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Il figlio di Teofane

Post n°11 pubblicato il 29 Maggio 2006 da effimerofranck
 

     … e Simeon, da parte sua, giunse a Kalambaka ben oltre la metà del 1500. Aveva quarant’anni, il figlio primogenito di Teofane il Cretese, e la vita sembrava pesargli molto: aveva accolto, allora, senza pensarci troppo, l’invito dei monaci di Agios Nikolaos.
     L’affresco grande di Teofane, Adamo che assegna il nome alle creature nel paradiso terrestre, che fa la gloria di quel convento, era offuscato da cure poco attente e dallo scorrere degli anni. Ai Padri sembrò giusto che il figlio fosse chiamato a rinvigorire colori e forme delle immagini a cui l’arte di Teofane aveva dato vita. Non spetta forse ai figli sorreggere il passo malfermo di chi li ha preceduti? Simeon non si sottrasse.
     Bella era la Pasqua che in quei giorni arrivava e tristi gli occhi del pittore: giunse Simeon alle Meteore e prese dimora nella locanda di Kastraki da Stavros che con la figlia Anna accoglieva i viaggiatori. Prese dimora nel piccolo villaggio poiché pensava che Kalambaka, che offriva molte occasioni d’incontro ai pellegrini giunti per le celebrazioni pasquali, non gli avrebbe consentito con la sua vivacità di starsene un po’ tra sé nelle ore in cui non avrebbe atteso al restauro del dipinto paterno.
     Nei giorni che seguirono Simeon si recò spesso nel Katholikon di Agios Nikoaos che la misericordia di San Dionisio volle abbellito dall’opera di Teofane ma ebbe subito la sensazione che il lavoro gli procurasse gran pena. Spesso s’interrompeva ed i suoi occhi accarezzavano, allora, i volti dei pellegrini che, stupiti, si fermavano davanti all’immagine di Adamo e degli animali del paradiso terrestre.
     Gli piaceva, piuttosto, la sera, starsene nel locale che al piano terra della locanda l’intraprendenza di Stavros e la grazia di sua figlia Anna avevano creato. Non c’era l’eccitazione ed il rumore delle cantine di Kalambaka ma l’ouzo era buono ed il vino ben resinato.
     Guardava quelli che bevevano e qualche volta si univa a loro nel canto e nei giochi. E poi c’era Anna, Simeon a volte ne cercava lo sguardo mentre si spostava, gentile ed un po’ imbarazzata, tra i tavoli dei clienti.
     Molti la corteggiavano ma lei non sembrava appartenere a qualcuno. Non si riusciva a capire bene quanti anni avesse: neanche l’occhio di Simeon, da sempre pronto a catturare i colori ed il mutar delle cose, sapeva dare una risposta. 
     Al pittore venne da pensare che la donna che vedeva non fosse più molto giovane e che di amori la sua vita non ne avesse frequentati tanti ma, nondimeno, la sua vitalità innocente, l’impressione di eleganza che dava pur dietro un viso da popolana erano per lui fonte d’ammirazione.
     Cominciò a guardarla con curiosità ed interesse, si sorprendeva a pensare di poterla far sua. Gli riuscì in qualche modo di catturarne un po’ la simpatia ed a volte lei, la sera quando c’era, sul tardi, poco da fare, narrava a lui di un sogno un po’ lontano, di un incontro mancato e di quel che si aspettava.
     Una sera capitò nella taverna il pope del villaggio che, fattosi largo tra gli avventori e dopo aver chiesto, brevemente, qualcosa parlando all’orecchio di Stavros, si diresse deciso al tavolo del pittore.
     Pope Nikita si sedette davanti a Simeon, salutò con un breve cenno Anna che proprio allora s’era avvicinata, e senza indugio prese a parlargli.
     “So – gli fece – perché sei tra noi. La notizia che il figlio di Teofane è intento a rimediare ai guasti che gli affreschi di Agios Nikolaos Anapausas hanno subito si è diffusa ben presto. So quanto vali e quanto onori l’arte di cui tuo padre è stato il massimo maestro.
