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Un blog creato da fabio1972dgl il 18/12/2005

favole e scorpioni

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Bellissimo post, molto attuale: ateismo, tradimenti,...
Inviato da: Cassandra_nagra
il 30/04/2012 alle 18:30
 
Gia'...quanto e'vero.... Piacere Fabio
Inviato da: aural2
il 19/04/2012 alle 15:00
 
fabbbb... qua si comincia a preoccuparsi. eh!
Inviato da: laTremenda76
il 29/08/2011 alle 00:19
 
Tristissimo....!
Inviato da: lucciko75
il 23/08/2011 alle 10:41
 
Grazie di avermi permesso di leggerti.
Inviato da: lucciko75
il 17/08/2011 alle 12:56
 
 

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IO E MARIA TERESA

Post n°53 pubblicato il 03 Novembre 2007 da fabio1972dgl

La prima volta che vidi Maria Teresa ero su una montagna di sabbia con delle biglie in mano. Avevo solo undici anni ed ero nel cortile della scuola insieme a tutti gli altri bambini del condominio. Eravamo una quindicina in tutto e lei era l'unica femmina.
Un ragazzino più grande la prese per i piedi e la fece scivolare con il culo su tutta quella terra. Maria Teresa rise sorpresa e mentre quel ragazzo la trascinava qua e la tutti le vedemmo le mutandine a fiori. "Fanno la pista" mi disse mio fratello. Io non avevo mai giocato con le biglie prima d'allora. Non avevo mai visto fare una pista e soprattutto era la prima volta che vedevo mutandine a fiori. Io non ne avevo così, e nemmeno mio fratello ne aveva.
Quel giorno non giocai a niente. Di quelle palline colorate non ce ne furono a sufficienza, ed io, il più piccolo di tutti, rimasi fuori dalla partita. Però fu un bel giorno. Conobbi lei,  capellona, allegra e canterina.
Maria Teresa aveva undici anni come me, e una biglia per lei c'era sempre. Se sbagliava un tiro poteva riprovare un'altra volta. Spesso mi faceva tirare al suo posto e nessuno trovava mai nulla da ridire. Lei poteva giocare come voleva: era lei a fare la pista.  L'unica a portare mutandine a fiori.

Avevo riccioli castani dagli occhi al collo, una "graziella" verde con il campanello e la catena a terra: dopo l'ennesima impennata era caduta giu. Non riuscivo a rimetterla sulla corona. Ero seduto davanti alla bicicletta capovolta cercando di capire come fare quando arrivò lei, Maria Teresa.
"Ma cosa fai? Guarda". In un attimo la mise su. "Ti devi sporcare le mani". Le sue se le ripulì sulle mie guance ridendo. Era bella davvero. Avevamo tredici anni ma lei sembrava ne avesse diciotto. Culo e seno esplodevano da jeans e felpa. Aveva capelli nerissimi, pelle scura e denti  bianchi.
"Portami alla stazione". mi disse.
Salì dietro e si mise in piedi  tenendosi con le mani sulle mie spalle. Io stavo diritto e sentivo le tette sulla testa. Alla stazione c'era un tipo che fumava che l'aspettava.
Saltò giu dalla bici senza attendere che mi fermassi e la vidi sparire con quel tizio.
Feci la strada di ritorno a gran velocità suonando il campanello fino a farlo bruciare
Quasi tutti i pomeriggi  portavo Maria Teresa alla stazione. Mi piaceva portarla in giro con la bici per via delle tette. Non mi piaceva fare la strada indietro da solo. Non mi piaceva quel ragazzo che fumava.
Il campanello non durò molto su quel manubrio.

