Creato da ElettrikaPsike il 17/12/2012

ElettriKaMente

Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)

 

Messaggi di Maggio 2018

SE NE RIDE CHI ABITA I CIELI, LI SCHERNISCE DALL’ALTO IL SIGNORE

 

I sorrisi più autentici sono quelli che illuminano i nostri volti

quando nessuno ci guarda.

(Minhal Mehdi)

 

Una volta si diceva che ridere eccessivamente e a sproposito fosse, nella “migliore” delle ipotesi segno evidente di sguaiatezza, mentre nella peggiore un segnale piuttosto inequivocabile d’imbecillità e accertata demenza.

Ma anche al di là del proverbio popolare che, con il suo risus abundat in ore stultorum, sanciva inequivocabilmente il concetto, e al di là del fatto che la chiave di lettura di una risata inappropriata stia appunto nell’essere “a sproposito”, sicuramente una larga e insistente espressione ridanciana, proprio al pari di un’incalzante mitragliata di facezie, alla lunga stanca tutti e, almeno per quanto mi riguarda, stanca anche a breve.

E c’è pure di più. Stanca quando non trasmette anche una sorta d’inquietante e inaspettata agitazione.

 

 

E’ vero anche che, inevitabilmente, in risposta ai sostenitori della teoria che la sovrabbondanza di risate sia prerogativa delle bocche stolte, altre fazioni contrattaccano chiamando in causa tutti quei litri di buon sangue che il riso – ma qui se la contende con il vino – produrrebbe. Però, forse, per far buon sangue è meglio distinguere risate sane da frustrazioni e tristezze mistificate o lasciarlo perdere e dedicarsi solo al vino (parola di quasi astemia).

Ed anche se, insieme all’acqua calda e al fatto che sono scomparse le stagioni intermedie, la psicologia e la medicina da web hanno sentenziato che bisogna ridere il più possibile – di tutto e tutti, con tutto e tutti – meglio se sfrenatamente, convulsamente e senza soluzione, per riuscire a stare meglio ed uscire dallo stress, (aggiungendo anche che, seppure non c’è un motivo per farlo, è raccomandabile farlo ugualmente perché il motivo seguirà) io mi trovo molto distante dal considerare sane le forzature. 

E sono convinta che questo antistress sia uno fra i più stressanti.

Una frase molto popolare da cui prendo considerevoli distanze è anche quell’invito a sorridere pur se di un sorriso triste, perché -la citazione sostiene- non esiste tristezza più grande del non saper sorridere.

Ecco, evidentemente chi l’ha detto, e non voglio proprio risalire alla fonte, non conosce affatto il carico d’angoscia che bussa dietro ad un sorriso composto di tristezza…perché altro non è se non una preannunciata cronaca di un’esplosione di buio accecante.

Però, sia chiaro, la mia avversione non deriva solo dal fatto che questi inviti ad oltranza al sorriso mi suonano stucchevoli e opprimenti quasi quanto il politicamente corretto, nonché evidentemente per me controproducenti. C’è anche una matrice logica a muovere le mie idiosincrasie.

Distinguiamo le risate una volta per tutte:

Una cosa sono quelle che rispondono al nostro cuore illuminato, quando s’incendia ed esplode di lucciole; ma decisamente un'altra sono le corse artificiose verso l’appropriazione di una frenesia di suoni che, per la loro totale assenza di pertinenza, possono ricordare vagamenente alcuni sintomi epilettici.

Queste corse alla risata senza fine non rientrano in nessuna aura di ben accetta ilarità e sembrano piuttosto nascondere tutt’altro buio. Quello che comunicano – o rischiano di regalare – è, infatti, piuttosto lontano dalla gaiezza luminosa che professano ed è pericolosamente molto vicino ad un nervosismo ansioso e capace d’innescare – una risata (e/o, talvolta, battuta) dopo l’altra - un climax di claustrofobica apnea.

