* * *

Ho conosciuto per caso Lorenzo Scarpiello nei primi anni ’80. Il luogo e il giorno preciso non li ricordo. Sicuramente mi è stato presentato da qualche amico comune al Centro Servizi Culturali di Via Manzoni (oggi Piazza A.Moro), a quei tempi punto di riferimento e di fermento, assai frequentato dagli esponenti più sensibili del mondo artistico e culturale della città, e non solo.

Fui subito colpito dalla sua straripante carica di simpatia e umanità. Qualche tempo dopo conobbi il suo “studio” nei pressi del Teatro “Giordano” , le opere ancora invendute e quelle in corso. Confesso che, sulle prime, le sbirciai distrattamente. Data la mia incompetenza, in esse di arte vedevo ben poco, addormentato com’ero dal fascino del genere classico e naturalistico. Lui se ne accorse e mi mostrò un numero del catalogo “Bolaffi” (forse 1978 o giù di lì), facendomi notare la recensione e la quotazione di una sua tela di formato cm 70×50. La cifra era piuttosto alta. Solo allora mi convinsi di trovarmi di fronte ad un vero e grande artista. Quindi mi accennò ai suoi trascorsi ”milanesi”, allorché creava, vendeva e con il ricavato si divertiva con i compagni di viaggio, man mano conquistati dal suo innato carattere espansivo, generoso ed altruistico.

Dapprima ci frequentammo saltuariamente, ma negli anni 1984 – 85, liberatomi dagli onerosi impegni di assessore alla Comunità Montana del Gargano, il nostro rapporto di amicizia diventò più stretto ed intenso, forse per via della comunanza di idee e di sentimenti. Nel suo studio di Vico Teatro 1, conobbi la sua ultima allieva (allora adolescente e studentessa presso l’Istituto d’Arte) mandata lì su insistenza della madre per imparare l’arte. Dopo la morte di Lorenzo di lei si sono perse le tracce.

Si sa, invece, che un suo dipinto, raffigurante “Via Purgatorio” (olio su tela cm 50 x 70) si trova a Rignano, essendo diventato proprietà della Pro Loco, per aver ottenuto il 2° premio all’estemporanea, organizzata dal medesimo sodalizio nel 1986.

Nell’anzidetta bottega foggiana ci davamo appuntamento gli amici più stretti: Antonio De Santis, pittore che operava nelle vicinanze, Vincenzo Campobasso, suo amico di vecchia data, e tanti altri. Insieme, trascorrevamo memorabili serate, sistemati alla meno peggio tra tele, cavalletti, cornici ed altre cianfrusaglie. Il soppalco in ferro, che lui chiamerà in seguito con una punta di scherzosa ironia “garçonnière” era di là da farsi.

Si parlava del più e del meno, soffermandoci a commentare i principali avvenimenti della cronaca quotidiana della città, compresi i pettegolezzi. Talvolta era la vita della periferia o della campagna a tenere banco.

Gli occhi di Lorenzo si accendevano d’interesse, in virtù dei ricordi legati alla sua infanzia: prati fioriti, sbalzi scoscesi, case dirupate, figure di donne e uomini seriosi, aridi negli affetti e distrutti dal duro lavoro nei campi. Insomma, il mondo della civiltà contadina che lo condizionerà per tutta la vita e che seppe ben rappresentare nelle sue tele.

Il discorso coinvolgeva ad un certo punto anche me, invogliandomi a raccontare le mie esperienze ‘garganiche’ di camminatore incallito e di cercatore di funghi e verdure selvatiche. Esperienze da lui condivise e in un certo senso ambite. Più volte mi accompagnò nelle campagne vicine, a bordo della mia automobile, una Renault 5 di colore arancione acquistata pochi mesi prima “usata” dai comuni amici Wilma e Guido.

Ricordo che, mentre ero intento alle mie solite perlustrazioni, egli sedeva su qualche macigno o pietra di fortuna e di là seguiva con la coda degli occhi il mio girovagare a zig zag. E di tanto in tanto chiedeva: – Tonino, hai trovato…hai trovato? Ed io scuotevo la testa, con delusione. In caso positivo alzavo la mano al cielo con giubilo. Talvolta, egli taceva a lungo, rapito dai colori ed odori della natura circostante ed indisturbato dal canto monotono delle cicale o dal cinguettio dei passeri.

Una volta, facendo ritorno da un giro più lungo e lontano, lo ritrovai con una pertica di fortuna in mano, indaffarato a cogliere frutti di mandorle secche da un alberello. Ne aveva già riempito un’intera busta di plastica. “Ecco la mia raccolta!, mi disse soddisfatto e contento. “Come vedi – continuò – anch’io ho fatto la mia parte di ricerca e con poco sforzo!”. Il riferimento era alla sua malattia, che gli impediva di sopportare anche una minima fatica. Il “trofeo”, con una punta di malcelato orgoglio se lo portò in città, forse per farlo ammirare ad amici e conoscenti o forse per convincere i suoi che a Rignano si trovava bene.