L'idea fu di Maria Teresa. "Facciamo il cavalcavia, poi invece di andare verso la scuola giriamo verso la ferrovia, scavalchiamo la staccionata, attraversiamo i binari, saliamo sul treno e ci chiudiamo nel cesso fino a quando non ci fermiamo. Semplicissimo." Avevamo diciasette anni, eravamo sempre senza soldi e non studiavamo mai. "Torniamo con il treno delle 11.30, diremo che siamo usciti un'ora prima perchè non c'era inglese. Non lo saprà mai nessuno Fabio, fidati.". Io non capii molto, ma dissi "si, si può fare" solo per compiacerla. Il mattino dopo attuammo il piano.
Facemmo il cavalcavia quasi di corsa ma ci videro sia il professore d'italiano che quello di ragioneria. Scavalcata la staccionata  trovammo un treno merci fermo sui binari. "Passiamo sotto dai." disse lei. Noncuranti del rischio che quel merci potesse ripartire da un momento all'altro strisciammo sotto il treno e ci procurammo una bella striscia di ruggine e grasso sugli zaini che  fu impossibile da spiegare ai nostri genitori. Salimmo sul  treno un secondo prima che partisse e a tenerci la porta aperta fu proprio il controllore. Una volta su corremmo di vagone in vagone tra i pendolari tristi alla ricerca di una toilette libera  trovando sempre porte chiuse.  All'ennesimo cesso occupato Maria Teresa se la prese con un signore occhialuto con la ventiquattrore e urlandogli " siete tutti dei cagoni" mi fece venire una ridarella isterica da farmi quasi morire. "Non ridere Fabio, corri". Lei mi sgridava ma intanto si fermava a scroccare sigarette. Quando finalmente trovammo un bagno libero ci chiudemmo dentro insieme. Abbracciati tra il lavandino e la turca ridemmo fin quasi a soffocare.
Io mi tenni la pipì per tutto il viaggio, lei invece la fece con me davanti. E non mi chiese di voltarmi.

Il locale era pieno, gli amici erano tutti in pista e io avevo una gran voglia di bere.
Contai i soldi nel portafogli e ne avevo per una sola bevuta. La notte era ancora lunga per viverla con un bicchiere solo. Avevo ventidue anni le maniche della camicia arrotolate fino al collo e degli stivali marroni con la fibbia  Ero fuori moda e lo sapevo. E mi piacevo. Venni spintonato in maniera brusca e quando mi voltai vidi davanti a me Maria Teresa. Aveva i capelli rasati a zero e una maglietta scollata che si chiudeva praticamente solo all'altezza dell'ombelico. Al suo fianco c'era un tipo con la coda  gli occhiali scuri e l'auricolare ad un orecchio. Maria Teresa mi diede una card per poter bere gratis, e sparì insieme a quel tipo.
Alle tre del mattino la discoteca si stava ormai svuotando ma io non ero ancora riuscito a recuperare i miei amici. Feci il giro di tutto il locale per cercarli e invece vidi Maria Teresa entrare nel bagno degli uomini. Il suo amico stava davanti alla porta e impediva a chiunque di entrare.
Non rimasi li ad aspettare. Andai verso il bar e restituii la card.

Maria Teresa si trasferì con la famiglia qualche anno dopo ma io e lei non ci frequentavamo più da tempo.
Una mattina mentre andavo in palestra me la ritrovai in strada che faceva autostop.
Il viso era più gonfio che pieno mentre le tette di un tempo non c'erano più. Non le chiesi che facesse li a piedi, nessuna domanda. Mi disse che sarebbe andata a vivere al mare, che sarebbe partita il mese dopo. Avrebbe gestito un lido con il suo ragazzo. Non me la vedevo aprire ombrelloni sulla spiaggia. La lasciai vicino alla stazione. Ad attenderla c'era una pertica d'uomo che fumava, sembrava un vecchio. Scendendo dall'auto mi diede un bacio sulla guancia e un pizzicotto sul pisello.

Ieri l'ho rivista. Era seduta su una panchina e fissava il lago. Non mi ha visto, oppure ha fatto finta di non riconoscermi. Aveva un berretto in testa e la faccia bianca. Il viso benchè al sole sembrava spento. Un tipo alto con le spalle curve era accanto a lei. Fumavano entrambi e parlavano poco.

Maria Teresa, è una vita che ti fai prendere per i piedi e ti fai trascinare qua e la con il culo per terra.
Chissà se cambierai mai gioco.










