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« Messaggio #256La Principessa di Giada »

La Principessa di Giada

Post n°257 pubblicato il 21 Settembre 2008 da Kaos_101
 

Premessa: miti e le leggende hanno, da sempre, accompagnato l’uomo nel suo percorso verso la conoscenza e la consapevolezza e gli sono stati di aiuto e di conforto per spiegare quei misteri, della natura e dell’animo umano, che le  sue limitate capacità intellettive non gli consentivano di penetrare e interpretare compiutamente.
Questo raccontino fa parte di un mio personalissimo corpus narrativo che tenta di  re-interpretare in chiave metaforica ed epica le dinamiche dei comportamenti umani.

 …tanti, tanti, tanti anni fa, in una galassia lontana lontana…

…nella città di Nasdran, al di là del mare occidentale, oltre le montagne di cristallo, viveva una splendida ragazza, così bella, ma così, bella che tutti, dimentichi del suo nome, avevano finito col chiamare semplicemente: “la Principessa di Giada”
La sua fama, aveva varcato mari e monti e uomini di tutte le razze, pretendenti o semplici curiosi, confluivano da ogni dove per vedere da vicino una tale meraviglia.
A dispetto del suo altisonante appellativo, la fanciulla non era di nobili natali sebbene abitasse in uno dei quartieri più eleganti e tranquilli della città.
La sua casa,  un  severo palazzotto di pietra grigia, con strette finestre che raccontavano di anni meno sicuri e sereni, era ingentilito da una lunga balconata, scansita da esili colonne di alabastro in cui gli archi a sesto acuto, chiusi da vetrate policrome, si rincorrevano conferendo leggerezza e slancio a tutta la costruzione.
L’edificio era immerso in un lussureggiante giardino, circondato, a sua volta, da un alto muro la cui sommità era protetta da un triplice ordine di affilati cocci di vetro.
Simili ostacoli non sarebbero probabilmente bastati a scoraggiare i più determinati tra i pretendenti, ma a vanificare l’intero sistema difensivo, era bastata la larga crepa apertasi sul lato posteriore della recinzione.
Colpevole incuria o malizioso calcolo di chi abitava la casa?
Nessuno avrebbe potuto affermare con certezza quale fosse la verità; sta di fatto, comunque, che tale varco, allargato giorno dopo giorno da centinaia di mani, si era rapidamente trasformato in un comodo accesso attraverso il quale, chiunque poteva accedere indisturbato alla proprietà.

Non era più motivo di stupore per nessuno, scorgere decine di persone che, di giorno e di notte, si aggiravano, nemmeno troppo circospetti, tra gli alberi, alla ricerca di una finestra socchiusa, di una crepa, di una qualsiasi fessura dalla quale carpire il segreto gelosamente celato da quelle severe mura.
Tutto inutile!  
In realtà, a memoria d’uomo, nessuno aveva mai visto la Principessa di Giada!
Molti tra coloro che arrivavano fin lì, forse meno determinati, forse più avveduti, si stancavano velocemente di  quell’inutile attesa, risolvendosi in pochi giorni, talvolta poche ore, a intraprendere il mesto viaggio di ritorno.
Una volta arrivati alle loro città, però, non volendo ammettere quel fallimento che tanto era costato loro in tempo e danaro, chi più chi meno, finivano tutti per  lanciarsi in mirabolanti descrizioni di quella fantastica fanciulla, ingigantendone vieppiù mito e fama e creando così le condizioni perché altri, dopo di loro, intraprendessero quel lungo viaggio, animati dalla speranza di partecipare di ciò che era stato loro così entusiasticamente decantato.
A differenza di questo continuo viavai di curiosi, c’era, però, uno sparuto manipolo di pretendenti che, incuranti delle delusioni e sordi a qualsiasi considerazione logica, avevano deciso di non rinunciare alla sfida se non dopo aver coronato il loro sogno.
Certo nessuno aveva mai visto la Principessa di Giada, ma non mancavano conferme più o meno evidenti della sua presenza in quella casa.
Nulla di diretto, nulla di inconfutabile: erano prove indirette, semplici indizi, sufficienti a tener viva la speranza, ma non tali da attestare, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’avvenenza o anche la sola esistenza della Principessa di Giada.
Che il palazzo fosse abitato non veniva nemmeno messo in discussione: i garzoni recapitavano regolarmente pane, latte, carne, verdura e quant’altro abbisognasse alla conduzione della casa.
Certo, tutto veniva lasciato nell’ingresso deserto, dove i commessi trovavano buste sigillate contenenti il danaro e le nuove ordinazioni, ma che fine avrebbe fatto tutto quel ben di Dio se non ci fosse stato qualcuno a consumarlo?
Come spiegare le luci che filtravano la notte dalle finestre e il fumo copioso che usciva dal tozzo camino di pietra nelle fredde sere invernali?
Che nella casa abitasse una donna era quantomeno probabile: i vestiti stesi ad asciugare testimoniavano di una presenza femminile come pure una serie di articoli, quali spilloni belletti, calze di seta, che venivano recapitati saltuariamente, ma che nessun uomo avrebbe mai utilizzato.
Alcuni indizi, poi, facevano sperare che la donna fosse giovane e carina.
Oltre ai già citati belletti e articoli di seduzione assortiti, di tanto in tanto, sulla terrazza, ricavata dal tetto piatto della casa, veniva steso qualche vestito ad asciugare o, semplicemente, a prendere aria e la foggia e la taglia di quegli indumenti autorizzavano le più ottimistiche congetture.
C’era poi la sua voce che si rivelava, di tanto in tanto, quando un canto dolce e malinconico, uscendo dalle strette finestre,  attraversava lo spazio tra la casa e il giardino e scendeva, come fresca rugiada su quegli uomini assetati di conferme, donando loro un fugace brivido di eccitazione.
A dare corpo agli esili sogni degli innamorati c’erano infine le passeggiate serali.
Talvolta, al tramonto, quando il sole calante attraversava da parte a parte, coi suoi raggi radenti, le policrome e opache vetrate della balconata superiore, si scorgeva, dietro a quegli spessi vetri la sagoma slanciata e inequivocabilmente  femminile di una donna che percorreva quel lungo corridoio con passo lento e portamento altero.