Qualche tempo dopo Lorenzo mi regalò un paio di stivali in gomma e una capiente graticola in metallo. Lo fece da buon padre di famiglia, non tanto per sdebitarsi di qualcosa, quanto per colmare le avventatezze di un figlio. Da uomo navigato ed attento osservatore, aveva notato, infatti, che in siffatte occasioni me ne andavo in giro con scarpe leggere. E, dato che la zona di frequentazione era impervia e pietrosa, voleva preservarmi da brutte cadute, o peggio dal morso velenoso di qualche vipera.

L’altro dono, invece, corrispondeva alle sue vagheggiate “mangiate” di arrosto alla brace, possibilmente fuori all’aria aperta. Entrambi i doni, al pari delle sue opere, li conservo gelosamente e saltuariamente li uso ancora.

Tra le tele in mio possesso, sicuramente la più cara e ricca di significato è quella che si ammira nella sala da pranzo della mia abitazione. Essa è stata realizzata appositamente per la mia famiglia e per Rignano. Ecco la storia. Nella tarda primavera del 1986, Lorenzo fece la sua ennesima apparizione in paese, accompagnato dall’inseparabile Antonio De Santis, che a quei tempi gli metteva a disposizione auto e guidatore. Era domenica. Dopo gli incontri con gli amici della Pro Loco, ci ritrovammo a casa per il pranzo. Mia moglie Sabina ce ne aveva preparato uno con i fiocchi. Tra le varie portate primeggiavano le orecchiette di pasta fresca al ragù, di cui era assai ghiotto il nostro amico. E non solo. Seduto al mio fianco c’era il notaio Valentino Caiola, anche lui considerato allora una buona forchetta (ora non più, per i soliti malanni della maledetta vecchiaia).

Eravamo tutti allegri, grazie al buon vino paesano che sorseggiavamo al termine di ogni portata, e soprattutto alla reciproca e calda simpatia che ci univa. Si parlava di cose leggere e la discussione finiva immancabilmente con una scherzosa battuta. Ovviamente a fare la parte da leone era sempre lui, ricco com’era di straordinaria inventiva e navigata esperienza. Ad un certo punto mi accorsi che Lorenzo, mentre consumava la pietanza del momento, di tanto in tanto alzava gli occhi, fissando il quadro che campeggiava sulla parete opposta.

Si trattava di una tela, raffigurante un paesaggio campestre, acquistata qualche anno prima da un mobiliere, non tanto per il suo intrinseco valore venale o artistico, quanto per arredare la sala. “ Come è brutto – profferì lui – non c’è anima! Toglietelo subito…ne farò io uno che si addice a questa stanza così panoramica!”

Continuò ancora a stigmatizzare ad uno ad uno i restanti difetti (assenza di prospettiva, colori troppo forti, ecc.). L’intento era di coinvolgerci, ma restammo zitti, chi per incompetenza, chi per rispetto dell’autorità del maestro. A suo dire l’unica a salvarsi era la massiccia cornice dorata. E questo, minimizzò con un tono tra il serioso e canzonatorio, “solo perché s’intona al resto dei mobili”. Lorenzo era fatto così. Terminato il pranzo, mentre gli altri si erano trasferiti sul balcone, intenti a prendere aria e a godersi lo stupendo panorama che si stagliava di fronte a loro, il pittore si fermò davanti alla soglia e senza un plausibile e comprensibile motivo abbassò ed alzò più volte la tapparella. Forse per rendersi conto di quanta luce entrasse e dei suoi effetti all’interno dell’ambiente. Non motivò il suo strano comportamento, né i presenti si chiesero il perché, immersi com’erano ad ammirare il Tavoliere sottostante, che si perdeva a vista d’occhio sino all’orizzonte con la sua molteplicità di colori e di geometrie.

Ci intrattenemmo per alcuni minuti a commentare, come si fa per un quadro, i vari scorci ed aspetti più significativi. Dopo di che i simpatici commensali, salutatisi ad uno ad uno con affetto, lasciarono la casa, diretti alle loro destinazioni ed incombenze.

Dopo quella fatidica domenica, passarono dei giorni, forse una settimana. Una mattina, sospinto dal vivo desiderio di rivederlo e ottenuto il permesso dall’ufficio, dove prestavo la mia opera di lavoratore pendolare, raggiunsi il suo laboratorio. Con somma sorpresa, notai che il quadro promessomi era quasi terminato. In quel momento egli “stendeva” le ombre e, tra una pennellata e l’altra, alzava ed abbassava la tapparella – saracinesca di accesso allo stabile. Conclusa l’operazione, mi disse: “Il tempo di asciugarsi! Tra tre o quattro giorni, lo puoi ritirare!” Poi aggiunse, poi: “Non lo dire a nessuno!”. Così feci. Alla data stabilita prelevai il dipinto con la mia Renault 5 . Data la sua considerevole dimensione c’entrò giusto giusto nell’abitacolo, grazie all’ estendibile bagagliaio. Arrivato a casa, lo sistemai subito e nel contempo, eseguendo appieno il consiglio – giudizio del mio amico, depositai quella “vilipesa” nel pubblico cassonetto dell’immondizia.