 
 
 

SOTTO I LAMPIONI

Post n°52 pubblicato il 14 Ottobre 2007 da fabio1972dgl

Lorena lavora lungo il viale alberato che porta alla stazione, fa la prostituta. Aspetta i clienti sotto il quarto lampione. E' piccolina, magra, e non dorme mai.
Ha iniziato a battere per pagare la retta dell'università. "Un altro esame e basta, e solo per quest'anno" così si mentiva ogni volta. Ma tutti i buoni propositi si scontravano con il portafoglio spesso vuoto.
Fare la prostituta non è come raccontano: lo squallore non sta nei corpi nudi solo all'altezza dei pantaloni slacciati, o nei baci di uno sconosciuto. Non sta nemmeno nel passaggio dei soldi da una tasca all'altra.
La miseria sta nelle parole: gli uomini parlano, si confidano, si lasciano andare emotivamente. Si, c'è qualche toro che svuota le palle e va via, ma per uno così ci sono un sacco di falli finti, mosci individui che non hanno nè forza nè dolcezza, ma solo solitudine da scaricare durante l'amplesso. Con questi non bisogna nemmeno fingere, è sufficiente rimanere impassibili e contare i rami dell' Arbre Magique appeso allo specchietto, ed è già tutto finito.
"Ma tutta quella solitudine finisce tra le mie cosce e rimane dentro me, questo è il brutto". Così pensa Lorena mentre si toglie la parrucca bionda che usa il mercoldì e si butta sul letto.

Saverio veniva a trovare Lorena almeno una volta alla settimana.
"Arrivo da una cena fantastica, c'erano tutti gli amici, la squadra al completo. Abbiamo fatto un tale baccano che il proprietario voleva sbatterci fuori, nemmeno fossimo stati dei ragazzini". Si presentava sempre elegante e profumato, curato in ogni dettaglio. Raccontava di cene memorabili, chiassose e ridanciane, descriveva i vari menù e i locali. "Un salone luminosissimo, con un lampadario enorme, forse di cristallo, che scendeva proprio sulle nostre teste. Poi c'erano queste due colonne ai lati del salone e una porta a forma di arco che dava sul terrazzo. Fantastico".
Saverio aveva quasi cinquant'anni la pancia gonfia e la faccia abbronzata. E parlava e parlava, sempre di cene e di belle compagnie: "Abbiamo fatto una tale mangiata stasera, tutto a base di pesce".
Proprio quella sera slacciandosi i pantaloni Saveriò mostrò il pigiama. Lorena capì che veniva da casa, che era sempre arrivato da casa.
Dopo quella sera Saverio non si fece più rivedere.

Lorena un po' sta ferma e un po' cammina attorno al suo lampione. Lungo la strada ci sono altre prostitute, tutte di colore. Alcune di esse hanno un fisico davvero monumentale, statuario, delle vere gazzelle. Si sente distante da loro, in tutto. Lei pensa all'amore, ci spera almeno, e sente che arriverà.
Cammina sul marciapiede e conta i passi da lampione a lampione mentre aspetta un altro cliente. Si stringe nel cappotto e accende un'altra sigaretta "solo per quest'anno e basta" pensa, mentre i fari di un'altra automobile  illuminano il suo viso.

Domenico baciava solo le tette. Aveva più di quarant'anni portava assurdi maglioni colorati e tanta forfora tra i capelli.  Si attaccava alle tette con impazienza, un po' baciava, un po' leccava e un po' respirava. Lorena lo odiava. Le dava fastidio quel suo modo di aggrapparsi al suo corpo, le avrebbe dato meno disagio un ragno sulla faccia o uno scarafaggio dentro le scarpe. Spesso si lasciava andare in un ridicolo pianto "tu non sai, tu non sai" e la riportava indietro.
Cosa ci fosse da sapere Lorena nemmeno se lo domandava, e non gliene importava proprio nulla.
Una sera però lui le chiese di fare l'amore. "Basta che paghi" disse lei fredda.
Domenico dopo qualche goffo tentativo si fermò con il viso sul seno, quasi tremando.
"Allora?" intimò Lorena "Mica si può star così tutta la notte".
Domenico in preda alla disperazione si spogliò completamente nudo "guarda, guarda".
Lorena guardò il pisello di Domenico. Vide della carne rugosa pendere a destra e basta.
Il pisello di Domenico non si scappellava. Avrebbe dovuto fare l'operazione, la circoncisione, ma si sentiva vecchio per parlare di questo ad un medico.  Non riusciva a fare l'amore così.
Domenico forse era ancora vergine.

Lorena ha pochi amici, le sue amiche prostitute sono quasi tutti maschi. O almeno hanno un pisello sotto le tette enormi. Molti uomini cercano anche quello. Non di rado le sono capitati clienti con cetrioli o zucchine ed un' unica richiesta: "Penetrami".
"Su questa strada ci sto solo quest'anno ancora" Così dice da tre anni.
Lorena pensa all'amore. Lo spera, lo desidera.
Cammina e conta i passi da lampione a lampione. Sette passi tra il terzo e il quarto, nove passi tra il quarto e il quinto.
Cammina sul marciapiede Lorena, cammina. "Quanta strada mi separa dall'amore?"
Forse non molta.