Che dire infine dei bigliettini?
Cilindretti di carta profumata alla violetta che, cadendo casualmente da qualche finestra, volteggiavano nell’aria per posarsi sull’erba del prato sottostante e sui quali con bella calligrafia e in inchiostro ametista, erano vergate appassionate, sebbene in verità molto vaghe, frasi d’amore.
Tutti, conservavano un personale tesoro formato da un certo numero di quelle missive e tutti, incuranti della casualità del ritrovamento e dell’assoluta mancanza di  riferimenti personali, le custodivano gelosamente, quasi fossero reliquie di una religione della quale erano nel contempo fedeli e officianti, convinti a dispetto di qualsiasi logica, che ciascuno di quei profumati  messaggi gli fosse stato espressamente dedicato.
Che altro sarebbe servito ad uomini, divorati da tanta cieca passione, per rinnovare  quotidianamente quel voto di dedizione e la determinazione a continuare quel dolce assedio che, in cuor loro, ciascuno ne era certo, si sarebbe concluso con la capitolazione della Bella a lui, e a lui soltanto, a lui, che più di ogni altro l’aveva desiderata, aspettata, intuita, sentita, compresa e amata.
La passione non era però l’unico laccio che li teneva imprigionati a quel giardino.
Una ben più pesante e cupa catena vincolava i loro animi: la paura del fallimento.
Ognuno di loro aveva abbandonato casa, affetti, interessi per inseguire e coronare quel sogno.
A differenza di chi era arrivato e ripartito in tutta fretta, quel pugno di irriducibili aveva ormai passato troppo tempo sotto quelle finestre, investito troppo in sacrificio, speranza e impegno per accettare di andarsene senza quella risposta così lungamente agognata.
Paradossalmente ciascuno di loro avrebbe preferito vedere la Principessa di Giada scegliere uno degli altri pretendenti piuttosto che  andarsene prima che la rappresentazione fosse giunta a compimento.
Poco alla volta il desiderio che li divorava si era trasformato.
Più ancora che possedere la Dama, la loro intima esigenza era quella di dare corpo e volto a quell’interminabile attesa.
Soprattutto due, fra tutti, sembravano coltivare con particolare convinzione e pervicacia quella lucida follia: Ur il massiccio e taciturno guerriero delle terre del nord e Lath il romantico menestrello delle isole del sud. Erano arrivati tra i primi e da quel giorno, tenacemente senza mai indietreggiare, avevano continuato a credere, a desiderare, a pretendere di possedere quella donna.
Non si amavano di certo, ma la lunga frequentazione e il comune obiettivo, avevano finito per renderli se non amici almeno rispettosi l’uno dell’altro, dando vita a una sorta di curioso sodalizio che, di fatto, li rendeva i più autorevoli tra tutti coloro che speravano di ottenere i favori della Principessa di Giada.
Mano a mano che passava il tempo però, Ur era sempre più irrequieto, quell’inattività forzata gli pesava enormemente.
Spesso si sorprendeva a volare con la mente, simile a uno di quei falchi che tanto amava, sulle fredde terre del nord, ad inseguire la renna o a cacciare l’Orso, ma ancor più spesso gli sovvenivano le belle donne del suo popolo che avrebbero fatto a gara per lasciarsi catturare da lui, prode e valoroso guerriero.
Che ci faccio qui?
Che sortilegio mi lega a questa molle città?
Che stregoneria è riuscita a lanciarmi quella donna sconosciuta per tenermi soggiogato in questo giardino come un cane alla catena?
Se non questi di tal fatta erano i suoi pensieri, ma Ur, uomo orgoglioso, non era solito lasciare a metà ciò che aveva intrapreso.
Sembrava che le due pulsioni, il richiamo del nord e il gusto della sfida si bilanciassero così perfettamente da tenerlo sospeso in un equilibrio precario impossibile da rompere, fino al giorno in cui un messaggero inatteso ruppe quella situazione si stallo
Il suo vecchio padre era morto e lui ora era in nuovo capo del Clan.
Nulla più contavano i suoi sogni e le sue fantasie: il suo rango e il suo onore gli imponevano di tornare a casa per difendere, proteggere e guidare la sua gente.
Bene! Se questo è il mio fato non sarò certo io ad oppormi al suo compimento!
Esclamò Ur, le cui nuove responsabilità sembravano aver spazzato via in un lampo quella patina di torpore che era calata su di lui come una polvere opaca, in quei lunghi mesi d’inattività.
Il mio popolo ha bisogno di me e io non lo deluderò, ma il mio popolo è forte e come ha aspettato finora saprà aspettare un’altra settimana.
E così dicendo, riposta la lettera in una tasca interna della giacca, si diresse “all’osteria della luna storta” dove abitualmente Lath trascorreva gran parte delle sue giornate.