Da 22 anni esso, incorniciato come prima, campeggia là sulla medesima parete, intonandosi, questa volta, con il suo straordinario gioco di luci e di ombre all’ambiente interno ed estero.

A mia moglie piacevano tanto i piatti decorati. Spesso ne comprava alcuni per arredare qualche angolo spoglio della casa. Lorenzo lo notò e pensò bene di soddisfare a modo suo questa ricercata esigenza, purché sparissero quelli antichi, da lui giudicati come il su accennato paesaggio di cattivo gusto. Tutto accadde a fine agosto del 1986, quando si trattenne da noi per circa due settimane.

Un soggiorno da lui fortemente voluto e accarezzato. Nel periodo precedente fummo impegnati a cercar piatti. Lorenzo suggeriva l’acquisto di quelli di tipo piano da pizzeria. Ma erano introvabili sul mercato. A un certo punto perdemmo ogni speranza di immediata realizzazione. Passarono i giorni. Un pomeriggio egli telefonò a casa e ci pregò di raggiungerlo in serata a Foggia per una possibile cena . Non ricordo bene il motivo dell’invito. Forse per qualche personale ricorrenza. Forse perché aveva venduto qualche quadro o semplicemente perché aveva voglia di festeggiare e basta, come era suo costume nei tempi migliori. Comunque sia, io e mia moglie ci andammo. Alcune ore dopo ci ritrovammo seduti attorno ad un tavolo massiccio dentro una avviata ed accogliente pizzeria, sita nei pressi del noto ristorante “Ambassador”. Non so se esiste ancora. Ordinò pizza al piatto per tutti.

Oltre a noi tre, c’era l’immancabile De Santis e due allieve d’arte. Più che mangiare, ci divertimmo a chiacchierare allegramente.

Il nostro buon umore attirò non solo l’attenzione del numeroso pubblico presente, ma anche la titolare, che si avvicinò e si accompagnò alle nostre disinteressate ilarità. Fu conquistata dalla simpatia, specie da un animatore nato e ben visto dal gentil sesso come Lorenzo. Insomma, al termine, ebbe in regalo un’autentica scorta di piatti piani ben puliti e pronti per l’uso. Tanto bastava per dipingervi sopra tutte le sue emozioni. Così che il problema della penuria era risolto a nostro favore, come voleva il suo cuore. Li prelevammo e li portammo a Rignano.

Durante la sua più lunga permanenza, avvenuta nella prima decade di settembre di quell’anno, i piatti furono dipinti ad uno ad uno con un tema e raffigurazione che gli venivano suggerito dal profondo dell’animo e dalla sua energia creatrice. Si tratta precisamente di una ventina. Gli stessi furono realizzati nell’improvvisato laboratorio – box , sito a piano terra della palazzina di Via Guttuso 4. Era qui che il nostro amico pittore si intratteneva, per sua scelta ed educazione, durante l’assenza del capo famiglia, di cui era gradito ospite. Negli intervalli della giornata, riprendendo la sua professione di maestro elementare, si attardava ad inculcare nei miei due figli, Enrico ed Angelo, l’amore e i primi rudimentali insegnamenti dell’arte pittorica (disegno, scelta e composizione dei colori, uso del pennello e quant’altro). Sotto la sua guida e forse mano furono dipinti dagli stessi altri piatti.

Esaurita la scorta, Scarpiello non demorse e si affidò ad imprimere la sua inarrestabile creatività sulle mattonelle, l’ultima della quali finì con una “stroncatura”. Infatti, egli ci teneva tanto, ma tanto a lasciare, come segno di stima e riconoscimento una testimonianza concreta della sua creatività ad un illustre personaggio del momento: Giulio Stilla, professore di Storia e Filosofia, e presidente ‘pro tempore’ della nascente ‘Pro Loco’.
Ce la mise tutta, ma non riuscì mai, per via di un insormontabile ostacolo di carattere psicologico, forse dovuta alla pressione che sentiva, di “dover dipingere”. Dopo tante prove e riprove, si stancò e ne venne fuori un dipinto a strisce orizzontali, che dedicò in segno di affetto alla famiglia ospitante, riportando in ogni singola fascia i nomi dei componenti: “Tonino, Sabina, Angelo, Enrico”.

Antonio Del Vecchio