     Buon lavoro! Da parte mia ho una cosa da chiederti. C’è una piccola chiesa nel nostro villaggio che la pietà dei pastori e dei contadini ha voluto far sorgere: proprio in questi giorni le loro mani ne hanno terminato la costruzione. Non è bella come le Meteore ma essi l’amano lo stesso, ed a me sembra giusto che anch’essa sia illuminata un po’ dalla luce delle figure che tu sai inventare… se solo tu vorrai dedicarle parte del tempo che ti rimane, dopo esserti dedicato ai restauri che ti han condotto tra noi. I Padri non ce ne vorranno e noi te ne saremmo grati…”
     Simeon era sorpreso dalla naturalezza della richiesta e vedeva come Anna con lo sguardo insistesse perché accontentasse il vecchio pope. Del resto il suo lavoro l’assorbiva meno di quanto si sarebbe aspettato: o, forse, non ci s’impegnava come avrebbe dovuto. Sentì che doveva accettare.
     “Bene, - disse rivolgendosi al pope – io dipingerò per voi, per la vostra chiesa, l’angelo più bello che mai sia stato visto!”
     Simeon stabilì che era l’Arcangelo Michele più di tutti ad essere adatto quale soggetto per il dipinto che gli veniva richiesto: si procurò quel che serviva e presto cominciò la sua opera.
     Il Santo avrebbe preso forma su di un legno ben levigato. Al pope forse avrebbe recato maggior gioia qualcosa che fosse apparsa sulle nude pareti della piccola chiesa, pensava Simeon, ma un’icona gli sembrava più opportuna.
     Essa avrebbe trovato la collocazione più adatta che il pope stesso e la sua gente avessero deciso, sarebbe potuta uscire in processione, talvolta, accanto ad altre immagini sacre, sarebbe potuta finire, chissà?, in qualche discreto ricovero di un monaco solitario… Non spetta sempre, a chi gli dà vita, fisare un’ombra in un luogo sicuro.
     Ed inoltre, il pittore si vergognava un po’ di questo pensiero, un’icona era possibile dipingerla standosene lì da solo nella propria stanza nella locanda di Stavros, lontano dagli occhi curiosi che, attratti dalla sua fama e, forse, da quella ben maggiore del padre, avrebbero inevitabilmente cercato di indovinare quel che la sua mano andava a creare.
     Si sorprendeva Simeon, erano passati presto alcuni giorni di lavoro intenso, di quanto questo nuovo impegno lo conquistasse ben più che l’opera per la quale era arrivato sin lì.
     Veloci eran le ore che scorrevano nella sua stanza. Prese a farsi vedere poco davanti all’affresco nella Meteora e, cosa strana, tendeva ad evitare anche di starsene giù nella taverna. I suoi rapporti con Stavros e con Anna si limitarono presto ai momenti brevi in cui uno dei due bussava alla porta e gli recava qualcosa da bere o da mangiare.
     Simeon si avvedeva che più di una volta Anna aveva cercato il pretesto per stare lì da lui un po’ più a lungo: gli rivolgeva domande sulla qualità del cibo, gli chiedeva se fosse sufficiente, insisteva molto nel voler sapere se lui non avesse proprio più bisogno di altro e, qualche volta, forse un po’ contrariata dalla scarna conversazione, si spingeva fino a chiedergli come mai se ne stesse tutte quelle ore di continuo lì dentro.
     La stanza, aggiungeva, avrebbe avuto bisogno più spesso di veder spalancata la finestra, a lui stesso non avrebbe recato danno il respirare, da fuori, la fresca aria della sera o scambiare delle parole con qualcuno che avesse incontrato.
     Anna andava dicendo con dolce insistenza queste cose, si vedeva che un po’ le mancava la compagnia e la confidenza di quel volto nuovo approdato nella sua locanda, e mentre cercava di attardarsi i suoi occhi andavano furtivi ad incontrare le macchie di colore che Simeon aveva già fissato sul legno dell’icona.
