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Roxana Saberi , Azar Nafisi
Proprio mentre il Presidente americano Obama parla in modo pacato ed invia messaggi di pace al presidente iraniano, per la prima volta dopo tanti anni, la giornalista iraniana-statunitense Roxana Saberi, arrestata a Teheran lo scorso gennaio con l’accusa di spionaggio in favore degli Stati Uniti, è stata condannata a otto anni di prigione. Secondo le autorità iraniane la donna lavorava «illegalmente» nel Paese ed ha continuato le sue attività anche dopo che il governo le aveva ritirato il tesserino giornalistico. La reporter, 31 anni e da sei in Iran, ha lavorato per diverse testate giornalistiche internazionali. Il processo si è aperto lunedì davanti al tribunale rivoluzionario della capitale.
Come vivono le donne in Iran, tra soprusi, violenze, proibizioni e regole assurde, da tanti, troppi anni ormai, è ben raccontato in un libro di Azar Nafisi, «Leggere Lolita a Teheran», che l’ha resa celebre in tutto il mondo e che ho letto recentemente . Un libro triste e difficile per le vicende narrate, in particolare per le giovani donne da lei conosciute, la cui vita era spesso infelice e dura, in balia di uomini e leggi crudeli
In una intervista molto intensa al quotidiano La Stampa Azar parla di se stessa, del nuovo libro che è appena uscito in Inghilterra e di ch cosa rappresenta per lei, esule all'estero, il suo paese, l'Iran
«Scrivo per tener vivo il Paese che la dittatura ha congelato» dichiara la scrittrice esule all'inizio della sua intervista
Sono passati cinque anni da «Leggere Lolita a Teheran». Perché ha taciuto tanto a lungo?
«Raccontare la propria vita è difficile. La dittatura rende la sfera personale un tabù, il privato diventa politico. In Iran non potevo parlare della letteratura che amavo o degli amici arrestati e uccisi. Non riuscivo a parlare neppure del rapporto conflittuale con mia madre, verso cui nutrivo amore e risentimento, esattamente come verso il mio Paese. Ho cominciato a scrivere di lei quando è morta e non potevo tornare in patria a dirle addio, e ho scritto dell’Iran quando sono partita per Washington, nel 1997».
Cos’è l'Iran per lei, sua madre, autoritaria e distante al limite dell’anaffettività, o suo padre, affascinante narratore di fiabe capace anche di mentire?
«L’Iran è la somma dei due. Mia madre, nata da una famiglia benestante e moderna di Teheran, emancipata al punto da sposarsi due volte per amore e lavorare in banca rivendicando la propria indipendenza. E mio padre, nato nella conservatrice Isfahan, erede di una dinastia di studiosi religiosi, intellettuali e puritani. Lei voleva plasmarmi a sua immagine anche a costo di leggere di nascosto i miei diari, lui mi raccontava le storie de Il libro dei Re, che oggi insegno a mia figlia, ma mi rendeva anche complice dei suoi tradimenti con altre donne».
Che Paese è oggi quello che ha lasciato? Da un lato il governo Ahmadinejad apre al dialogo con gli Stati Uniti, dall’altro incarcera con l’accusa di spionaggio la giornalista iraniano-americana Roxana Saberi e condanna a morte Delara Darabi che sarà impiccata lunedì per un reato commesso quando aveva 17 anni.
«Non mi fido della politica. Il governo parla di aperture per calmare la gente e uccide nelle galere. L’Iran è una dittatura islamica ma, attenzione, è anche il Paese dove le donne hanno lanciato la «One Million Signatures Campaign», un milione di firme contro la repressione. È il Paese dei blogger, dei giornali democratici che non si scoraggiano se vengono chiusi, del Nobel Shirin Ebadi che, estromessa dalla carriera di giudice, si mette a fare l’avvocato dei diritti umani, della poetessa Simin Behbahani che a 82 anni non ha smesso di scrivere versi sulla libertà della donna e sul potere sovversivo dell’erotismo. Ahmadinejad lo sa: tempo fa ammise che a 30 anni dalla rivoluzione islamica le università continuano a fare resistenza. Credo nella società iraniana, la politica dovrà adeguarsi. L’Iran è diverso da altri Paesi, ad esempio il Venezuela, dove la dittatura è allo zenit. La nostra dittatura si è consumata come una candela. Vent’anni fa il giornalista Akbar Ganji credeva come me nella rivoluzione islamica, oggi è in esilio negli Usa e contesta il regime citando Hannah Arendt, Spinoza».
Secondo una barzelletta raccontata a Gerusalemme, solo Obama può salvare l’Iran dalle bombe israeliane. Ha fiducia nel nuovo presidente americano?
«Ho imparato a dubitare seguendo il proverbio inglese per cui prima di giudicare il pudding bisogna mangiarlo. Obama rappresenta la speranza, al punto che all’indomani della sua elezione una rivista iraniana è uscita titolando “Perché non possiamo avere uno come lui?" ed è stata chiusa. Ma aspetto. È giusto che provi a parlare con il governo, i governi parlano tra loro. Ma l’America del primo presidente afroamericano di nome Hussein deve ascoltare la gente, gli iraniani, quelli che vengono torturati, il popolo che dà legittimità al governo. Ahmadinejad ha vinto perché ha promesso ai poveri quello che non poteva mantenere, ma soprattutto perché non ci sono elezioni democratiche in Iran né osservatori internazionali, vedremo cosa accadrà la prossima volta».
Europei e americani impazziscono per i suoi libri. Cosa si aspetta da loro, politicamente?
«La comunità internazionale può piegare il regime iraniano con le sanzioni economiche, evitando prove di forza tipo raid aerei. Ma deve crederci. Mi sembra che il vero problema dell’Occidente oggi non sia l’economia quanto la mancanza di una visione. In Iran la gente muore per la libertà che i relativisti europei negoziano in cambio di un generico rispetto delle culture altre. I diritti sono universali, come il desiderio di leggere Lolita a Teheran, Roma, New York. Il regalo che il popolo iraniano può fare al mondo occidentale è l’immagine ideale che ne conserva discutendo in segreto di Calvino, Svevo, Hemingway, Nabokov».
(da www.lastampa.it/paci )
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