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LUNGHI COLTELLI

Post n°40 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

Se, mettiamo, il patron dell’Inter Moratti, che poverino non vince quasi mai (l’ultima Coppa Italia non conta), riuscisse a convincere tutti i giocatori del Milan a passare sotto le bandiere nerazzurre, offrendogli uno stipendio doppio, nel mondo del calcio si griderebbe allo scandalo nazionale, internazionale, mondiale, Inter…planetario. Ebbene, nel mondo dell’editoria e dei giornali locali è accaduto anche questo. E “Tutto in una notte” come il titolo del famoso film.

I nomi dei giornali e dei protagonisti è inutile farli: li conoscono tutti. E’ successo qualche anno fa: un editore che si credeva grande, poi morto suicida, avendo una grande disponibilità di denaro e una altrettanto evidente mania di grandezza, volle aprire alcune redazioni del quotidiano di cui era proprietario, nella regione dove era nato, nelle città di provincia dalle quali era partito per fare fortuna e diventare uno dei più grandi imprenditori italiani. Inoltre, il nostro aveva in mente di andare a fare la guerra ad un suo amico-nemico editore, proprio a casa di quest’ultimo e perdipiù sul suo terreno: i giornali locali. Un po’ quello che aveva tentato alcuni decenni prima il mitico Lamborghini, che dal produrre vini e trattori cominciò a sfidare il suo amico Enzo Ferrari cominciando a realizzare anche lui fuoriserie, rimaste però un prodotto di nicchia ancora di più delle rosse di Maranello.

Ma, tornando ai giornali, la guerra fra l’imprenditore e l’editore era ormai dichiarata: e alla guerra si va come alla guerra, quindi con tutte le armi possibili. Ma mai sbarco in territorio nemico era stato tanto “rumoroso” come questo di cui racconto. I mezzi, come detto, erano ingenti, i generali erano tanti e di gran nome. Mancava la truppa. Con un’operazione-lampo, decisa quanto spregiudicata, l’editore pensò bene di portare via l’esercito al nemico: convocò i giornalisti della testata avversaria e gli propose d’amblè (SI SCRIVE COSI’? MAH) di passare dalla sua parte, mettendo sul piatto il raddoppio dello stipendio.

Come quei calciatori che l’anno prima baciano la maglia e quando segnano la sventolano a mo’ di bandiera verso la curva dei propri tifosi, rilasciando interviste di fedeltà a vita a quei colori; e l’anno dopo invece passano ad un’altra squadra che gli paga uno stipendio migliore (vedi Vieri…), così ve ne fosse stato uno, di quei giornalisti, che rinunciò a vedere raddoppiate le proprie entrate! E, nel giro di una notte, il giornale che da cento anni presidiava quelle zone, si ritrovò senza quasi più giornalisti. Una batosta da cui ci mise un po’ a riprendersi: ma poi, con qualche assunzione, alcuni trasferimenti da altre sedi e così via, parò la botta e ritornò in corsa contro la corazzata invasora. E nel giro di pochi anni mise alle corde gli invasori che, per vari motivi fra cui vendite non certo entusiasmanti, furono costretti a chiudere le redazioni aperte in quel modo così “corsaro”. Alcuni dei giornalisti “transfughi” cercarono di riproporsi al loro vecchio editore, ma furono quasi tutti respinti – tranne quei pochi veramente indispensabili – con un cortese ma deciso: “No, grazie”. Il “tradimento” nel passaggio da un giornale all’altro è una cose frequente fra i giornalisti, ma viene raramente perdonato: o meglio, passa in secondo piano solo per le “firme” o per quelli che hanno amici fra i direttori dei giornali.

Questo episodio comunque dimostra che non basta portare via agli avversari i componenti della squadra per approntare una compagine vincente. Insomma, non bastano i soldi per fare un buon editore, così come non bastano per fare un buon presidente di società calcistiche. Assiomi entrambi ampiamente dimostrati, in Italia e all’estero.