Come previsto trovò l’amico-rivale intento a scroccare una bevuta ad un mercante di passaggio.
Certo che conosco la Principessa di Giada!
Stava dicendo il bardo con la voce impastata che tradiva una sin troppo assidua frequentazione dell’idromele.
Non solo la conosco, ma sono stato più volte ospite a cena nella sua bella casa!
Il forestiero guardava Lath con gli occhi sgranati e un’espressione mista di incredulità e stupore dipinta sul volto.
Ur,mio compagno, amico, fratello, racconta al qui presente signore di che leccornie sia imbandita la tavola della nostra Principessa.
Ciò detto si piegò in avanti e sussurrò al suo commensale.
Sarà opportuno che offra un boccale di idromele anche al mio amico se vuole sentire l’epilogo di questa fantastica storia.
Sì, sì, certo,
Tagliò corto Ur, a cui non era mai andato giù quella sorta di accattonaggio verbale, tanto caro al menestrello.
Vediamo… l’ultima volta abbiamo mangiato, occhi di ragno in umido,  lingue di cardellino fritte e coda di drago stufata, con contorno di funghi velenosi e bacche di vischio.
Adesso però mi scusi signore ma io e il mio socio dobbiamo parlare di affari per cui la prego di perdonarci se ce ne andiamo senza frapporre ulteriori indugi
Ciò detto  afferrò Lath per un braccio e lo trascinò fuori della locanda.
Che succede  amico mio?
Hai forse tutti i demoni del Ronogroth alle calcagna?
Cosa ti è preso? Non hai visto che quel pollastro non chiedeva altro che di essere spennato?
Lascia stare i polli e ascoltami!
Il tono di Ur è sufficientemente serio da risvegliare totalmente Lath dal suo torpore alcolico.
Me ne torno a casa.
COSA? Tu? Proprio tu getti la spugna? Non ci posso credere, non è da te!
Certo la tua partenza mi lascerebbe unico credibile pretendente alla mano della Dama, ma voglio vincere con pieno merito non perché tu te la dai a gambe come una vergine inseguita da un troll!
Non dire stupidaggini! Sai benissimo che se fosse per me nemmeno un nero drago del Maligno riuscirebbe a cacciarmi da qui, ma io sono un Capo, la mia gente ha bisogno di me e questo è infinitamente più importante di qualsiasi cosa io possa desiderare per me stesso.
Capisco, questioni di dovere e di onore. Ringrazio gli dei di avermi fatto menestrello e non guerriero, e di potermene bellamente fregarmene di concetti altisonanti come onore, dovere e casato.
Parti subito?
No! Mi sono dato una settimana di tempo per fare una cosa, ma ho bisogno del tuo aiuto
E che vorresti fare mio burbero amico?
Voglio guardare in faccia la Principessa di Giada!
Cosa? Ma sei pazzo? Che ti salta in mente?
Come pensi di fare? Non siamo mica nel tuo barbaro villaggio! Questa è un paese civile!
Cosa credi che accadrà quando un grosso e stupido guerriero del nord sfonderà la porta della casa della Dama? Tempo 5 minuti e ti ritroverai addosso l’intera guarnigione della città.
Sai benissimo che ci tollerano perché oramai facciamo quasi parte del paesaggio, ma se proviamo a fare qualcosa che non va ci cacciano a pedate nel sedere!
No non ho alcuna intenzione di abbattere porte, è per questo che ho bisogno di te, io con gli intrighi non ci so fare.
Ma grazie!
Non pago della pretesa di sfruttare la mia sagacia per i suoi loschi maneggi, crede che darmi del disonesto sia un buon metodo per blandirmi!
Non so se ho molta voglia di aiutarti.
Fai come credi!
Non me ne vado senza averla vista!
A te la scelta: puoi venire con me o continuare ad aspettare pazientemente!
Decidi liberamente, ma fallo in fretta il mio tempo qui è alla fine.
Uhm, sai benissimo che non sono disposto ad essere secondo a nessuno, men che meno a te e mai e poi mai sull’argomento Principessa.
Va bene, mi hai convinto, sono con te!
Hai già un piano?
Un piano no, ma un’idea ce l’ho…

...continua...

 
 
 
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