Creato da tefnutlagatta il 02/07/2006

Fino all'estremo

La vita è un datore di lavoro che non concede mai le ferie

 

 

Personaggi letterari

Post n°93 pubblicato il 28 Maggio 2007 da tefnutlagatta
 

A volte ho una voglia matta di godermi il mio personaggio letterario. La mia aura di donna altezzosa immersa in pensieri torbidi, troppo sfuggente per non risultare ammaliante.
Mi piacerebbe mettermi qui a scrivere che ho uno sguardo solido nel guardare il mondo. E sentimenti incomprensibili ai più.
Vorrei poter raccontare di come tutti si innamorano di me, e di come io non abbia altro che il compito di scegliere. Se non fosse che far innamorare me è così difficile. Perché nessuno è alla mia altezza. Perché è troppo fico dirlo.

Ma la realtà è che è quasi estate, io non c'ho un cazzo di voglia di occuparmi del mio corpo scarnificato da un inverno di eccessi, che praticamente sono due costole in croce. Non riesco ad uscire dalla mia perenne crisi con gli studi, e dire che me li potrei bere tranquillamente. Quando parlo con una persona nuova quel che risulta è che sono davvero una tipa strana, magari simpatica, ma troppo umorale. E l'unico personaggio letterario di cui ho la sindrome è Madame Bovary, che si innamora sempre di uomini presso i quali ha la stessa importanza di un buco nel muro. E non si accorge del servetto che va in estasi soltanto vedendola sciogliersi i capelli. E si avvelena con l'arsenico. E muore sola e con la bava alla bocca eccetera.
E poi non ce la faccio a smettere di comprare gioielli di Tarina Tarantino.
Altro che artista algida e ammaliatrice.
Ora mi faccio un Cuba Libre per dimenticare, ma prima una domanda ai miei onorevoli lettori: che personaggi letterari sareste?


 
 
 

La donna che visse due volte

Post n°92 pubblicato il 23 Maggio 2007 da tefnutlagatta
 

Sembra che sparsa da qualche parte nel Veneto io abbia un'omonima.
Una ragazza giovanissima che qualche tempo fa si è cimentata nella googlata che almeno una volta nella vita abbiamo fatto tutti, inserendo il nostro nome e cognome nei campi di ricerca. Sperando che il nostro ex ragazzo non abbia deciso di diffondere QUEL video per vendicarsi di quando lo abbiamo lasciato da solo in una camera d'albergo per andare ad una festa di capodanno (ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale).
E ha trovato me. Che mi chiamo come lei.
La cosa che mi commuove è che questa Camilla di cui vi parlo è talmente giovane che non ha mai conosciuto i Marillion o i Frankie Goes to Hollywood, non ha visto i picconi darci gioiosamente sotto sul muro di Berlino ed aveva meno della metà dei miei anni quando è morto Kurt Cobain e dall'altra parte dell'oceano Ambra Angiolini pubblicava il suo capolavoro indiscusso T'appartengo. Che, a ripensarci adesso, l'apocalisse nel novantaquattro doveva sembrarci maledettamente vicina.
Non riesco davvero ad immaginarmi una ragazza che porta il mio stesso nome e non ha fatto queste esperienze. Non ha mai ballato Corona alle feste a casa di amici. Non si è mai messa le camicie larghissime a quadretti, i pantaloni larghi e le Doctor Marten's sotto.
Ciao, Camilla. Al momento mi posso soltanto sedere qui davanti e fantasticare su quante altre situazioni totalmente assurde avrai vissuto nei tuoi sedici anni. Diverse e variegate rispetto alle mie , anche se magari, a volte, portano lo stesso nome.
Come me e te.

 
 
 