 
 
 

“DROGA” DOPPIO ZERO

Post n°39 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio
 

Questo “caso” vede protagonista uno dei poliziotti più intelligenti che io abbia mai conosciuto. Oggi fa il questore ed è un alto funzionario molto stimato al Ministero dell’Interno. Quando l’ho conosciuto io, circa 20 anni fa, era il capo della Squadra Mobile di una città di medie dimensioni, ed aveva un rapporto speciale con la stampa. Non che soffiasse notizie che i magistrati inquirenti non volevano dare, ma ti metteva sulla giusta strada per capire. Non che anticipasse le conclusione delle sue indagini, ma ogni volta che era arrivato ad un buon punto, teneva una conferenza stampa, al termine della quale immancabilmente pregava i giornalisti presenti di chiamarlo se avessero il minimo dubbio, prima di scrivere boiate nel loro pezzo. Naturalmente lo faceva anche per mettersi in mostra: ci teneva soprattutto ad essere trattato bene da quelli che finivano sul tavolo degli alti papaveri del Ministero dell’Interno. E lui sembrava conoscere alla perfezione come era composta la “mazzetta” (il pacco di giornali) che leggevano a Roma.

Insomma, alla fine appariva sui giornali più lui di sindaco, prefetto e vescovo messi insieme.

In quel periodo io ero passato da un giornale della capitale ad un altro, più piccolo, che apriva una redazione nella città dove operava il nostro poliziotto. Negli anni precedenti il nostro personale rapporto si era consolidato: ci fidavamo l’uno dell’altro, c’era reciproca stima.

Qualche giorno prima dell’uscita del nuovo quotidiano, un lettore di un altro giornale, chiese per lettera che fine faceva la droga che veniva sequestrata dalle forze dell’ordine: si tratta di tempi in cui i sequestri erano all’ordine del giorno. Così al nostro poliziotto – ottimo public relation man, come detto - venne in mente di organizzare una “distruzione” pubblica della droga, davanti agli obbiettivi dei fotografi dei giornali. Quando? Proprio la vigilia dell’uscita del primo numero del mio nuovo giornale. L’appuntamento era per le 8 del mattino (ora invero antelucana per qualsiasi giornalista e fotoreporter) all’inceneritore dei rifiuti speciali posto all’interno dell’ospedale cittadino: davanti alla “bocca” della grande fornace, il capo della Mobile si sarebbe fatto fotografare mentre gettava nel fuoco alcuni sacchetti di eroina e cocaina. Tutti i cronisti erano avvertiti, così come tutti i fotografi. Non doveva mancare nessuno, la foto doveva finire in prima pagina.

Alle 7.50 io ero, assonnato ma puntuale, davanti all’ospedale, in attesa del “mio” fotografo. Alle 8 erano arrivati tutti, ma non lui. Il poliziotto propose a tutti di aspettare ancora un quarto d’ora. In realtà aspettammo mezz’ora, ma del fotografo nessuna traccia. A quel punto si decise di procedere. Io non sapevo più che pesci pigliare: già mi vedevo di ritorno in redazione dove il caposervizio mi avrebbe interrogato sulle foto. E io avrei dovuto rispondergli: non ce le ho… Il giornale sarebbe uscito – il primo numero! – senza la notizia del giorno. Praticamente una disfatta.

All’epoca non c’erano ancora i cellulari. Cercai una cabina telefonica: trovai miracolosamente un gettone in tasca e feci il numero di casa del fotografo: “Prontoooo…”, rispose una voce assonnata. “Carlo (non è il suo vero nome) – urlai - ma che minchia fai ancora lì?”. “Perché, che ore sono?”. A quel punto tirai giù una serie di bestemmie che i vetri della cabina tremarono. Lo mandai a cagare, lui, la sorella, la madre, la nonna e anche il cane, se lo aveva, e spaccai la cornetta della cabina contro il ricevitore. Il grandissimo stronzofigliodiputtana  non si era svegliato e ora ero nella merda fino ai capelli.

Speravo ancora nella benevolenza dei colleghi che supplicai di cedermi una foto. Coalizzati contro i nuovi arrivati, gli altri giornalisti opposero un secco no. Non se ne parlava nemmeno: se ne andarono ridacchiando. Chiamai i capi dei loro giornali, che conoscevo, ma anche questi nicchiarono. Anche il poliziotto si scusò, ma non poteva restare tutto il giorno ad aspettare un solo fotografo.

Già mi faceva male il sedere per la solenne inculatura che stavo per prendere, quando mi venne un’idea tra il geniale e il folle. Mentre stavo tornando mestamente in bicicletta in redazione, mi trovai a passare davanti ad un supermercato. La lampadina si accese. Non avevo il coraggio di confessare nemmeno a me stesso cosa stavo tentando di fare: mi diressi come un automa verso il reparto paste e farine. Comprai due chili di “doppio zero”, non prima di aver chiesto al commesso quale era quella più bianca, più raffinata. Lui mi rispose appunto la doppio zero, ma dovette pensare: “Cosa vuole fare questo qui, sniffarsela?!?...”. Ce l’aveva scritto in faccia.

