Intolleranza zero
___________________________Lilia, la mia dolce amatissima Lilia, mi scrive parole che non so, non voglio capire.
“je crains ce que j’espere, la fin de soirée…”, scrive con quella sua calligrafia incerta, appena bagnata dall’ansia di decidere, che segna sempre la sua mutevolezza, per la quale mi è tanto cara sin dall’inizio. Le dico che solo incidentalmente mi sono deciso a riportare alcune sue parole, per un gioco letterario che ha poco a che fare con la nostra passione.
Lilia, mia dolcissima Lilia….se non avessi le carni così aspramente ammorbate dal tuo canto, se i miei occhi sapessero cercarti altrove, se le mie mani, cocciute, partissero per altre terre, allora si, potrei dimenticarti. Ma non posso, né oso. Temo la tua ira di erinni, la tua rabbia d’amore che investe il mio corpo, quell’oramai simulacro di un urlo che fu feroce, eppure conserva ancora un po’ della sua selvatichezza; non ostante il tuo complice prediletto, il tuo tempo amico, consumi per te fuochi piccoli e grandi, desideri detestabili e accettabili, livori e asti altrui.
Tu, del resto, non sai cos’è il rancore, non hai conoscenza di malignità e di odi: freddi spettri che possono agitarsi nell’animo di un uomo folle di gelosia, per te…giochi, e giochi ancora. Attenta, amore mio, potrei dimenticare in un attimo, dopo tanto aspettare, le tue braccia. Potrei enumerare ad uno ad uno i tuoi tranelli dalla veste fallace; so riconoscere quando la tua voce trema in un incedere incerto; misuro a memoria l’ampiezza delle tue braccia negli incontri che riservi, piccola fiammiferaia a corto di fuoco, al tuo diletto senza quieti. Non incontrarmi nel buio della tua assenza, poiché è quello il momento in cui la mia passione per te verserebbe in pazzia. Non scappare mia lepre, ti inganni se credi nel mio inganno. Odi come la mia lingua fischia l’ennesimo richiamo? Sempre tornerai da me, sempre.
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Mi accostai allo spiraglio e chiesi il permesso di fargli una domanda. “Sentiamo”, rispose continuando a radersi allo specchio.
Presi sul tragico un mio pensiero ridicolo: che allo specchio erano in due, perciò diceva “sentiamo.” Avrei voluto rinunziare perché quella espressione mi metteva di fronte a un uditorio ufficiale. Quella che era una mia iniziativa di chiedere si rivoltava in cuor mio in un interrogatorio da parte loro. Oggi so che in ogni frase pronunciata c’è l’anima di una domanda, allora temevo che in ogni domanda fosse contenuta una risposta che non sapevo riconoscere.
Ero lì a prendere la parola davanti agli uomini.
Volevo sapere perché, quando gli eventi tardano, uno è in attesa. Pensavo alla tua caduta di stizza, in una tensione che trasformava d’improvviso tutta una porzione di tempo in una fissità, in un indurimento di nervi, in un’attesa.
Chiesi perciò attraverso la porta socchiusa del bagno:
-Perché esiste l’attesa?
-L’attesa di cosa?
Feci una pausa. Riprese con un tono più gentile: L’attesa di cosa?
-Se mamma non viene, tu l’aspetti?
-Certo.
-Se manca la luce aspettiamo che torni?
-Non riesco a seguirti, ma non fa niente. Si aspettiamo che torni.
-Per ogni cosa che fa tardi e bisogna aspettare, noi siamo sempre in attesa?
A questo punto la mia dizione si fece più incespicata.
-Papà, se io non voglio stare in attesa e voglio stare senza attesa, posso?
Allora interruppe di radersi, aprì del tutto la porta e, come se avesse capito una cosa, non so quale, disse solo così: ”Se tu sarai capace di stare senza attesa, vedrai cose che gli altri non vedono.” Poi aggiunse ancora: “Quello a cui tieni, quello che ti capiterà, non verrà con un’attesa.”
N.B. Coloro che individueranno l'autore del brano riceveranno in omaggio un buono di 5 minuti...
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- Permette signorina? La storiella di Tuiavii è tratta da "Comunicare in modo etico" di M.T. Giannelli
- Dica pure.
- Vorrei parlarle del tempo.
Lei ride come chi conosce l’argomento perché banale e di uso diffuso quando non si sa cosa altro dire. Così stancamente… - Dica, dica...
