Creato da epagogico il 29/09/2011
cause di forza minore
 

 

“Il tempo passa anche sotto ai sofà”

Post n°9 pubblicato il 21 Novembre 2011 da epagogico

Intarsio lento ed attento le mie alterne giornate che furono da bilocale ammobiliato, da cartoni di pizza da asporto impilati con cura maniacale. Scelgo il posto dei quadri come il posto delle fragole ed imparo a convivere con ciò-che-non-scelgo e non-ho-scelto, insieme ad ogni conseguenza che ciò comporta: lento e naturale discendere e discernere, senza nessuna forma di accanimento o adulterata astrazione.

Saluto con la mano e sorrido al remoto ed innato fantasma della rinuncia (anche se so che sarà immancabilmente sempre presente ad ogni incrocio, lo so…), al muto spettro del cammino eterno nella grigia e primitiva giungla dei sentieri mancati (anche se so che mi sussurrerà ad ogni passo, lo so…).

Sturo lavandini con pazienza, senza alcuna ingenua velleità o incanto, senza stuprare il mio tempo. Poggio l’orecchio alla nera imboccatura del tubo e sento l’eco verticale dell’acqua scorrere e scendere giù e poi più giù.
Mi abbandono alla  gravità senza alcuna gravità: non mi chiedo se due corpi allacciati possano combattere il mondo intero e poi vincere. E’ un problema secondario.

Mi limito a guardarti lieve negli occhi intrecciando inedite linee melodiche “che tanto il tempo passa anche sotto ai sofà”. Già…e passeggio canticchiando.

 
 
 

Il senso estetico del chiodo

Post n°8 pubblicato il 18 Novembre 2011 da epagogico

Dopo una notte senza sogni mi svegliai in una camera a me sconosciuta. Una camera né accogliente, né ostile. Una camera completamente vuota e disadorna, senza finestre né porte ma bianca e illuminata come avesse tante finestre e tante porte. Solo il letto in mezzo, il ritmico riverbero del mio respiro e la sistole e la diastole del mio cuore.
Tra coperte e lenzuola di lino anch’esse bianche e leggere per un attimo ebbi il sospetto di trovarmi in un ospedale ma mi sentivo in ottima forma e non avvertivo intorno a me quell’odore di lisoformio tipico degli ospedali. E poi gli ospedali non hanno lenzuola di lino. Tutt’intorno un’asetticità inespugnabile, rilassante e senza tempo.
E sulle pareti erano fissati una infinità di chiodi. Chiodi di acciaio, bronzo, rame, ottone di ogni foggia e funzione. Chiodi da falegname, carpentiere, tappezziere, alpinista, calzolaio, maniscalco. Chiodi piantati qua e là senza un ordine apparente, senza una parvenza di senso pratico o di utilità. Chiodi senza quadri, senza nulla che vi fosse appeso.
Pensai allora a quei giochi che quando ero piccolo mi piaceva fare sulla Settimana Enigmistica, tipo “Unisci i punti e scopri” ma almeno quei punti lì erano numerati, c’era un ordine chiaro e ben definito da seguire, qui invece non riuscivo a scorgere nessun codice che mi svelasse il disegno celato dietro al caos di quei chiodi. Quindi mi convinsi che ipotizzare l’esistenza un disegno fosse pura follia.
Fu così che scoprii il puro e inscindibile senso estetico del chiodo, dimenticando improvvisamente tutto ciò che vi si può appendere o ciò che vi è stato appeso.