Ore Sedici e Ventotto Destino Fatale

Post n°91 pubblicato il 16 Maggio 2007 da tefnutlagatta
 

Ore sedici e ventotto, mi salta la luce in casa. E stavo scrivendo. Ed ero ispirata.
Una delle poche cose che chi scrive parecchio come scrivo parecchio io impara negli anni è che l’ispirazione non si comanda, quando arriva arriva, e può darsi che uno accocchi mesi e mesi di magra.
Perciò, quando arriva, niente si deve frapporre.
Vado in garage a cercare l’interruttore generale, trafelata e sudaticcia per il caldo infernale che regna nella stanza dove tengo il computer. La pila non funziona.
Corro in cucina. Mentre appiccico il mozzicone di una candela sul fondo di una tazza da latte, urto pentole che non sapevo d’avere, e che spero vivamente non siano quelle piene di parmigiana di melanzane. Casa mia è zeppa di candele, perché a volte trovo che la luce elettrica sia veramente fastidiosa, ed ho bisogno di vedere le cose meno chiaramente per immaginarmele meglio e tutte quelle robe lì da persone ipersensibili.
Mi avvio verso il quadro con questa tazza che tengo per il manico. M’immagino con la camicia da notte di seta e la cuffietta di raso con balze, unico flebile lumino di una fanciulla impaurita nel cuore della notte dentro la casa degli spiriti.
Tiro su l’interruttore. Nulla. Il buio assoluto.
A questo punto inizio a sentirmi sfavata, anzi, sono proprio sfavata nel profondo perché dentro il cervello sento già i concetti che avevo tanta voglia di mettere su carta sbiadirsi, diventare insensati ed inutili, come mi succede sempre quando rifletto troppo prima di passare alla scrittura. Cosa che non starei facendo adesso se non abitassi in un buco di culo di campagna del mondo dove se salta la luce ogni tanto è normale, come ti dicono al call center dell’Enel.
Decido di rassegnarmi a fare due cose che non faccio mai, cioè aprire le finestre e prendere un foglio e una penna.
Non scrivo a mano dal duemilauno, credo. Sì, lo so che non è una roba bella da dire, che non è carino immaginarsi uno che scrive cose che trae dal suo intimo alienato davanti a uno schermo, e che qualsiasi scrittore con cui parlerete vi dirà noooo, io scrivo a mano, è più personale, anzi, se mi capita scrivo anche sulla carta del pane, pensa quanto sono scrittore io che scrivo pure sulla carta del pane, eh?
Ma la mia è una grafia pessima. Non so scrivere in corsivo, mi riesce soltanto lo stampatello minuscolo, con grandi ed infantili maiuscole arzigogolate. Scrivo così male che in quinta elementare al mio posto a fare le scritte sui cartelloni ci misero un mio compagno di classe nato senza la mano destra. E non era mancino.
Prendo un foglio della stampante. La biro emette una traccia intensa per un paio di righe, dopodiché si scolorisce fino a diventare azzurro pallido, con rare venature scure lungo le curve delle O e delle R. Rovisto nei cassetti con urgenza. Niente. Era l’unica penna.
Abitare in campagna come ci abito io vuol dire dover prendere la macchina per comprare una penna.
Però non demordo. Sono determinata che Rambo mi fa un baffo a finire quello che avevo cominciato.
La Millamobìl ha finito il carburante. Il motore rantola appena.
Abitare in campagna come me significa avere il primo distributore a tiro a quattro chilometri da casa.
Non mi arrendo. Rambo non lo avrebbe fatto. Beh, ad essere sinceri Rambo faceva presto a dire che non si arrendeva. Aveva un arsenale spaventoso. Quando finiva un fucile non ricaricava i colpi, buttava via direttamente il fucile e ne prendeva un altro. Non sarebbe mai rimasto con la macchina a secco.
M’incammino sotto un cappellone di paglia veri fescion lungo la strada sterrata, pregando di non scottarmi come mi succede sempre quando la mia pelle color bidet viene esposta al sole per trenta secondi.
Ne frattempo osservo il paesaggio al di là del marciapiede. Olivi, sterpaglie. Odore di sterco marcio. L’estate in campagna ha questo di bello: sa di coito e di marciume. Non hai altro che sentori agrodolci di decomposizioni ignote. Tutto intorno è un mare di frutti caduti a terra aperti, che spargono liquami sull’erba secca.
In questi istanti mi sembra di capire cosa volevano dire i Gaz Nevada quando cantavano mamma dammi la benza/non posso fare più senza/ne sento già la mancaza/esiste la dipendenza.
E poi oh, sì, i momenti umani di Paul Verlaine. Io che appena ho un attimo di smarrimento mi rifugio nelle poesie dei maudits, quando lascio correre la fantasia non posso fare a meno di immaginarmi Verlaine che sta attaccando un quadro di un amico pittore sulle travi di legno della sua mansarda di charme. Si è tolto guanti ed è lì col martello e i chiodi, quei chiodoni allucinanti portatori di tetani fin de siècle. Ad un tratto si dà una martellata sul dito e gli esce involontariamente dalla bocca un francesismo del tipo ahia, puttana di quella troia di Arthur!

Dopo otto chilometri anda e rianda (il rianda per a cronaca si è svolto con una tanica piena di benzina da una tonnellata nella mano destra), che praticamente a comprare la penna potevo andarci a piedi, approdo alfine alla cartoleria tabacchi di Ponte a Signa.
Compro le sigarette. Me le merito.
Noto che il commesso si trattiene dal ridere a stento nel vedermi entrare.
Che ti serve?, mi fa tutto sornione.
Allora mi do un’occhiata nella vetrina.
Ho le braccia grigliate, la faccia è una pizza di sudore sotto il cappellone alla Sampei.
Mi sono pure messa i bermuda coi calzini.
Una Bic blu, gli rispondo.
Poi ci ripenso.
Anzi due, grazie.