Ci sono solo parrucche da gettare via e passi da contare alla rovescia.

 
 
 

IL NASO

Post n°51 pubblicato il 03 Ottobre 2007 da fabio1972dgl

Ho febbre mal di testa e tosse. Non mi alzo dal letto da almeno due giorni se non per andare sul divano. Mi giro e rigiro più volte tra le coperte e le lenzuola. La fodera del cuscino si sfila via e mi va sul naso mentre il plaid a quadri sul letto mi si attorciglia alle gambe. Per liberarmi da quell'involucro ci vorrebbe un numero da circo.
Mi addormento: sogno una luce blu intermittente. Sogno più volte questo sogno finchè non vengo svegliato da qualcuno che ripetutamente suona alla porta.
Vado ad aprire nonostante sia impresentabile: pigiama sotto, tuta sopra, ciabatte bucate, barba di tre giorni, alito di un mese.
E' Gertrude, la vecchia del piano di sopra, in angoscia per il suo gatto.
"Oh è successa una cosa terribile, Silvestro non c'è più, Silvestro non c'è più"
"Qui non s'è visto signora"
"Oh faccia il bravo, mi aiuti a cercarlo"
"Sto male ho la febbre"
La signora mi guarda afflitta, e io cedo
Esco di malavoglia sul pianerottolo e seguo Gertrude. 
Ci sono macchie di sangue sulle scale una bella striscia rossa sul muro.
"Forse si è sentito male" azzardo.
"Oh Silvestro mio".
Sentiamo un miagolio venire da su. Non facciamo nemmeno mezza rampa e vediamo il gatto accovacciato a terra con in bocca un animale, forse un topo.
"Oh Silvestro mio, lo prenda forza".
"Che schifo,  lo prenda lei signora"
"Su non faccia lo schizzinoso, tanto lei è già bello trasandato"
Mi chino verso il gatto e cerco di afferarlo, questo mi tira qualche graffio. Nel prenderlo sporco tutta la felpa sul davanti e un po' il pigiama.
"Ha sbudellato un bel topo il suo micino"
"Ecco dopo venga su a pulire, prima però lo porti dentro casa e lo metta dentro la vasca da bagno"
"Vuole che le porti anche il topo morto magari?"
"Ma non faccia lo spiritoso, piuttosto pulisca, che poi le do una bella mancia".
Entro in casa di Gertrude il corridoio è buio e prima che la signora accenda la luce finisco con un braccio contro una statuina in ceramica raffigurante Pinocchio. La stuatina cade a terra e si scheggia, il naso si stacca del tutto. Il gatto si spaventa mi graffia la faccia e scappa via da qualche parte.
"Oh ma cosa combina, mi ha rotto la statuina".
Prendo la statuina e la rimetto al suo posto
"Ma cosa fa, ora me l'ha anche sporcata con tutte quelle mani sporche di sangue. Su, se ne vada se ne vada, ha già fatto più danni che altro."
Mi mette in mano cento euro e mi accompgna fuori.
Chiude la porta e da fuori sento un rumore, come un tonfo. Oh Silvestro, penso.
Per le scale incrocio il geometra Occhiuto dell'ultimo piano. S
ono vestito come un barbone, ho macchie di sangue ovunque, ho l'affanno per via della febbre e continuo a tossire.
"Drogato di merda" così lo sento sussurare al mio passaggio mentre da un'occhiataccia alle banconote arrotolate che tengo in mano.
Io rientro in casa, crollo a letto e me ne fotto di tutti: del geometra, di Gertrude, di Silvestro e di Pinocchio. Fanculo.
Metto i soldi sotto il cuscino e chiudo gli occhi stremato. Non ce la faccio nemmeno a pensare di lavarmi ora.

