Creato da sopalmar il 01/03/2005
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l'ultimo regalo che mi è concesso, due piccole lune grigie di 9 mm a coprire i lobi delle orecchie. brillano di luce riflessa, lontanissime dal loro sole... passano quasi inosservate, come solo i tesori davvero preziosi sanno fare. come quel libro tanto amato, ed ancora mai letto, che paziente ha saputo aspettare il suo momento, schiacciato tra gli austeri volumi di un'enciclopedia da quattro soldi, e dimenticato con loro sul colto più alto della libreria. e quanto ci si rammarica, già al primo paragrafo, per non averlo letto prima. nè si potrà far qualcosa per rimediare al tempo perduto, se non, forse, leggerlo una volta di più, impararne a memoria i passi preferiti, da ripetere in silenzio mentre si aspetta il proprio turno dal dottore, o tra gli scaffali stracolmi del supermercato. come a chiedergli scusa, come a celebrarlo in un rituale segreto della memoria. oasi di parole nel frasuono dei giorni che corrono avanti. nostalgia dell'immaginazione, e tormento. due piccole lune grigie, satelliti naturali dall'orbita sempre uguale, a passeggio attorno ad un pianeta invisibile, appuntate ai lobi delle mie orecchie. ogni santo giorno su questa terra, ad indossare un pensiero. ogni santo giorno su questa terra, a celebrare un'ossessione.
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io lo so, già lo sapevo. sono nata con troppi peccati da espiare, e forse poco tempo per farlo? il dolore delle cicatrici non lo ricordo, se l'è cullato via mia madre per due mesi interi, per due mesi interi senza farmi mai toccare terra. a tenermi sempre in braccio, nel reparto malattie infettive dell'Ospedale Civile. il reparto sbagliato, ché dagli ustionati non c'era spazio per noi e la pelle che bruciava in carne viva me l'hanno curata in trasferta, in mezzo alle infezioni degli altri. senza pelle. pelle arabescata, da leggere in rilievo sulla punta delle dita. unico ricordo che mi porto dietro, perché io che conservo sempre tutto, la memoria di ciò che fa male la sotterro e poi dimentico. la lascio in pasto ai vermi della terra, nelle gallerie scavate dalle talpe. e mi tengo la superficie. la superficie del mio braccio destro, del collo, la pelle sopra il seno...e l'orso di peluche che mi hanno regalato quando me le sono fatte, le cicatrici. l'orso che ci ha fatto compagnia. immagino mia madre camminare avanti indietro per il corridoio, con il suo passo deciso da 'questa ve la farò pagare, in qualche modo', tacco punta tacco punta. io in braccio a lei, tutta fasciata, ed il mio orso in braccio a me. una piramide umana-peluche, una mini-famiglia mista, organica-inorganica, a difendersi da chissà-quali-infezioni, a guardare tutti in cagnesco, medici compresi. protetta così non lo sono mai stata. piccola così, e lei così madre. e tutti i dolori che si assomigliano, in fondo. perché non ce n'è mai uno lieve...che non strappi via l'anima. ed ogni distacco è una perdita. salutare chi parte, un'agonia. ed ogni giorno che ci allontana, io divento un po' più orfana.
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mi sento molto otaku
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quello che la grazia non mi ha concesso. ogni giorno, lacrime, ed il cuore che trema nel petto, perché nessuna conquista è mai definitiva. Quello che la grazia non mi ha concesso, tento di rubarlo ogni giorno, piccola ladra invisibile in cerca di magici unguenti che possano lenire vecchie cicatrici ed un muscolo che pompa sangue e sempre ne perde, troppo sangue, ritmo sincopato nella notte a ritagliare tempo e cure, ché di giorno devi fare come tutti gli altri, le altre, di giorno rimani nascosta, l’insicurezza si ripara in gola, si nasconde perché ad essere vista si scioglie in pianto dalla vergogna di essere così piccola, e solo la notte si lascia coccolare ed un po’ calmare, orfana inconsolabile di una bellezza che le è da sempre preclusa. Quello che la grazia non mi ha concesso, ogni giorno, io me lo invento. Con le parole ed i colori e la pelle come tela su cui dipingere e scrivere, io me li invento, l’amore e la bellezza e la felicità che non ho. E pazienza se la sera, con la doccia, scivolano via tutt’insieme e finiscono nelle acque della laguna a far compagnia alle seppie, o ad impigliarsi tra le zampe di qualche airone. Sulla pelle rimangono solo dei contorni sbiaditi, ma bastano a ricordarmi il sogno che non voglio mai smettere di sognare.