 
 
 

Immaculate

Post n°90 pubblicato il 07 Maggio 2007 da tefnutlagatta
 
Tag: love

Ubriaca a morte. Praticamente ho passato la notte a camminare, sveglia, scalza, attorno al letto.
Non mi sono nemmeno tolta i vestiti. Sono scesa in cantina, e dovevo essere davvero fuori di me per scenderci in piena notte. Con tutto il  mio contorno di fobie eterne, la paura del buio, degli insetti, di quanto possa farmi sentire male l'umido sul collo. C'era questo vino vecchissimo, una bottiglia senza nome che sembrava depositata da secoli interi. L'ho stappata in camera senza cavatappi, semplicemente con le mani. Il liquido ha lasciato subito un alone rosso intenso sulle pareti di vetro.
Un vino pessimo che si sentiva che non era fatto per invecchiare. Era diventato liquoroso e amarognolo. Dopo due bicchieri avevo gli occhi fuori dalle orbite per l'ubriacatura.
Non riuscivo più ad andare sulle scarpe. Tuttavia camminavo sempre più in fretta, spedita dalla rabbia che mi si agitava sotto le clavicole. L'alcol le spianava la strada ma le smussava anche gli spigoli. Faceva il lavoro dello scultore dopo lo sbozzo. La forma, la pesantezza del blocco erano gli stessi, era nella grazia la differenza.
Il letto, totalmente sfatto, con le coperte sbracate per terra piene di impronte fresche, fangose dei miei stivali, attirava la mia attenzione.
Non mi ricordavo nemmeno quando le avevo messe, quelle lenzuola bianche. Mi sembrava in una vita precedente, però. Un letto singolo, letto da ragazzini, ma anche ora mi mancano i soldi per comprarne uno più grande. Ci si distendeva sopra una mappatura interminabile di segni. Gocce di sangue, fuoriuscite da me e da te, di tante giornate che abbiamo fatto l'amore come automi, di continuo, finché le forze non ci hanno abbandonato, finché non ci siamo sentiti le braccia stanche. Le mie mestruazioni. Il taglio sul tuo braccio. Perché fuori pioveva, e non c'era un cazzo da fare.
E' stato meglio così che aspettare la morte.
Poi una macchia unta, vischiosa, ti chiedevo quando te ne saresti andato mentre mi spalmavo la crema. E tu urlavi subito! Subito, e non mi faccio più trattare così. Ti guardavo impassibile, e lo ero anche dentro. In quell'attimo stavo assorbita nel mio massaggiare il corpo nudo, nello sfregarmi i geloni delle ginocchia e l'unica cosa che pensavo era che non avrebbero riattaccato il riscaldamento prima di novembre.
Le punteggiature slargate d'olio. I piselli col prosciutto. Ce li siamo mangiati a letto, con foga. L'unico alimento che c'era in casa. Nessuno che avesse voglia di uscire a fare spesa, a fare qualunque cosa che non fosse stare dentro camera mia a spalancare le gambe all'altro. Entravi ed uscivi da me, non ricordo nulla, a tratti non ricordo nemmeno questo, la verità è che mi sentivo trascinata, stanca e poi all'improvviso accecata dal tuo corpo, e guardavo quelle macchie che avevi lasciato, leggermente in rilievo.
E mi sembrava di ricordare tutto,  ogni istante, ogni batterio. E più di tutto le macchie che non abbiamo lasciato, quei momenti in cui eravamo pazzi e abbiamo bevuto i liquidi l'uno dell'altra. Avevamo fame, freddo.
Stanotte stavo sclerando per queste macchie. Ho detto basta, adesso ne lascio una io, una macchia di libertà, una macchia di solitudine, dove tu non c'entri, la mia macchia! E ho insozzato il letto di sputi, li ho spalmati con le mani aperte ovunque sui segni che avevamo lasciato insieme, ma col gomito ho urtato il bicchiere pieno che avevo posato sul comodino. Il vino si è completamente rovesciato sulle lenzuola, coprendo e confondendo le altre macchie in un velo color magenta.
Allora ho capito.
Bastardo, le lenzuola posso cambiarle quando mi pare. E' da me che le nostre macchie non andranno mai via.

 
 
 

La mia tomba

Post n°89 pubblicato il 05 Maggio 2007 da tefnutlagatta
 

La mia tomba recherà la solenne iscrizione:

Anche oggi sono morta. Ci farò l'abitudine?

Si ringrazia Olivia perché non mi chiede il copyright.

 
 
 

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