     Non fù difficile alla maestria del figlio di Teofane inventare uno sfondo nel quale il verde intenso ed il giallo dell’oro facevano degna cornice alla figura del suo angelo. E prese subito a dipingere, nei giorni che seguirono, le vesti ricche e le ali possenti, il braccio imperioso, la spada tagliente…
     In un tempo che gli era sembrato molto ridotto Simeon si ritrovava davanti, lì nella sua stanza, la figura quasi completa dell’Arcangelo vittorioso. Era soddisfatto del suo lavoro il pittore, la promessa fatta al vecchio pope era ben altro che vanto infondato. Mancava solo il volto ed il suo lavoro si sarebbe potuto considerare concluso. E Simeon, ora, non voleva vedere più nessuno. Non permise, non gli sembrò più di essere scortese, ad Anna ed a suo padre di entrare nella sua stanza.
     Sapeva, quando gli veniva fame o quando aveva voglia di bere, che dietro la porta avrebbe trovato, lasciata lì per terra dalla premura dei due, qualcosa che avrebbe soddisfatto l’esigenza del momento.
     Veloce era la mano del pittore ed il volto dell’angelo prese a comparire ben presto nel poco spazio ch’era rimasto ancora vuoto lì davanti a lui sulla tavola.
     E venne presto al sera in cui Simeon si dimenticò del cibo e del vino. L’angelo era lì, il volto appariva sempre più nitido e sempre più bello. Mai, mai Simeon aveva dipinto qualcosa di simile.
     Simeon contemplava, le sue mani lavoravano instancabili, il volto che tutti gli angeli avrebbero dovuto avere dacché era sorta la sua arte. E Simeon era bravo, era soddisfatto, non c’era traccia in lui dell’inquietudine della Pasqua, della stanchezza che lo aveva accompagnato. Un angelo così, ne era sicuro, neanche l’arte di suo padre Teofane avrebbe saputo portare in vita.
     Dipingeva Simeon, dipingeva veloce, sapeva che quella notte il suo lavoro avrebbe avuto termine. Ed il giorno dopo, stanco ma consapevole del proprio valore, egli avrebbe affidato il suo angelo al pope del villaggio, sicuramente avrebbe sorriso al vecchio uomo, avrebbe raccolto le sue cose e, un saluto a chi aveva incrociato il suo sguardo nei giorni della Pasqua, senz’altro il pittore avrebbe abbandonato Kalambaka ed il dipinto di Agio Nikolaos…
     Queste cose pensava Simeon, senza dubbio in un qualche momento il suo lavoro doveva esser finito perché ebbe appena incerta consapevolezza di gettarsi sul suo letto abbandonandosi al sonno da lungo tempo non esaudito.
     Quando Simeon si svegliò doveva essere senz’altro giorno avnzato: un fascio di luce molto intensa passava per la finestra che aveva dimenticato di socchiudere andando ad illuminare tutta la sua stanza.
     Era molto stanco, il figlio di Teofane, e la sua testa sembrava non poterlo aiutare a cogliere le cose intorno a sé.
     A fatica, era incerto se abbandonarsi ad un suo confuso desiderio di dolce abbandono, cominciava a realizzare che quello per lui doveva pur essere un giorno speciale. Simeon, passati che furono i momenti di grave torpore, volse lo sguardo verso la tavola che aveva dipinto, se ne ricordò in un lampo, e la visione che si offrì ai suoi occhi sembrò gettargli in gola del fiele.
     Lì, sulla sua tavola, in cima al corpo dell’angelo che con amore esclusivo aveva dipinto per giorni e notti gli appariva ora il volto, beffardo e sguaiato il sorriso volgare, del più orribile, del più inquietante dei demoni.
     Non capiva Simeon, possibile che quello fosse il risutato di tutto il suo affannoso impegno? Egli aveva visto comparire per merito delle sue mani febbrili, ne era sicuro, non poteva essere altrimenti, pian piano ma in maniera sicura, un volto meraviglioso, né uomo, né donna, il più bello degli angeli che sia dato contemplare ed ora davanti a lui era ben altro spettacolo.
     Non poteva più capire il pittore cosa fosse successo. Poteva essere tutto un incubo quello? Possibile che le sue mani, egli non se ne era reso conto, avessero disegnato cose diverse da quelle che lui andava vedendo? Non sapeva che cosa pensare. Eppure era molto, quantunque fosse accaduto talvolta in passato, che non si abbandonava a generosi bicchieri di retsina né, tanto meno, al profumo invitante degli ouzo. Un abbaglio, poteva essere stato tutto un abbaglio?