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Ritrovo la pazienza. La calma. L’attesa. Accantonate per lasciare spazio a qualcosa di nuovo, che non arriva. Perché non voglio, che arrivi. Sospesa, è la mia dimensione. Nell’ovatta di casa, tra chili di radicchio di Treviso da stufare e mettere nel congelatore – affrettatevi, la stagione è quasi finita! – e gomitoli di lana che si affastellano ovunque senza trovare il riposo dei ferri da maglia, che li solleticano e li trasformano nell’ennesima sciarpa – ma forse è ora che io impari a calare e aumentare i punti e mi cimenti almeno in un berretto – in questo spazio ristretto, una noce di tempo fuori dal tempo, solo mia, in cui coltivare i cambiamenti dentro me. In cui trovare le parole che calzino alla mia anima. Marc Chagall – vabbè…era Marc Chagall epperò – nove anni nove per completare il suo autoritratto. Un po’ come impiegarci nove anni a capire cosa c’è dentro la propria anima. Deve essere davvero fonda, l’anima. Nove anni per un autoritratto, durante i quali probabilmente faceva altro. Perché trovarsi è incidentale alla vita. Alle cene da preparare, alla spazzatura da buttare. Al depilarsi prima di andare in piscina (forse questo Chagall non lo faceva…) al litigare con i parenti. Al potare i gerani sul balcone, al maledire la sveglia la mattina, quando fuori c’è il gelo e te ne staresti al caldo ancora un po’. Così, sospesa, paziente, scelgo la musica da ascoltare in questo sabato pomeriggio, ed il colore dello smalto da indossare per la settimana che viene. Rimango bambina ancora per un po’. Fermo il tempo e mi godo giorni solo miei, da regalare, se ne ho voglia. Ma anche no. Li riempio di fili di lana colorata e del sogno di fiori fatti all’uncinetto da appuntare sulla copertina di un quaderno ricavato da fogli di carta tutti diversi, in cui tracciare, giorno dopo giorno, il mio autoritratto di parole.
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non basta, non basta la penna giusta che scivoli sul foglio veloce ed indolore, inchiostro che ingrassa la carta color dell’avorio, inchiostro oleoso, che profuma e cura qualsiasi male. Lontana da casa, cerco di ritagliare un angolo di silenzio, qui dove silenzio non si conosce, voci sempre troppo alte a comunicare da una stanza all’altra in una casa che sembra aver creato spazi invalicabili tra le persone; troppi cani, troppo rumorosi; una tivvù in ogni stanza, ed ognuna accesa su un programma diverso. Io leggo, in sala da pranzo, appollaiata su una sedia altissima, le Adidas nere incastrate sui pioli per tenermi in equilibrio, occhi bassi sul foglio, così bassi che sembra quasi che me lo voglia mangiare, il libro. E nella stanza vicina, si chiedono perché. Leggo. E rifletto sullo scrivere. Leggo per scrivere. Leggo ‘Scrivere’ della Duras. “La solitudine inviolabile dello scritto”. “Agli amanti, le donne non devono far leggere i libri che scrivono”. Né raccontare alle zie della novella appena spedita ad un concorso letterario. A non essere riservati, si paga pegno. A non difendere i propri tesori, si rischia di vederli distrutti. O derisi. Perché tesoro è anche una vecchia scatola di latta, scrostata dal tempo e dall’aria salata che c’è qui, vicino al mare; la mia scatola dei baicoli, un po’ ammaccata - “No gh’è a sto mondo, no, più bel biscoto, più fin, più dolce, più lisiero e san, per mogiar nela cìcara o nel goto, del Baicolo nostro Venezian” – e dentro, su un letto di carta velina bianca, bottoni dalle strane fogge, e gomme da cancellare profumate – i pezzi più ricercati, quelli che riproducevano i biscotti del Mulino Bianco, baiocchi, tarallucci macine e galletti – figurine di una collezione mai completata, puntine colorate, un anellino d’argento spezzato a metà, le vibrisse del mio vecchio gatto rosso…anche questo è un tesoro. Trovare un posto lontano, dove seppellirlo. O nasconderlo sotto gli occhi di tutti, nel silenzio di un sorriso che è un piccolo enigma. A costo di sembrare sprezzante. A costo di sembrare balorda. Vuota. Svagata. Se mi concentro abbastanza, posso fare silenzio intorno. Se mi concentro abbastanza, posso gonfiarmi un cuscino di ovatta invisibile tutt’intorno, e osservare il mondo come fosse un programma televisivo a cui è stato tolto l’audio. Perché le parole, bhè, quelle ce le voglio mettere io.
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