- Tuiavii, un saggio capo indigeno delle isole Samoa, venuto a contatto con l’uomo bianco, che chiama Papalagi, riflette sul tema del tempo per noi incivilizzati. Il Papalagi ama sopra ogni cosa ciò che non si può afferrare e che è pure sempre presente: il tempo. Sebbene non ce ne sia mai più di quanto ne può stare tra il levarsi e il cadere del sole, il Papalagi è sempre scontento del suo tempo e si lamenta con il Grande Spirito perché non gliene ha dato abbastanza. Così si rovina ogni momento tormentandosi con il pensiero: “non ho tempo di essere contento”. Il tempo è lì, ma con tutta la buona volontà, lui non lo vede… Il Papalagi impiega tutte le sue energie e consuma tutti i suoi pensieri per rendere sempre più pieno il suo tempo, dà ali alle sue parole, sempre per avere più tempo. Che cosa ne fa alla fine il Papalagi del suo tempo? Non sono mai riuscito a capirlo… Il Papalagi non ha compreso il tempo, non lo riconosce per quello che è, e perciò lo maltratta con i suoi rozzi costumi. Ma il tempo è silenzioso e ama la pace e la calma e lo stare distesi su una stuoia… Oh miei cari fratelli! Dobbiamo liberare il povero e smarrito Papalagi dalla sua follia, dobbiamo ridargli il suo tempo…e annunciargli che dal levarsi al calare del sole c’è molto più tempo di quanto un uomo può avere bisogno.
La signorina era stranita e sorpresa.
- Scuserà l’irriverenza di presentarle un così delicato argomento nel momento iniziale della nostra conoscenza, ma ho sperato che lei avesse tempo a sufficienza per ascoltare la mia storia.
Ed io, ancora.
- Avrà notato la nota equivalenza?
- Cosa? – ancora più frastornata.
- L’equivalenza tra il bisogno di denaro e quello di tempo: Ho perso tempo/ho perso denaro; ho investito tempo/ho investito denaro; ho guadagnato tempo/ho guadagnato denaro. Quasi che il tempo si scambiasse con una moneta.
- Io ho le tasche vuote – disse lei con gli occhi spalancati come i fanali di un maggiolone.
- Appunto, le dicevo che lei aveva il tempo per ascoltare la mia storia.
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"Aveva l'aria così sicura, vero?
Eppure nessuna delle sue certezze
valeva un capello di donna".
Lo straniero, Albert Camus
Una luce che non cade mi tiene sveglio come in un sogno. Quella volta che non ti alzasti dalla sedia, quella volta che non facesti una parola, quella volta che non mi voltasti le spalle mentre andavo, quella volta che sei restata lì, ferma, piantata come l’ulivo del mio giardino, tutte quelle volte mi sono sentito stupido. E’ in un posto lontano e sotto di gradini, mille, dove tu mi guardavi stupita. Io stupido, tu stupita. Sono tornato sulla panchina dove ci demmo l’appuntamento. Sono stato puntuale. Mi hai sorriso. E hai detto - si va a prendere un gelato? – La mia donna è un tipo da gelati e attese. Un tipo di profondità mute e di nebbie che per dilatarle devi soffiarci dentro un sacco di fuoco e calore. Io scherzo un poco, per fugare l’imbarazzo, muto come pesce, e sento la strada che mi corre sotto il piede. Dove andiamo? Ho tanta voglia di arrivare in quel posto dove soli ci perdiamo e quello che esiste non esiste più e io non ho paura perché c’è la tua mano che esiste. In quel posto dove non esiste altro.
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Eccoti regalato alla vita,
Le tracce di sangue ricordano il dolore
Il dolore per cui tua madre è stravolta
Tuo padre non tocca terra.
La vita passa il testimone alla vita.
Il futuro ha la giovane luce dei tuoi occhi
Lotta tra l’azzurro e le tenebre.
Abbi educazione, rispetto, carattere e lealtà,
Non aver paura degli errori.
Sin dalla prima pagina
Vivi ogni riga che scrivi.
Costruisci il tempo
Impara a correre
Sogna i tuoi sogni
Prova ad afferrare il sole
Io non farò altro che guardarti
Come la prima volta
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Scende le scale. Ha un velluto morbido ai fianchi. Penso che non è tardi. Penso che la testa mi gira.