 
 
 

Giro per casa

Post n°7 pubblicato il 16 Novembre 2011 da epagogico

Giro per casa. Passeggiando lentamente con le mani affondate nelle tasche calde. Come se non fosse una casa, bensì un mondo, come se non fosse sostanza, bensì un ricordo.
Mi appoggio al davanzale della finestra, il vetro freddo sul naso, l’alone caldo del mio respiro, guardo fuori: saracinesche sbarrate, strada deserta, luci gialle che rievocano goffamente un medioevo stantio.
Attraverso a passi lenti la cucina: mobili da modernariato, la televisone rotta, il cestino pieno di rifiuti, la lavatrice Candy, una piantina di basilico che non so come riesce a sopravvivere nonostante me, il tavolo e poi le sedie. Quante volte mi sono seduto, quante volte ci ho mangiato: gusti, odori affollano la mia bocca, le mie narici.
Vado in bagno, mi siedo sul cesso con il coperchio abbassato, tiro l’acqua tre volte di seguito, il rumore dello sciacquone mi rilassa, sarà per quello scroscio che un po’ tutto porta via non si sa dove. Boccette di bagnoschiuma, deodoranti, gel, creme, lamette… mi stendo nella vasca vuota. E’ bianca e fredda ma si sta comodi. Vorrei morire in una vasca.
Apro gli occhi, mi risveglio non so come in camera, nel letto: il piumone bianco a fiori azzurri e rossi dell’Ikea, sulla sinistra la sveglia al quarzo con i numeri rossi, la luce fioca dell’abat-jour, i libri accatastati sul tavolo basso e, dall’altro lato, la lampada rossa, quella per certe occasioni, lo stereo vicino a me che mi accompagna nelle mie notti.
Delineo con lo sguardo gli oggetti che mi circondano e proietto inconsapevolmente dentro di me ciò che ogni cosa rappresenta o ha rappresentato. Gli oggetti mi fanno paura stasera, non sopporto la loro presenza, ne percepisco l’anima corrosiva, la segreta immortalità che io stesso alimento.
Allora mi immagino giocoliere: io che lancio in aria libri, sedie, tavoli, abat-jour, televisori, sveglie, ciabatte, tazze, caffettiere, cellulari… io che mi destreggio con leggerezza, grazia ed abilità dimenticando ogni forma e funzione, facendo attenzione solo alle diverse traiettorie per poi gettare con leggiadria tutto in un grande sacco e… sì, via tutto.
Che bello essere circondato solo da bianche e silenziose mura un po’ scrostate. Guardo in alto, nell’angolo più lontano da me, un ragno nero dalle lunghe zampe sta iniziando a tessere la sua tela. Pura essenzialità. Lo lascio lavorare, fuori fa freddo, il cibo scarseggia, non ho davvero nessun motivo di toglierlo.

 
 
 

Acqua futura

Post n°6 pubblicato il 14 Novembre 2011 da epagogico

In casa, sono da solo. Silenzio, ma poi, se ascolto bene, mi accorgo che il silenzio in verità non esiste. Spesso la parola silenzio è usata a sproposito. Qui, vicino a me, la ventola del PC fa il suo lavoro. Di là, in cucina, il ronzio del frigo. E il rubinetto del lavandino che perde.
Una goccia ogni quattro secondi, più o meno. Tre, quattro, tre, cinque, quattro. Non è così regolare, ha solo una parvenza di regolarità. Ed è proprio questo che mi dà ai nervi. Questa quasi-regolarità mascherata da regolarità. Io mi aspetto la goccia in quell’istante e invece no: ritarda, anticipa… e quando cade giusta sono io che ritardo o anticipo. Mica conto il tempo consapevolmente ma dentro, secondo me, qualcosa conta al posto mio.
Allora ho messo una spugnetta per attutire il colpo ma non serve a molto. Quel PLOP! lo sento lo stesso. Certo, così il suono è più ovattato, quasi dolce, leggermente smorzato rispetto alla goccia che si schianta dritta dritta contro l’acciaio del lavandino: in questo secondo caso il PLOP! è più nitido, secco e metallico, con un impercettibile riverbero, come se l’incavo del lavandino fosse una sorta di cassa armonica. PLOPPP!
Ho provato a chiudere con più forza i rubinetti, prima quello dell’acqua calda, poi l’acqua fredda, ma invano. Anzi, credo che peggiori la situazione e non so neppure quale sia il responsabile! Qui bisogna cambiare la guarnizione o qualcosa del genere. Non sono capace. O meglio, ho una vaga idea di come si smonti un rubinetto ma poi non saprei andare oltre. Devo chiamare un idraulico a meno che non decida di convivere con quella goccia. Mica è divertente convivere con una goccia. In questi casi sento il peso della mia patologica mancanza di manualità.
E lei, la goccia, continua, nella sua approssimativa costanza. Segna il tempo fuori dal tempo, i vuoti ed i pieni, oltre i miei calcoli mentali, le mie previsioni, e allaga il silenzio di questa casa. Chissà quanti litri d’acqua sprecati in un giorno. Quattro e otto, per l’esattezza. Ed in una settimana? Trentatre e sei. Ed in un mese? Centotrentaquattro e quaranta. Ed in un anno? Milleseicentododici e ottanta. Ed in cinque anni? Ottomilaesessantaquattro. Ed in dieci? Aiuto non ce la faccio più…quella goccia, così apparentemente innocua, infinitesimale, mi sta quasi annegando!
Ho qui una conchiglia piccola piccola. L’appoggio all’orecchio. Chiudo gli occhi. Mi sembra di sentire il mare. Bello, leggero, immenso, profondo, calmo, mosso, increspato, salato, pericoloso. Quello sì… mi piace. Eppur si tratta sempre di acqua.