Due corsie più in là mi fiondai sui sacchetti da freezer, quelli trasparenti. Ruppi di nascosto un paio di confezioni: dovevo controllare che fossero più simili possibile ad altri che avevo visto poco prima… Andai alla cassa. Pagai. Uscii e mi diressi al primo bar che trovai. “Il bagno?” chiesi implorante al barista. Mi chiusi dentro e cominciai a confezionare le mie “dosi”. Mi sentivo come uno spacciatore che ha appena acquistato una grossa partita e la sta tagliando più velocemente possibile: il parco-buoi dei tossici non aspetta, se non ce l’hai tu, vanno da altri.

Scacciai quei pensieri del cazzo e poggiai su una mensolina il frutto del mio “lavoro”: due sacchetti in tutto e per tutto identici a quelli bruciati poco prima dal Capo della Mobile. Piccola, piccolissima differenza: dentro c’era farina, non droga. Avete presente il disegno doppio della Settimana Enigmistica? Solo un occhio attento può riconoscere i particolari differenti. All’occhio distratto del lettore medio, non sarebbe “saltata” alcuna differenza. Era questo il mio piccolo complotto.

Ma dovevo ancora fare i conti con l’”Oste”.

Dieci minuti dopo ero in Questura, nell’ufficio del Capo della Mobile. “Che vuoi ancora?”, mi interrogò seccato. Non dissi una parola. Mi sedetti e tirai fuori dalle tasche del cappotto i due sacchetti. Li lasciai cadere sulla sua scrivania. “Cos’è sta roba?”, fece sconcertato. “Droga…”, risposi”. “Droga?! Quale minchia di droga? (era meridionale come me)”. “L’ho sequestrata poco fa alla Standa” risposi con il massimo della naturalezza possibile”.

Mi guardò come se fossi una “margherita” fumante appena uscita dal deretano di una grossa vacca che l’aveva fatta nel suo ufficio. Stava cominciando a sbuffare come un toro infuriato, quando la lampadina si accese anche a lui. “Farina?!?.....”. “Già – ammisi a metà tra il soddisfatto e l’impaurito - … ma è doppio zero!!!”. La battuta non era piaciuta: “Non fare il coglione con me”, cominciò a strepitare. Pausa. Pausa lunghissima. Lui stava in silenzio, la testa fra le mani. Io non dicevo niente ma lo guardavo evidentemente con l’occhio di Bambi quando sta per essere divorato dal Re Leone.

“Scordatelo – tuonò – io queste stronzate non le faccio, nemmeno per te che sei un amico”. Avevo due strade: supplicare in ginocchio leccandogli le scarpe, oppure tentare di fare il duro. Pensavo mi venisse spontanea la prima scelta, invece scattai in piedi e mi misi a fare l’Humphrey Bogart di “è la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente!”.

“Ascolta – dissi con voce calma ma decisa – sono disperato. Non posso tornare al giornale senza la foto del giorno. Perdipiù sono incazzato come una mandria di bufali con il nostro fotografo. Quando torno al giornale lo ammazzo con queste mani e tu ti ritrovi un altro omicidio fra le palle. Tu ora fai poche storie. Ti rimetti il cappotto, saliamo insieme su un’auto della Questura, andiamo in ospedale, ti metti in posa con questi due sacchetti della Madonna e li lanci nell’inceneritore davanti alla mio fotografo. Altrimenti non apparirai mai sul mio giornale e ogni volta che posso ti darò contro!”.

Il poliziotto farfugliò che ero matto, che volevo fargli passare un guaio, ma mi vide così deciso che dopo qualche minuto cedette. Allora chiamai il fotografo e lo minacciai di una morte atroce se non si fosse fatto trovare entro dieci minuti all’ingresso dell’ospedale con due, non una, macchina fotografica: visti i precedenti, meglio andare sul sicuro.