Ed il risultato è davvero ben lontano da qualsiasi “suono di uno scontro fra stelle” che, invece, l’essenza della risata più autentica riesce a farci ascoltare.

Quindi, non sarebbe poi un gran male ricordarci - e magari ricordarcelo anche prima di farci sommergere da una convulsione di suoni nevrotici che costringono a felicità comandate - che quel magnifico “imprevisto capace di far volare via gli strati di tedio depositati dai giorni”, è sì, la grazia di un sorriso…ma pur sempre di un sorriso intelligente!

 

 

 

 

 
 
 

LA GENTE NON ESISTE

 

 

 

Non mi piace il termine “gente” e sinceramente non lo trovo nemmeno sensato perché la “gente”, di fatto, neppure esiste.

Chi è la “gente”?

Un nome collettivo ed un concetto totalmente alluso.

Ombreggiato e sottinteso, il termine indica grigie sagome senza faccia, omini imprecisati eppure imprigionati nella loro definizione ferrea… Tutti, di fatto, siamo quella “gente”.

Non per noi stessi, certo; ma per tutti quegli altri da noi che tracciano una linea di confine tra il loro sè e quello di ogni altra persona.

Anche noi, voi che leggete o non leggete in questo momento, ed io, per chiunque ama utilizzare la scappatoia di un termine fasullo, siamo la “gente”.

E, categoricamente, siamo catalogati in una categoria fuorviante.

Ma voi, davvero, vi sentite essere questa “gente”? Io no, perchè io sono io.

E se non faccio parte della “gente” è perché questa massa non qualificata è composta dal mio io e da tutti gli altri io. Ed ognuno di questi è un’individualità che, purtroppo per noi (dal momento che forse ci farebbe anche più comodo se così fosse) non è una categoria indifferenziata.

Quindi sarebbe meglio lasciar andare questo collettivo nebuloso quando non si sa come maneggiarlo.

Così, se diciamo: “La gente di Torino (o Roma/Genova/Bari, scegliete voi la città che preferite)” va bene; “La gente che si trovava in piazza” anche… “Tutta la gente che ho visto oggi” pure. Se e quando specifica un certo numero di persone – indefinite - che vengono accomunate per un qualsiasi motivo e in un determinato contesto, la parola ha una sua ragione d’esistere; ma perde ogni ragione quando la si carica di responsabilità non sue.

Finiamola, quindi, di attribuire “alla gente” ogni sorta di merito, importanza, causa, colpa, opera o pensiero.

Accade qualcosa che non ci piace ed è subito “non sopporto più la gente”; si ricerca un consenso popolare ed appare il solito “alla gente piace/non piace”; le cose vanno che è una meraviglia e “la gente è grandiosa”; la politica o la sanità fanno pena ed è colpa della “gente”, “la gente” non capisce un benemerito.

La gente siete voi, sono io.

Se vi va o non vi va bene quello che vedete o quello che succede, chi è stato votato per un televoto o per un partito – che poi, personalmente, è la stessa cosa – non di dite “la gente è intelligente/stupida”, “la gente è buona/cattiva”, “la gente è/non è qualcosa”.

Voi siete la gente.

Smettiamola con “la gente pensa”. Ma che ne possiamo mai sapere voi – o che ne so io - di che cosa pensa la “gente”, quando questa è un nome collettivo senza identità e quando, soprattutto, in tutta questa “gente” siete compresi, senza soluzione di continuità - ed insieme ad altri circa sette miliardi di individui – anche voi, il direttore del Financial Times, le veline di questo o quel tg satirico e le astrofisiche delle onde gravitazionali?

E, soprattutto poi, che diamine mai ci può importare di cosa pensa o non pensa di noi una fantomatica massa che non è una generalità ma solo un fantasma di tanti individui differenti?

Me lo sono sempre chiesto perché si tenda a reputare un valore così alto all’opinione di chicchessia sul nostro operato o addirittura sul nostro conto.