Riprendo la mia lotta con coperte plaid e lenzuola. La fodera del cuscino mi finisce tra le natiche i soldi cadono a terra. Li tirò su e siccome non ho tasche li metto dentro le mutande. Sto male, ho la febbre, mal di testa e tosse. Ho anche una specie d'orticaria, mi prude tutto, specie il culo. Spossato mi riaddormento.
Sogno una luce blu intermittente, sogno più volte questo sogno finchè non vengo svegliato da qualcuno che ripetutamente suona alla porta. Guardo l'orologio, sono passate appena due ore.
Nemmeno mi guardo allo specchio e vado ad aprire, sarà ancora la signora Gertrude, penso.
Invece sono i carabinieri.
"Signor M. Fabio, vorremmo farle qualche domanda, se è possibile"
"Nessun problema, prego, cos'è successo?" chiedo mezzo addormentato.
"Un piccolo incidente, stiamo facendo delle indagini lei non ha sentito nulla oggi, notato niente ?"
"No nulla di che".
"Come ha passato il pomeriggio?"
"Ho dormito tutto il giorno, ho la febbre"
"Da solo?"
"Si certo da solo".
"Nessuno oltre lei può confermalo?"
"Beh, vivo solo"
"Quelle macchie di sangue, se l'è fatte dormendo?"
"No è stato un gatto" 
"Che gatto?"
"Silvestro.."
"Senta non ci prenda in giro, la signora del piano di sopra è stata trovata morta, sospettiamo un omicidio".
"E che, no asp.."
"Ci sono macchie di sangue che portano dal suo appartamento a quello della signora. Nega di essersi introdotto in casa sua questo pomeriggio?"
"No, in effetti ci sono entrato, però.."
"Quindi prima mentiva quando ha detto che ha dormito tutto il giorno"
"E' un equivoco, io sono andato da lei per aiutarla"
"Abbiamo trovato la casa in disordine, sangue ovunque, e i suoi pochi averi sparpagliati sul letto"
Sono nervoso e mi prude tutto, specie il culo.
"Vi spiego, ascoltatemi...". Mi gratto senza ritegno, dal pigiama cadono le banconote arrotolate e finoscono in terra.
"E questi soldi?" dice un carabiniere raccogliendoli. "Sono sporchi di sangue tra l'altro."
"Me le ha date la signora Gertrude, perchè le ho recuperato il gatto"
Da una borsa tirano fuori una statuina.
"Riconosce questa statua?"
"E' Pinocchio" rispondo pronto.
"Non faccia lo spiritoso, questa è l'arma con la quale ha ucciso la signora, poi è andato in camera ed ha preso i soldi."
"No, c'era  il gatto che si mangiava il topo eh.."
"La smetta con le scemenze. Il geometra Occhiuto l'ha vista muoversi affannosamente sporco di sangue e con i soldi in mano."

Mi portano fuori, in mezzo alla folla inferocita. Sono il mostro di Varese. Urla e parolacce al mio passaggio.
Sono in ciabatte, smerdato di sangue e pieno di graffi.

"Che orrore, guardategli la faccia e come si tocca il culo"
"A me non è mai piaciuto, con quel naso li"
"Maniaco l'hai anche stuprata quella vecchia"
"Si, pervertito, l'hai uccisa a morsi"
Vengo spintonato e sballotato, qualcuno riesce a tirarmi pure qualche pugno in testa. Ovunque occhi pieni di odio.
Vorrei difendermi, ma non so che dire. Tutto è così ridicolo.


Io ho solo dormito.




                                               "Chiude la porta, da fuori sento un rumore, come un tonfo": la signora Gertrude scivola sul naso rotto di Pinocchio ancora in terra, batte la testa sul pavimento e muore sul colpo"

 
 
 

IL TESTAMENTO

Post n°50 pubblicato il 23 Settembre 2007 da fabio1972dgl

Sono un vecchio rimbambito questo lo so anche da me. Dovrei scrivere il testamento e andarmene, questo solo dovrei fare, ma sono sempre stato un perditempo io, e ora non mi va.
Ho sempre rimandato tutto, ogni decisione, ogni impegno, ogni appuntamento. Ho sempre aspettato che la vita, o gli altri decidessero  per me. Anche le cose importanti, quelle che mi stavano davvero a cuore, rimanevano come appese al cielo sulla mia testa, ed io mai mi sarei sognato d'allungare le braccia e afferrarle. E non era l'eventuale sforzo a impedirmelo, o la probabile fatica, ma la noia, semplicemente la noia.

