovraffollate.
La violenza è una droga. Chi la produce lo sa. La vende, la spaccia, la inserisce nei media. Adagio, leggerezza, pensiero, nuvola, carezza, bacio, felicità, prato, albero, bicicletta, piano, riso, torrente, amico, tenerezza sono parole che non si pronunciano neppure più, per pudore. Questa overdose di violenza è la causa o l'effetto di una società malata? Perché la violenza è diventata una merce, che si progetta, si esporta, si compra? La guerra è diventata buona, si chiama esportazione di democrazia. I missili che colpiscono i civili sono fuoco amico. Le stragi sono quindi democratiche e avvengono in spirito di amicizia. Colpisce che questa epidemia di furore sommerso non sia contrastata da nessuno. Anzi, che venga alimentata con il sangue e l'orrore che escono dagli schermi televisivi mentre i nostri bambini giocano sul tappeto del salotto e tu cerchi disperatamente il telecomando per spegnere quell'oggetto immondo che è la televisione

 
 
 

SIAMO TUTTI COINVOLTI

Post n°356 pubblicato il 23 Settembre 2011 da aranciaamaraa
 

Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha risparmiato
le vostre Millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.

E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credevi assolti
siete lo stesso coinvolti.

Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le pantere
ci mordevano il sedere
lasciamoci in buonafede
massacrare sui marciapiedi
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c'eravate.

E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le "verità" della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.

E se credente ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

 
 
 
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Un blog di: aranciaamaraa
Data di creazione: 30/04/2005
 

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