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Fino all'estremo

La vita è un datore di lavoro che non concede mai le ferie

 

 

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Ore Sedici e Ventotto Destino Fatale

Post n°91 pubblicato il 16 Maggio 2007 da tefnutlagatta
 

Ore sedici e ventotto, mi salta la luce in casa. E stavo scrivendo. Ed ero ispirata.
Una delle poche cose che chi scrive parecchio come scrivo parecchio io impara negli anni è che l’ispirazione non si comanda, quando arriva arriva, e può darsi che uno accocchi mesi e mesi di magra.
Perciò, quando arriva, niente si deve frapporre.
Vado in garage a cercare l’interruttore generale, trafelata e sudaticcia per il caldo infernale che regna nella stanza dove tengo il computer. La pila non funziona.
Corro in cucina. Mentre appiccico il mozzicone di una candela sul fondo di una tazza da latte, urto pentole che non sapevo d’avere, e che spero vivamente non siano quelle piene di parmigiana di melanzane. Casa mia è zeppa di candele, perché a volte trovo che la luce elettrica sia veramente fastidiosa, ed ho bisogno di vedere le cose meno chiaramente per immaginarmele meglio e tutte quelle robe lì da persone ipersensibili.
Mi avvio verso il quadro con questa tazza che tengo per il manico. M’immagino con la camicia da notte di seta e la cuffietta di raso con balze, unico flebile lumino di una fanciulla impaurita nel cuore della notte dentro la casa degli spiriti.
Tiro su l’interruttore. Nulla. Il buio assoluto.
A questo punto inizio a sentirmi sfavata, anzi, sono proprio sfavata nel profondo perché dentro il cervello sento già i concetti che avevo tanta voglia di mettere su carta sbiadirsi, diventare insensati ed inutili, come mi succede sempre quando rifletto troppo prima di passare alla scrittura. Cosa che non starei facendo adesso se non abitassi in un buco di culo di campagna del mondo dove se salta la luce ogni tanto è normale, come ti dicono al call center dell’Enel.
Decido di rassegnarmi a fare due cose che non faccio mai, cioè aprire le finestre e prendere un foglio e una penna.
Non scrivo a mano dal duemilauno, credo. Sì, lo so che non è una roba bella da dire, che non è carino immaginarsi uno che scrive cose che trae dal suo intimo alienato davanti a uno schermo, e che qualsiasi scrittore con cui parlerete vi dirà noooo, io scrivo a mano, è più personale, anzi, se mi capita scrivo anche sulla carta del pane, pensa quanto sono scrittore io che scrivo pure sulla carta del pane, eh?
Ma la mia è una grafia pessima. Non so scrivere in corsivo, mi riesce soltanto lo stampatello minuscolo, con grandi ed infantili maiuscole arzigogolate. Scrivo così male che in quinta elementare al mio posto a fare le scritte sui cartelloni ci misero un mio compagno di classe nato senza la mano destra. E non era mancino.
Prendo un foglio della stampante. La biro emette una traccia intensa per un paio di righe, dopodiché si scolorisce fino a diventare azzurro pallido, con rare venature scure lungo le curve delle O e delle R. Rovisto nei cassetti con urgenza. Niente. Era l’unica penna.
Abitare in campagna come ci abito io vuol dire dover prendere la macchina per comprare una penna.
Però non demordo. Sono determinata che Rambo mi fa un baffo a finire quello che avevo cominciato.
La Millamobìl ha finito il carburante. Il motore rantola appena.
Abitare in campagna come me significa avere il primo distributore a tiro a quattro chilometri da casa.
Non mi arrendo. Rambo non lo avrebbe fatto. Beh, ad essere sinceri Rambo faceva presto a dire che non si arrendeva. Aveva un arsenale spaventoso. Quando finiva un fucile non ricaricava i colpi, buttava via direttamente il fucile e ne prendeva un altro. Non sarebbe mai rimasto con la macchina a secco.
M’incammino sotto un cappellone di paglia veri fescion lungo la strada sterrata, pregando di non scottarmi come mi succede sempre quando la mia pelle color bidet viene esposta al sole per trenta secondi.
Ne frattempo osservo il paesaggio al di là del marciapiede. Olivi, sterpaglie. Odore di sterco marcio. L’estate in campagna ha questo di bello: sa di coito e di marciume. Non hai altro che sentori agrodolci di decomposizioni ignote. Tutto intorno è un mare di frutti caduti a terra aperti, che spargono liquami sull’erba secca.
In questi istanti mi sembra di capire cosa volevano dire i Gaz Nevada quando cantavano mamma dammi la benza/non posso fare più senza/ne sento già la mancaza/esiste la dipendenza.
E poi oh, sì, i momenti umani di Paul Verlaine. Io che appena ho un attimo di smarrimento mi rifugio nelle poesie dei maudits, quando lascio correre la fantasia non posso fare a meno di immaginarmi Verlaine che sta attaccando un quadro di un amico pittore sulle travi di legno della sua mansarda di charme. Si è tolto guanti ed è lì col martello e i chiodi, quei chiodoni allucinanti portatori di tetani fin de siècle. Ad un tratto si dà una martellata sul dito e gli esce involontariamente dalla bocca un francesismo del tipo ahia, puttana di quella troia di Arthur!

Dopo otto chilometri anda e rianda (il rianda per a cronaca si è svolto con una tanica piena di benzina da una tonnellata nella mano destra), che praticamente a comprare la penna potevo andarci a piedi, approdo alfine alla cartoleria tabacchi di Ponte a Signa.
Compro le sigarette. Me le merito.
Noto che il commesso si trattiene dal ridere a stento nel vedermi entrare.
Che ti serve?, mi fa tutto sornione.
Allora mi do un’occhiata nella vetrina.
Ho le braccia grigliate, la faccia è una pizza di sudore sotto il cappellone alla Sampei.
Mi sono pure messa i bermuda coi calzini.
Una Bic blu, gli rispondo.
Poi ci ripenso.
Anzi due, grazie.

 
 
 
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