Ci sono imbecilli e persone intelligenti, persone arrabbiate e distruttive ma ci sono anche persone giuste e poi persone ignoranti e persone colte e, tra tutte queste persone, ce ne sono alcune che la pensano come noi ed altri che la pensano diversamente.

Di tutte queste magari ci interessa l’opinione solo di qualcuna, di un relativamente contenuto gruppo che realmente stimiamo e di chi reputiamo, per vari meriti, esemplare; ma delle altre?

Fra la “gente” c’è anche chi ci tenta di uccidere, letteralmente o metaforicamente, e c'è chi, più o meno consapevolmente o per sconfinata ignoranza, ci affossa o semplicemente non ci apprezza; ma questi non sono “la gente”.

Sono alcune persone - ed anzi, meglio ancora, un certo tipo di persone - all’interno della gente.

A queste persone non piacciamo, va bene. E allora? Perché mai la cosa dovrebbe essere un nostro problema?

Tanto più quando la domanda dovrebbe, invece, essere un’altra: vale a dire non tanto se noi piacciamo a loro, ma se - cosa molto più importante - loro possano mai piacere a noi…

Siamo così sicuri, infatti, che tutti questi nostri detrattori che ci pungolano siano persone di cui ci interessa avere una qualsiasi opinione?

Sicuri che siano persone con cui desidereremmo condividere pezzi del nostro tempo e in grado di soddisfare il nostro gradimento o che siano in un qualsivoglia modo capaci di stimolare una nostra empatia?

Ci può davvero interessare avere consensi da persone che non stimiamo e che per qualsiasi ragione sono portatori di azioni per noi indegne?

Credo che la risposta sia un’altra. Penso che alla fine non ci freghi un accidente.

E forse non importa un accidente neppure a chi ha accettato di farsi vittima sacrificale di attacchi iniqui da avversari scompensati perché - diciamocelo - chiunque si diverte ad affossare un altro – e questo a prescindere da qualsiasi motivo e causa – è puramente un dissestato.

E chi si fa vittima di coloro che - di per sé - pur facendo i carnefici, sono a loro volta squilibrate vittime dei propri (oltre che di altrui) demoni, è anch'essa altrettanto prigioniera di fantasmi, vuoti, abbagli e paure.

Pertanto non è di quel consenso, di quel giudizio o di quell’appoggio che ha davvero bisogno.

Non è l’opinione dell’aguzzino di turno, né della fantasmagorica “gente” che la persona che si fa vittima ricerca; ma solo la propria.

Perchè si trova proprio in se stesso quell’unico giudice inquisitorio che non riesce mai a convincere.

Eppure, quello scriteriato imperativo categorico, lo va a ricercare sempre al di fuori, negli occhi di un piccolo o grande sadico – già di per sé beffato da se stesso – o nel nome di quel collettivo indefinito - la “gente”- che nella sua indeterminatezza, diventa lo strumento perfetto per rimandarci i riflessi di ogni nostra voce più segreta e inquisitiva.

Di chi si sta parlando, dunque? Basta con la gente, dai, e facciamo nomi e cognomi, please.

E se proprio non vogliamo dare a Cesare quel che è di Cesare, allora non diciamo nulla.

Parliamo di noi.

Di quello che noi pensiamo, noi vogliamo e noi reputiamo un abominio o una meraviglia.

Ma non utilizziamo il generico “gente” come un facile ed improprio paravento per una manifesta mancanza di lucidità ed un'assenza di coraggio che ci impedisce - ancora e sempre - di attribuire un’identità a ciò che diciamo.

E che, soprattutto, ci impedisce di comprendere che dietro l’ombra della “gente” l’unico volto, giudizio, consenso o gesto d’amore che cerchiamo, è solo uno, ed è sempre e soltanto il nostro.

 

 

 

 
 
 

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