Ho conosciuto Barbara, mia moglie, che avevo già quarant'anni.
Ricordo che camminavo per le vie del centro con le mani in tasca e fischiettavo quella canzone antipatica, come si chiama, la "Cucaracha": in assoluto la melodia più noiosa e ripetitiva mai scritta, una specie di solfeggio assurdo che se ti entra in testa non te ne liberi più per tutto il giorno. Io ero davanti ad una libreria intento più a specchiare la pelata al vetro che a leggere i titoli in vetrina e la canticchiavo tra me e me finchè lei, Barbara, non mi venne vicino:
"La smetta per favore, mi deprime"
"Mi scusi, qual è il problema?
"Quella canzone, basta, è noiosa".
Aveva i capelli neri e gli occhi neri. La bocca era voluminosa ma il sorriso piccolissimo.
Rimanemmo una buona ora a parlare davanti a quella libreria. Di canzoni, di musica e di libri. Fu lei ad invitarmi per un caffè, poi fu sempre lei ad organizzare incontri e serate. Non le chiesi di sposarmi nè lei lo chiese a me. Semplicemente lei scelse la data, ed io la domenica ero spesso libero.

Da giovane sono stato un bel vecchio. Ho vissuto l'adolescenza e gli anni successivi senza acuti e pazzie. I miei genitori mi hanno impartito un'educazione d'altri tempi. Mio padre rigido ed ignorante inventava regole per ogni cosa. Urlava e agitava i pugni se non veniva ascoltato.
"Alle 11.40 ti voglio a casa".
"Se esci venerdi sera, non esci domenica pomeriggio".
Se chiedevo perchè, un pugno da spaccare il tavolo era la risposta.
Mia madre oltre che ignorante era apprensiva. In ogni angolo vedeva un pericolo, ogni oggetto poteva essere causa di ferite, se non di morte. Mio padre mi ha lasciato in eredità l'inerzia, mia madre la paura. Entrambi la vergogna. Io li ho amati tanto, ma mai quanto li abbia odiati.

Con il lavoro non ho avuto maggiore fortuna. Una vita in fabbrica tra bulloni e brugole in catena di montaggio. Tutto il giorno con l'avvitatore in mano a montare un pezzo sul solito pezzo, senza mai costruire niente senza mai sbagliare nulla. Grottesca metafora della mia vita che ho compreso solo più tardi.
Dopo quarant'anni di lavoro il mese scorso sono andato in pensione.
Ora ho più tempo libero per non fare nulla.

Seduto sulla panchina contavo i piccioni. Di solito non arrivavo a contarne quaranta che già mi stufavo. Poi però mi scocciava l'idea d' essermi fermato e ripartivo daccapo, per fermarmi però quasi subito. Alla fine contavo sempre gli stessi. I piccioni sono tutti uguali.
Non gli davo mai da mangiare, mi sembrava una cosa da vecchi.
Quel pomeriggio ero in piazza e non volevo tornare a casa. sapevo che mia moglie si vedeva con l'amante, il ragioniere del piano di sopra. Io ho sempre fatto finta di non sapare, d'altronde stavo bene con lei, parlava poco e non era mai a casa.
Così quel pomeriggio ero in piazza, contavo i piccioni, sbadigliavo e perdevo tempo. Poi una melodia provenire dal bar di fronte attirò la mia attenzione: era la "Cucaracha".
Entrai in quel caffè per la prima volta proprio quel giorno dopo quarant'anni, e una donna minuta e carina mi accolse da dietro il bancone. Aveva i capelli biondi e gli occhi chiari. La bocca era piccola ma il sorriso enorme. Si chiamava Barbara.
Rimanemmo una buona ora a parlare di tutto di niente e di piccioni. Non le chiesi se fosse sposata, non mi domandai se avesse figli o sogni.
Mi diede un bacio, questo è tutto quel che so.
Mi diede un po' del suo tempo, questo è ciò che ricordo.

I piccioni sono tutti uguali, almeno in apparenza. Gli uomini, si mischiano e vivono in gruppo, in perfetta solitudine. Tutti uguali.
Forse a scavare qualche differenza si trova ma di fuori vedi la noia,  la solita musica.
Barbara è morta. Tutti i suoi soldi quelli che ha guadagnato con il bar in una vita mai spesa li ha lasciati a me, l'ultimo piccione tra i tanti ciondolanti al suo bancone.


Io sono un vecchio  rimbambito questo lo so anche da me. Dovrei scrivere il testamento e andarmene, questo solo dovrei fare, ma cammino e fischietto per strada, nella speranza che ancora succeda qualcosa.
In fondo andrebbe bene anche la solita solfa.







