Nell’ultimo periodo stiamo assistendo a livello mondiale ad un crescente aumento del numero delle cosiddette “climate change litigation”. Questo tipo di controversie hanno l’obiettivo di promuovere strategicamente (strategic litigation), la salvaguardia di diritti negati o il riconoscimento di nuovi diritti o principi, in modo da far evolvere l’ordinamento, senza attendere che vengano approvate nuove normative. In concreto, le liti strategiche sono contenziosi emblematici, che cercano di promuovere, in maniera consapevole l’evolversi del diritto in base alle necessità della società. Prima di addentrarci nell’esame delle climate change litigation è necessario fare alcune premesse.
Termini come: acidificazione degli oceani; surriscaldamento globale; aumento delle emissioni di Co2; scioglimento dei ghiacciai, inondazioni, sono ormai divenuti parte del lessico comune. Oltre alla conoscenza di queste terminologie di tendenza, sarebbe giusto domandarsi cosa si è fatto effettivamente negli ultimi anni per combattere questi fenomeni e come i governi stiano cercando di contrastare gli impatti dell’uomo sulla natura, al fine di preservare le risorse naturali per le generazioni future. Può infatti considerarsi vero e assoluto a livello scientifico che a causa dell’attività dell’uomo, in tutte le sue forme, stiamo incidendo negativamente sulla nostra atmosfera e stiamo pregiudicando la nostra stessa sopravvivenza, sempre più velocemente.
Da un punto di vista normativo, è utile ricordare che i primi interventi di contrasto al cambiamento climatico sono avvenuti sul piano internazionale. Ad esempio, con l’Accordo di Parigi siglato nel dicembre 2015 in occasione della COP 21 (conference of parties) con il quale i governi di 196 paesi, tra cui l’Italia (ratifica con L. 4 novembre 2016 n. 204), si sono impegnati a non innalzare il livello della temperatura globale oltre 1.5 C° - 2.0 C°, limitando rispettivamente le proprie immissioni di green house gases (GHG) nell’atmosfera. Prima di tale evento, nel 1987 durante i lavori della World Commission on Enviroment and Development (WCED) – in occasione della quale si trattò per la prima volta di sviluppo sostenibile – e successivamente durante la Conferenza di Rio de Janeiro nel 1992, con il protocollo di Kyoto, con il World summit on Sustainable Development nonché con oltre 24 conference of parties, e altri numerosi accorsi, gli Stati hanno cercato di contrastare – perlomeno sulla carta – tutti gli effetti negativi derivanti dalle emissioni di GHG e di cercare una strada per uno sviluppo sostenibile. Purtroppo, nonostante i nobili sforzi profusi, non si è fatto abbastanza e stiamo assistendo ad un numero sempre crescente di eventi climatici che stanno incidendo e modificando irreversibilmente il nostro ecosistema.
Tanto precisato, scienziati, intellettuali, artisti, cultori e semplici cittadini come la svedese Greta Thunberg, hanno accusato pubblicamente tutti i capi di stato per non aver fatto abbastanza e di non mettere tra le priorità nazionali la lotta al cambiamento climatico in maniera concreta, non propagandistica, e con un’azione mondiale condivisa. Ma non è bastato. Proprio per questa scarsa attenzione da parte dei nostri governanti, vi è stato in tutto il mondo un crescendo di climate change litigation, ad incominciare dagli Stati Uniti, ove sin dagli anni 60’ i cittadini hanno avviato class action contro imprese che inquinavano o abusavano di pratiche malsane, nocive per l’ambiente.
Come è possibile rilevare dal Climate Change Litigation Databases gestito dal Sabin Center for Climate Change Law della Columbia Law school dove è contenuto l’elenco di tutti i climate cases su scala internazionale. Le controversie in materia ambientale sono suddivise tra quelle avviate negli Stati Uniti (circa 1.600) e quelle attivate nel resto del mondo (circa 450). Ad oggi, dobbiamo riconoscere che esiste una via giudiziaria al cambiamento climatico che è in pieno sviluppo che mira a contrastare gli scarsi interventi governativi a rispettare gli accordi assunti sia a livello nazionale che internazionale.
Attivisti, fondazioni e associazioni private hanno avviato cause davanti ai tribunali internazionali e nazionali, contestando agli Stati la mancata o inefficace attuazione delle politiche ambientali con violazione dei diritti umani. Nell’Unione Europea la prima climate change litigation che ha tracciato la strada per il ricorso ambientale in tribunale è certamente la controversia denominata Urgenda vs. Olanda. Nel 2015, 886 cittadini olandesi hanno fatto causa al proprio Stato per non aver ridotto le emissioni di Co2 nell’atmosfera, generando danni alla vita e alla salute, in violazione dei diritti umani. Il 20 dicembre 2019 la Corte ha accolto il ricorso e invitato il governo olandese a ridurre di almeno il 25% le proprie emissioni entro il 2020.