Vorrei stendere le parole come lenzuoli, vorrei che non ci fossero strade oscure. E forse non c’è ne sono. Quello che non diciamo mi pare detto. Abbiamo deciso con gli occhi ciò che era importante. Però la vita giunge a destare, con suo naturale rumore, l’incanto. "L’incanto di me vicino a te". Mi pare che una piccola onda possa portare uragani e io non posseggo radar per decifrare la portata di tempeste. Nell’amore, non so urlare. Non ho mai saputo. Tutto ciò che accade mi brucia l’anima a pezzi piccoli, mi mangia un po’ per volta. Così, alla fine, finisco per avere le ossa rotte e l’alito di vodka.
Sono Vladimir?
Sono un saltimbanco che non si capacita del dolore che mi dai, quando scendi le scale.
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Alla donna che non amo
"Perché per le donne, nell'amore,
si racchiude ogni resurrezione,
ogni salvazione da qualunque caduta
e qualunque rinascita
se non appunto grazie ad esso".
Memorie dal sottosuolo
Fedor M. Dostoevskij
“Rende un soffio più di un bacio. Rende consapevoli. E stanchi. Mentre poggiavi la mano sul manubrio, già sentivo la corsa e me ne affaticavo. Non crederò ad una sola parola che sale alle tue labbra come inchiostro”.
Accidenti, voi donne che pensate!
L’altro giorno le ennesime parole. Di chi sente un piede, bianco come calla, preso in una tagliola. Di chi crede di essere inseguito mentre insegue. Di chi ha dolore di amare. Le dico – non perderti dietro i vetri. Vivi - Ma lei è troppo impegnata a pensare. E’ già in cerca dei suoi errori e vagheggia ipotetici tradimenti quando le dico che è finita. Istintivamente abbasso lo sguardo. Tante macchie sulle scarpe come colpe. Porto la relazione alla sua fine per mano, la accompagno come un bambino all’entrata della scuola. Ora vai. Che suona la campana.
Ma voi donne, che pensate! Lei piange goccioloni di chi improvvisamente scopre di aver sempre saputo ma che fare lo struzzo è più comodo che fare l’aquila. Io penso che la verità quando è scoperta è dura come un pugno ma fa male un solo momento. Invece, voi preferite che vi si accolga il pianto, che un fazzoletto esca dal taschino, che vi si inventi una spiegazione plausibile. Mille spiegazioni plausibili… V’è ne una più plausibile di – non ti amo? - .
Una volta ho conosciuto una donna. Non ha pianto. Non ha chiesto spiegazioni. Ha voltato le spalle e mi ha detto – vai felice - . Mentre andavo, non felice, pensavo che esiste qualcuno che non baratta un abbandono con una colpa. E non mi si dica che è obbligatorio dar sfogo all’emotività. Che è naturale, che in certi momenti non ti controlli, che quando vieni lasciato dai il peggio di te. Che la rabbia ti morde la gola e le parole…
Io non ho il fazzoletto nel taschino. Ti dirò solo verità. Non ti consolerò nell’abbandono. E finalmente non sentirò colpe. Per non averti amato.
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Rilassarsi. Come ascoltare un fado triste o sentire una mano sulla pelle calda di sole. Come vedere un’onda che rumora e poi tace, in un risucchio che è attesa. Attesa di una venuta. Non è questo che faccio?
Attendo una venuta.
Leucade mi assomiglia. Ha le strade senza parapetti. Le piante le crescono disordinate e selvagge sui dorsi montagnosi. E se l’occhio ha voglia di una vertigine, lo volti verso il basso e il mare celeste, senza fondi, lo perde.
Andare in vacanza quando gli altri si gustano il momento in cui partiranno. Sono partito subito. Via.
Ma una vacanza non finisce al ritorno. Ma ritorna tempo dopo. L’immagine è forte quanto un cuore. Rimane anche laddove dovresti perderlo. Nel treno quotidiano. Nella stanchezza che arriva di sera. Nelle mani che non sanno quello che fanno. Nei sorrisi elargiti come favori a mille diversi. Nell’ipocrisia che ti tocca sempre, anche quando vorresti regalare un pugno o un urlo. La vita serve a perderti.
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"Non sprecare forze con i dubbi,
non ti dirò nessuna bugia"
Erri De Luca, Il contrario di uno
(Lilia) - Trovi che Erri De luca sia bravo? Io adoro il suo modo di scrivere...
Segue, come da abitudine, una riflessione sull’argomento.