     Simeon, alquanto turbato, pensò che non occorresse perder tempo. Grattò via la volgrità dalla sua icona, fu ben attento nella sua opera di ripulitura a non danneggiare il legno, e subito, sul momento, riprese a dipingere il volto del suo angelo.
     Era bravo, ancora una volta, il figlio di Teofane, precise pennellate dai colori vivaci andavano ad arricchire il suo dipinto. Stavolta, anzi, gli sembrava che il suo lavoro fosse persino più riuscito dell’altra volta. Lavora e lavora Simeon, passano le ore, né tanto meno può egli ormai prendersi cura di Anna o di Stavros, del pope del villaggio, dei Padri di Agios Nikolaos o dell’ombra di suo padre rimasto per sempre laggiù nella natia Creta… Dipinge Simeon, l’angelo gli sorride, ancora poco, ancora poco e tutti potranno partecipare della sua gioia…
     Un altro mattino, dell’altra luce che rischiara le cose della stanza. Simeon è solo, il risveglio non porta serenità. Il pittore, molto combattuto, ha paura di guardare verso l’angelo. E’ tutto così luminoso, la visione di quel che ha creato è molto agevole. Basta un colpo d’occhio furtivo, l’animo atteggiato a sfida, ed il volto orrendo è ancora lì.
     Simeon si rendeva conto di aver dato vita, una volta di troppo, ad un volto ch’era una bestemmia verso il Dio delle creature e di Adamo che dona ad esse il nome.
     Più volte, nei giorni che seguirono, le vicende del pittore si presentarono allo stesso modo. Maggiore era la forza, la foga, che Simeon dispiegava col suo lavoro, maggiore, ogni volta di più, la certezza che il suo obiettivo fosse finalmente raggiunto, e tanto più grande e disperante perciò la realtà che sempre gli si presentava.
     Quel volto perfetto che lui con tanto accanimento aveva dipinto si dileguava puntualmente alla luce del giorno nuovo lasciando il posto a qualcosa che lui mai avrebbe voluto con sé.
     Simeon ormai non conosceva altro che lo spazio angusto della sua stanza, non c’era posto per altro nella sua mente che per il pensiero fisso di qualcosa, di qualcuno, che, sebbene lui non volesse, lo portava a dipingere qualcosa che non gli apparteneva.
     E si ritrovò ancora, Anna, nonostante tutte le delusioni a cercare di rompere quella sua solitudine. Il figlio di Teofane ormai era esausto, forse non si era nemmeno accorto di altre volte in cui la donna aveva bussato alla porta della sua stanza. Quella sera Anna riuscì ad entrare. Il viso ancora bello, lo sguardo confuso, si ritrovò accanto al pittore che non volle respingerla.
     Simeon forse sembrava non ricordare neppure cosa volesse dire giacere accanto ad una donna, accarezzarne il volto, ed Anna non aveva granché da dire. Simeon la vide uscire dalla stanza, non avrebbe saputo dire quanto tempo dopo, ciò che restava era l’acqua ed il vino, qualcosa da mangiare ch’essa gli aveva portato.
     E bevve molto Simeon, e nel farlo gli accadeva di pensare che forse come ora anche prima lui aveva pianto in una maniera che non aveva saputo frenare. Aveva pianto davanti ad Anna, il pittore, e sapeva ormai che mai a lui avrebbe stato concesso dipingere l’angelo come aveva promesso.
     Bevve molto Simeon, ne stette male, non sapeva nemmeno come avesse potuto abbandonarsi al sonno. Ed il sonno talvolta reca con sé ombre lontane. Simeon camminava con passo sicuro ed accanto a sé, lo vedeva alla sua destra, più giovane e più scuro, andava suo fratello Neofito, pittore anche lui.
     Si ritrovarono presto davanti ad una distesa d’acqua non profonda al punto da non permettergli di avanzare. Simeon si accorse presto che lui e suo fratello, benché l’acqua non fosse alta, cercavano di poggiare i piedi su qualche grosso sasso e avanzavano verso qualcosa ch’era simile alla cima di una piccola collina che emergeva da quello stagno.