Da quel momento in Europa è stato aperto il vaso di pandora, le climate change litigation sono diventate uno strumento per contrastare l’inerzia degli Stati, come in Belgio, Germania, Norvegia, UK, e Italia nonché in Canada, Colombia, Svizzera e Nuova Zelanda. A luglio scorso anche i cittadini irlandesi hanno ottenuto la prima condanna del proprio Stato in una controversia ambientale, mentre il 3 febbraio 2021 il Tribunal Administratif de Paris si è pronunciato favorevolmente sul ricorso promosso da quattro associazioni ambientaliste Oxfam France, Notre Affaire à tous, Fondation pour la Nature et l’Homme e Greenpeace France, sostenute da circa 2,3 milioni di persone che hanno firmato la petizione “Affaire du siècle”, condannando lo Stato per danno ecologique nonché a corrispondere la cifra simbolica di € 1,00.
Epico, per la sua portata, è stato invece il recente e tutt’ora pendente caso dei sei ragazzi portoghesi Mariana (8 anni), André (12 anni), Sofia (15 anni), Martim (17 anni), Catarina (20 anni) e Cláudia (21 anni), i quali hanno intentato nell’ottobre del 2020 una controversia contro 33 Stati membri del Consiglio d’Europa (tra cui l’Italia), innanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Le loro motivazioni scaturirono a seguito di un devastante incendio che distrusse i boschi di Pedrógão Grande, uccidendo più di sessanta persone.
Nel proprio ricorso i giovani portoghesi - supportati dalla ONG Global Legal Action Network (GLAN) - affermano che tutti gli Stati chiamati in causa violano i loro diritti, tra cui quello alla vita, perché non hanno preso misure adeguate atte a ridurre le emissioni di GHG per limitare l’innalzamento delle temperature.
Nell’ottobre del 2020, la Corte di Strasburgo accoglieva in via prioritaria la richiesta avanzata dai sei ragazzi portoghesi e invitava i 33 stati a presentare le proprie difese entro febbraio 2021. Incredibilmente, con una coordinata difesa di tutti i 33 stati chiamati in giudizio gli stessi, senza analizzare le ragioni addotte dai ricorrenti, hanno focalizzato l’attenzione sull’inammissibilità del ricorso piuttosto che sul diritto alla vita dei giovani portoghesi.
Il 26 febbraio 2021 la CEDU ha respinto le osservazioni difensive e ha dichiarato il ricorso ammissibile, estendendo il termine per i governi a presentare le loro difese al 27 maggio 2021. Dunque, non ci resta che attendere gli sviluppi della vicenda, che potrà avere importanti riflessi sia a livello normativo che politico.
Anche in Italia cittadini, studenti, scienziati, avvocati, attivisti di associazioni ecologiste, comitati territoriali, centri di ricerca e media indipendenti hanno avviato il suggestivo “Giudizio universale” consistente nel progetto di intentare causa contro lo Stato italiano per i danni provocati all’ambiente. I legali che si sono attivati in tal senso, contano di depositare l’atto di citazione entro giugno 2021. Nel frattempo, è possibile supportare questa ambiziosa causa non solo economicamente, ma anche con l’apporto delle proprie competenze.
Attenzione però. Se da un lato l’aumento delle climate change litigation potrebbe generare entusiasmo, immaginando che la giustizia possa garantirci il nostro diritto alla vita e alla salute, dall’altro lato dobbiamo ricordarci che una sentenza di condanna non potrà specificare il contenuto delle future policies legate al cambiamento climatico, come ad esempio quelle di mitigazione e adattamento, e che esiste una fondamentale distinzione tra il potere legislativo e quello giudiziario.
In altre parole, non potranno essere le Corti nazionali e sovranazionali a difendere il pianeta. Solo chi esercita il potere di governare potrà determinare le strategie ed attuare politiche di mitigazione, di adattamento o di trasformazione urbana.
Certamente, demandare alla giurisdizione il compito di strutturare le policies ambientali non potrà essere ritenuta la scelta corretta. D’altronde e di pochi giorni fa la notizia del via libera alle trivellazioni in adriatico da parte del nostro ministero della “transizione ecologica”. Scelta quest’ultima che appare troppo a favore dei colossi dell’energia e a sfavore dell’ambiente, poiché ingiustificatamente controcorrente rispetto a quanto indicato in Europa con il “green new deal”, ove anche l’Italia si è impegnata ad avviare e a concludere entro il 2050 il processo di decarbonizzazione con l’eliminazione dei combustibili fossili.
Inviato da: GiuliettaScaglietti
il 13/06/2024 alle 16:24
Inviato da: cassetta2
il 12/10/2023 alle 19:22
Inviato da: Dott.Ficcaglia
il 28/06/2023 alle 13:50
Inviato da: cassetta2
il 22/08/2022 alle 16:08
Inviato da: amistad.siempre
il 30/06/2022 alle 17:12