Quando mi fanno una domanda, rispondo con le parole del momento; a disposizione si può avere un gran pensiero o un pensiero mediocre. Ma se ci penso sopra, almeno avrò un cardine più saldo cui ancorare le mie parole sciolte.
In verità, già durante la lettura stessa del libro Il contrario di uno, c’era una pagina che mi aveva acceso il pensiero. Quella in cui i due (il contrario di uno) insieme in montagna, fotografano la scena di compagni di cordata. L’uno dipende dall’altra. Lui fissa il suo nodo, un nodo da marinaio a terra che non dimentica il suo mare. Un nodo doppio.
Alcuni autori hanno una scrittura doppia, come un rovescio e un diritto, più spesso come un segreto o un nascosto. Sempre hanno una tenda sul cuore. Si crede che chi scriva metta a nudo la parte vera, quella profonda, quella che non spoglieresti neanche dinanzi al tuo creatore.
Se esiste, in luogo di un caso spudorato.
Se questo avviene però, è solo per un riflesso. Inconsapevole e naturale come un sbadiglio. Se ne accorge il lettore e allo scrittore non capita che molto dopo una pubblicazione. Se è fortunato, al termine del manoscritto. Altrimenti bara. Quelli con molto mestiere, barano. Ma sempre gli scappa un accento personale, un chiodino autobiografico che gli si conficca tra una virgola e un punto e non va più via. Le revisioni non servono.
Ecco, Erri è uno scrittore di sangue. Di quelli che hanno una vita e sentimento e amore e rabbia. E mettono tutto in parole, senza neanche uno straccio di schermo a protezione. Questo è quello che arriva. Non è poco. Chi scrive, comunica. Lui lo sa fare.
Poi, esiste uno scrittore di secche, mediato come un compito assegnato, che è difficile leggere, perché anche se scrive bene, non si capisce cosa voglia dire davvero.
Senza fare la lista degli autori che rendono le mie notti vivibili, ricordo un Aleksander S. Puškin che mi fece fare così tante giravolte da avere la testa scekerata. Tatiana mi ha insegnato una donna. E Onegin, la colpa nell’inconsapevolezza.
Il simbolo dell’esistenza è duale, quindi. Io e te. Io e il cane. Io e la scrittura. Io e io.
Ripenso ad una scrittura trasparente come vetro.
Che sale irta tra le nebbie, lasciando intravedere solo torri. Le valli sono per il costruttore. Devono essere ben salde, come fondamenta.
Una scrittura che a toccarla, arroventa l’occhio e congela la mano.
Una scrittura profonda come fiordo, che non sai dove finisca. Ma ne conosci l’inizio.
Una scrittura che mi parli sempre di te, anche quando parla del rubinetto che gocciola.
Di là, in cucina.
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Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto Adoro le piante. Mi prendo cura di loro come molti prendono cura di un animale domestico che condivida il nostro spazio e il nostro sonno. Nella stanza da bagno disegno petali bianchi di schiuma sul viso per radermi. Guardo nello specchio il mio viso riflesso. Forse, andando in un’aria di vetro di primo mattino ( Montale lo adoro come e più delle piante), con la mano nella sua, con la scuola che la attende, volgeremo insieme i visi e scopriremo la stessa identità. Myriam è mia madre.
arida,rivolgendomi vedró compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andró zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Eugenio Montale, Ossi di Seppia
Le piante condividono il mio sogno.
Entra mia madre e sistema, senza fare rumore, qualcosa nell’anta a sinistra. Il suo viso per un attimo entra nella stessa porzione di specchio che accoglie il mio. E la scorgo. Vedo la nostra identità, la nostra somiglianza. E’ una legge già compiuta e data una volta e per sempre. Io sono lei e lei è me. I suoi occhi hanno il blu carico dei miei. La sua bocca è una duna indurita che disegna onde sull’oceano solcato del suo viso. La mia faccia, quella che porto dietro nelle molte aule di tribunale, quella che piego in smorfie di dolore, quella che ti mostro senza pudori. E’ una faccia delicata che uso per andare in montagna. La quota, quand’è alta, mi inebria.
La stessa bocca piena di carne, dal contorno fine e deciso. Una sarta avrebbe avuto la stessa precisione per quel taglio? Vado con la memoria ad una foto che custodisco. Il portaritratti è di forma ovale e racchiude il suo viso da giovane. Guarda altrove. Della stessa sostanza, a sua immagine. Mia madre è dio.
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