 
 
 

Umori di mare

Post n°5 pubblicato il 11 Novembre 2011 da epagogico

Sono sei anni quasi sette che da quassù guardo il mare, ad ovest, verso l’America. E penso a chi un giorno è approdato su quella terra senza sapere che in effetti fosse proprio quella terra. Spesso ho guardato da solo. Altre volte in compagnia ma erano sguardi senza spessore, bidimensionali, sguardi obliqui, in tralice, di un attimo, sguardi per dimenticare ma non da dimenticare: è stato comunque bello. Vorrei abbracciare tutti quegli sguardi.
Qualche volta il mare era celeste con riflessi bianchi e verdi di germoglio, quando stavo bene. Quando stavo così e così era blu di prussia con riflessi grigi orlati di rosso porpora. Quando stavo male era di un giallo sporco di luna con riflessi marroni di corteccia. Talvolta invece sentivo il mare che guardava me. Erano occhi celati sotto un velo d’acqua impenetrabile che comunque immaginavo nitidamente, occhi di squalo che tolgono il respiro, che ti tirano per i piedi verso il fondo.
Poi sono arrivati occhi diversi ed ho smesso di praticare esercizi di apnea. Occhi con una bella faccia intorno dalla pelle rosa e ho dimenticato gli occhi del mare. Certo, non si può dimenticare del tutto. E forse neppure lo voglio ma adesso sto bene.
Mi sento partito. Ho un equilibrio di una certa stazza, tipo una petroliera con la stiva piena di petrolio e lunga centinaia di metri. Una nave che porta energia allo stato potenziale sottratta al tempo ed al centro della terra, tirata su con forza e concentrata in questa carena d'acciaio che divide il progresso dal disastro. Basta poco, un iceberg, una rotta sbagliata, o un grano di ruggine sfuggito agli ordinari controlli di manutenzione.
C’è un gran viavai sul ponte. Io sono il capitano e tutto l’equipaggio insieme. Come ogni capitano animato da incoscienza e responsabilità, come ogni equipaggio animato da timore reverenziale e repressa voglia di ammutinamento.
E giù, sotto, l’eco vibrante della sala macchine. Cilindri, pistoni, turbine, eliche, tutto lubrificato ed in perfetta armonia va come deve andare, gira come deve girare. Via, via… con il vento in faccia ed il sale nelle narici.
I pirati lontani all’orizzonte pazienti seguono la scia. Un po’ li capisco.
“E poi il capitano se vuole si leva l'ancora dai pantaloni e la getta nelle onde e chiama forte quando vuole qualcosa o qualcuno, c'è sempre uno che gli risponde…”

 
 
 

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