 




 
 
 

DUE FANTASMI DAL TOCCO UMANO

Post n°49 pubblicato il 10 Settembre 2007 da fabio1972dgl

Il giorno in cui uscii dal mio corpo non trovai nessuno ad aspettarmi fuori.
Presi a girare per le strade del paese invisibile e impalpabile tra le piazze e le viuzze.
In una ruga mi fermai ad ascoltare un vecchio con la fisarmonica che a più riprese provava ad intonare "Cielito Lindo". Aveva i denti gialli e le unghie nere e sulla sua tracolla c'era scritto "Dolores". In effetti a guardarlo bene di dolori nella vita doveva averne avuti parecchi. 
Io ne avevo quel giorno. Non che potessi provare dolori fisici io, ma ero senza corpo non senza cuore, e una specie di nervosa nostalgia, come una fitta, mi trapassava da parte a parte.
Ero un fantasma ed ero sottile certo, ma se una lama taglia tutto quello che sei, provi dolore anche se sei poco.
Il vecchio continuava a cantare, ma per la gente era invisibile quanto me, ed il suo cappello sul marciapiede rimaneva desolatamente vuoto. 

Non ero diventato fantasma d'improvviso. Una serie di sventure pian piano avevano staccato il pensiero dal corpo, me da me stesso.
All'inizio ci fu un danno all'udito. Ero diventato sordo, sordo alle mie richieste, alle mie esigenze. Parlavo con me stesso, ma non mi ascoltavo più.
Venne fuori poi una sorta d'immobilità. Una parte di me si fermò completamente. Per quanto cercassi di portarmela dietro questa si sedeva e s'arrestava senza sentire ragioni. Tra l'altro era la parte offesa dalla sordità.
La situazione precipitò irrimediabilmente tanto che la distanza tra me e me stesso divenne tale che mi era diventato impossibile abbracciarmi.

E allora giravo senza corpo tra le vie del paese. Ero un fantasma e in nessun posto c'era chi mi aspettasse.
Ora ero qui, davanti a quest'uomo invisibile che senza brio alcuno cantava la stessa canzone da chissà che giorno. 
Scoraggiato, la sua voce tremava sempre più, svogliato, le sue dita si muovevano pesanti su tutti quei tasti.
La gente sfilava davanti a lui con estrema noncuranza, e il suo canto era simile ad un lamento.

Io invece incantato ascoltavo il vecchio e avevo la sensazione che anche lui mi vedesse, che si fosse accorto che in mezzo a tanta indifferenza, uno spettatore, una presenza, una persona per lui ci fosse. Io.
E allora attaccò di nuovo la prima strofa con energia e vigore e a me parve di sentire la mia pellaccia venirmi incontro  Così durante l'urlato ritornello cantanto in coro il cappello si riempì di qualche moneta e fu il momento per me di risentire il sole sulla faccia e l'aria sulla pelle.

Mi venne incontro con un sorriso fatto di gengive rosse e denti gialli:
"Ancora senor, ancora"

                                                  

                                                   ( Finale Ligure, 24 agosto 2007)


 















 



 
 
 
 

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UNO SGUARDO ALTROVE

 

IO

Io amo, non corrisposto, l'ozio

scrivo due post al mese
uno lo pubblico
l'altro lo cancello

questo mese ho pubblicato quello sbagliato:

questo.

Se qualcuno
per caso,
trovasse una bozza piena d'amore

sappia
che era la mia.

Rimasta mio malgrado
lettera morta.

 

I MIEI MIGLIORI AMICI

Fante John  John Fante

immagine

Charles Bukowski

 

DA LEGGERE E RILEGGERE

DINO BUZZATI  - Un Amore -

JOSE' SARAMAGO  - l'Uomo Duplicato -

ERRI DE LUCA  - Il Contrario di Uno -

CHARLES BUKOWSKI  - Panino Al Prosciutto -

JOHN FANTE  - Chiedi Alla Polvere -

 

MUSICA IN AUTO

GOMEZ  - Split the Difference -

NEGRAMARO  - Mentre Tutto Scorre -

MAD SEASON  - Above -

ROLLING STONES  - Hot Rocks  1964-1971 -

VINICIO CAPOSSELA  - Canzoni a Manovella -

 
 
 
 

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