     E Simeon e Neofito camminavano ora con difficoltà ed i grossi sassi, essi riescono a cogliere tra le canne e l’acqua melmosa, sono in realtà delle teste umane. Tutto un popolo giace sotto l’acqua: accovacciati, le gambe incrociate, donne, uomini e bambini, sulle teste che cedono al peso dei figli di Teofane, sfaldandosi, strani copricapi di foggia orientale. Il piccolo popolo volle camminare attraverso le acque, queste non si aprirono ed essi si lasciarono morire.
     E giunti in cima alla collina a Simeon ed a suo fratello un piccolo gruppo si presenta in una capanna: un uomo, una donna, due bambini che stanno con loro. Ed anche questi, la pelle scura, sembran venire da terre lontane: la loro lingua non è comprensibile. E mostrano essi a Simeon ed al fratello qualcuno lì vicino: il vecchio Teofane.
     Guarda i propri figli il pittore di Creta, lo sguardo un po’ freddo così come in vita, li guarda senza parlare. D’un tratto, essi non si erano accorti della nuova presenza, Teofane indica un altro personaggio: un vecchio, il portamento ancora vigoroso, esperto anch’esso nell’arte che li accomuna.
     E Simeon si vede affidato dal padre il nuovo venuto come sua guida. E cammina ancora adesso il figlio di Teofane, la strada che percorre è stretta, in salita, esposta al pericolo dei baratri che costeggia.
     Camnmina Simeon, il passo malfermo, si ferma più volte ed ogni volta guarda indietro il vecchio pittore è sempre dietro lui, interrompe paziente il suo camminare in attesa che il giovane riprenda il proprio e lo guarda in silenzio…
     Il mattino del nuovo giorno trovò Simeon esausto e pieno di amarezza. Si svegliò lentamente il pittore e nel dormiveglia andava pensando cose confuse, i pensieri avanzavano gli uni sugli altri.
     E Simeon ora non avrebbe dipinto più alcun angelo, anzi, ne era sicuro, mai più avrebbe tenuto un pennello nella sua mano. E sarebbe andato da qualche parte anche se non sapeva ancora dove. E non avrebbe cercato Anna né tantomento delle altre donne. E, del resto, gli sembrava insopportabile dover sostenere lo sguardo del vecchio pope, dei Padri di Agios Nikolaos, dell’ospitale Stavros… Sarebbe fuggito da tutti il figlio di Teofane, sarebbe senz’altro partito di sera… e poi ancora sarebbe andato in posti lontani, avrebbe posato lo sguardo su volti sconosciuti, ed a lui forse non sarebbe toccato in sorte di aver figli o di avere una propria casa…
     Queste cose andava pensando Simeon in maniera confusa ed il sole andava a fugare anche le ultime ombre della sua stanza. Egli non avrebbe chiesto altro: sperava, almeno, di poter fare appello alle ultime forze, di raccogliere le poche cose che gli rimanevano per poter abbandonare il villaggio.
     Si girò Simeon nel proprio letto e lo sguardo gli cadde, senza che lo volesse, sulla tavola che aveva dipinto. C’era qualcosa di strano, qualcosa di nuovo che fece molta fatica a cogliere: l’icona era completa in tutte le sue parti, appariva dipinta con maestria, ed in cima al corpo dell’angelo, senza che lui ne avesse avuto sentore, un viso bello era apparso, quello del figlio di Teofane…
     Simeon incontrò Anna, era ormai vicina l’ora in cui molti pellegrini sarebbero venuti per il pranzo leggero della vigilia di Pasqua, che si affaccendava giù nella grande sala della locanda. Il volto incuriosito, un sorriso incerto, la donna sembrava volergli dire qualcosa.
     Simeon la guardò brevemente, sembrò sul punto di allontanarsi, ma poi le si rivolse e le parole uscirono un po’ a fatica ma chiare:
     “Vorrei stare ancora tra voi, Anna. Domani è Pasqua, non sta bene mettersi in cammino… e, del resto, è bene che Pope Nikita abbia la sua icona e che i Padri di Agios Nikolaos non rimangano delusi. Il prossimo anno, la prossima Pasqua, ai pellegrini che verranno presso le Meteore l’affresco di Teofane apparirà ricco di tutta la luce che il suo creatore volle imprimervi…”

 
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