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Accanimento terapeutico

Post n°8 pubblicato il 27 Aprile 2010 da evaric

Oggi voglio sottoporre alla Vostra attenzione un articolo scritto qualche tempo fa da un mio amico.

Ognuno di noi può commentare come vuole queste parole, l'importante è riflettere e non lasciarsi trasportare solo dalla massa, dalla moda o dalla TV.

Possiamo e dobbiamo scegliere ma per fare questo abbiamo il dovere di informarci e ascoltare tutte le campane.

Io sono del parere che troppo spesso ci occupiamo solamente del momento ZERO della vita e del momento FINALE, abbandinando tutto ciò che si trova nel mezzo.

La qualità della vita e la dignità di ogni uomo sono doni da curare e proteggere. Questo però non vuol dire tralasciare i due momenti estremi.

Lungi da me giudicare chi vorrà commentare, vorrei che le parole che seguiranno siano solo fonte di confronto e riflessione.

Da "La Tela Bianca" - Ass. Culturale "COEN"

Volevo dire a tutti che sono per l’accanimento terapeutico, al verificarsi di un triste evento che mi veda ridotto ad una vita vegetale, voglio continuare a vegetare.

Se dovessi vegetare per mille anni lasciatemi vegetare per mille anni.

Niente morti dolci, spine staccate, niente soluzioni serene o altre ipotesi del genere.

In Francia per l’espressione di questa volontà si ricorre al notaio (qualche anno prima dell’evento) in Italia non siamo a questo ma vale in ogni caso la manifestazione di volontà.

Ed io manifesto.

E lo consiglio anche a voi.

Piacere mi chiamo Milanesi Luigi e sono per l’accanimento terapeutico.

Questo dovrebbe essere il modo corretto di salutarsi.

Una cultura di morte si sta lentamente impadronendo delle nostre coscienze.

Da una parte la continua pressione psicologica sulla inutilità delle cure invita ad affrettare il momento terminale, dall’altra l’idea di poter utilizzare il moribondo come miniera di pezzi da ricambio sembrano essere diventate le linee guida della moderna sanità.

A questo aggiungiamo l’eterno interrogativo che periodicamente ritorna nella storia (nelle varie filosofie ed ideologie) sulla qualità della vita per cui se la vita non rispetta certi canoni (di volta in volta definiti) sarebbe saggio porvi fine.

 Così si entra in ospedale. . .  ed uscirne vivi è un problema.

Ribadire con forza che la vita è sacra e va difesa in ogni caso contro ogni speranza è un dovere ma un dovere è anche smascherare questi mercanti di morte che spacciano per pietà la loro follia e per diritto la scelta di morire o far morire.

 

Tre momenti mi permetto di segnalare come utili spunti per riflessioni più ampie:

 

1-       quando si dice “le cure sono inutili” si dice una cosa concettualmente sbagliata la frase giusta è “le cure non sono utili allo stato attuale delle conoscenze mediche”; è una differenza notevole. La medicina sposta continuamente i confini dello conoscenza e le sue applicazioni sono sempre più sorprendenti; credo che gli sforzi dovrebbero essere indirizzati a migliorare la ricerca e a ridurre i tempi tra teoria ed applicazione. Legato a questo c’è il problema della cura delle malattie rare se dovesse prevalere l’ipotesi “terminale” è evidente che sarebbero abbandonate, la ricerca e le risorse si concentrerebbero naturalmente sulle malattie dove più forte si manifesta la pressione sociale.

2-       Un altro aspetto che entra nei nostri ragionamenti è il rapporto tra cittadino e Stato: quando il cittadino, per un qualsiasi motivo, si affida ai servizi dello Stato (a maggior ragione quando si trova in stato di particolare bisogno come nel caso in cui si affida al sistema sanitario) ci deve essere l’assoluta certezza che l’azione dello Stato sia rivolta al benessere del cittadino e non sia oggettivamente condizionata, se questa certezza venisse meno è evidente che si minerebbe il rapporto di fiducia cittadino/Stato che è alla base del nostro sistema sociale. Chi, con serenità, si farebbe curare se avesse il sospetto che in un determinato ospedale ci fosse un forte interesse (economico, culturale, sociale, professionale, di puro prestigio), ad esempio, all’espianto degli organi?

3-       Come ultima sollecitacizione ai nostri ragionamenti è che queste scelte dovrebbero avvenire nel quadro di uno stato di libertà e consapevolezza delle varie azioni, ma, elementare è la constatazione che chi è in uno stato di malessere non solo non è “libero” ma la sua consapevolezza è necessariamente condizionata dalle proprie condizioni, dalle paure reali o indotte razionali o meno che naturalmente si impadroniscono di chi deve affrontare un futuro incerto.

 

Il dibattito è complesso ed il dolore è immenso perché la nostra natura è imperfetta ma questa è proprio la sfida e le sfide si affrontano, credo, con la testardagine di chi ama la vita e la ritiene meravigliosa e sempre degna di essere vissuta.

 

L.M.

 

 

 
 
 
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