Il Capo della Mobile ridacchiava sotto i baffi quando incenerì due chili di ottima farina, immortalato dal fotografo del mio giornale. Gli dissi che gli dovevo la vita e che ero in debito con lui. Mi mandò a quel paese e se ne andò bestemmiando per il tempo che gli avevo fatto perdere. Restammo io e il fotografo, al quale naturalmente non avevo detto niente della farina: lui aveva fotografato droga, non occorreva che sapesse. Mi chiese, stupito, come avessi fatto a convincere il poliziotto a bruciarne un altro po’ e dove l’avessimo presa. Mi inventai una storia così assurda che non sto neanche a raccontarvela, ma che lui si bevve come un chinotto. Del resto, chi avrebbe potuto immaginare che la verità era ancora più assurda di qualsiasi frottola?

“Tutto bene?”, mi chiese il caposervizio al mio rientro. “Quella testa di cazzo del fotografo – risposi con l’aria di chi rimedia ai guai prodotti da altri – fotografo che spero tu voglia licenziare quanto prima, è arrivato come al solito in ritardo. Ma grazie ai miei buoni rapporti ce l’abbiamo fatta, abbiamo le foto”.

Il giorno dopo, quando i capi degli altri giornali videro che avevamo anche noi la foto, saltarono sulla sedia e fecero delle sonore litigate con i loro fotoreporter: credevano che ci avessero venduto la foto sottobanco. In effetti sarebbe stata l’unica soluzione possibile. Nessuno sospettò un falso clamoroso. Qualcuno mi “minacciò” di svelare come avessi fatto, altrimenti mi avrebbe denunciato al sindacato, all’ordine e altre amenità. Naturalmente non successe niente e io tenni duro, custodendo il segreto fino ad oggi. Se leggeranno questo libro, qualcuno di loro senz’altro esclamerà: “Lo sapevo…”.

Lunga vita a te, poliziotto bruciatore di farina: fossero tutti come lui…

 
 
 

SINDACO-BRIGATISTA

Post n°38 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

Non c’è limite alle infinite possibilità della stampa. Di solito noi giornalisti raccontiamo episodi straordinari di seconda mano, nel senso che li abbiamo ascoltati da altri che li hanno vissuti in prima persona. Quella volta no, fui io in prima persona il pessimo protagonista di una vicenda al limite del paradossale, dell’incredibile, dell’assurdo. E, da buon cattivo, feci la mia vittima: il sindaco della città dove lavoravo.

Era l’anti-vigilia di Natale di una quindicina d’anni fa. Prima di chiudere “bottega” per i due canonici giorni di stop dei giornali (la vigilia e Natale), feci una bella intervista al sindaco, chiedendogli di fare un bilancio di fine anno della sua amministrazione. Il primo cittadino parlò a lungo, io limai il tutto. Mi sembrava fosse venuto fuori un bel “pezzo”. Conoscendo il sindaco, lo avevo riletto più volte: era una persona molto suscettibile. In un’altra occasione aveva preteso una lettera di scuse per una notizia non del tutto fondata, che avevamo pubblicato relativamente ad un’inchiesta sul Comune. Ma quella volta ero tranquillo: feci un titolo accattivante ma non eccessivamente brillante. Meglio volare basso, il personaggio non amava il clamore: anni dopo, divenuto braccio destro di uno degli ultimi Presidenti del Consiglio, svolgerà il suo compito egregiamente, e quasi sempre lontano dai riflettori.

Il mattino seguente, il 24 dicembre, il giornale era chiuso: andai dall’edicolante a prendere il pacco dei giornali, per portarlo in redazione, prima di partire per una brevissima vacanza. Aprii il pacco, misi un paio di copie in archivio, poi stavo per uscire con una terza copia sotto braccio, quando squillò il telefono: era il sindaco. In principio non capii bene cosa diceva, era talmente infuriato che si mangiava le parole. Le frasi con senso compiuto erano inframmezzate da bestemmie di vario genere (da quelle parti sono dei “maestri” in questo campo). Mi sedetti spaventato: non capivo che cosa era successo. All’altro capo del filo lo sentivo parlare di brigatisti, pistole… Io balbettai che non capivo di cosa parlavo, non avevo ancora letto il giornale. Ma afferrai che si riferiva all’intervista da noi pubblicata. Gli chiesi tempo per indagare, gli feci gli auguri di Natale – lui mi mandò a cagare – e gli diedi appuntamento a dopo le feste, per chiarirci.

Poi, con una goccia di sudore che mi scendeva lungo la fronte, un brivido nella schiena e le mani che mi tremavano, mi sedetti e cominciai a sfogliare il giornale. Arrivato alla pagina dell’intervista, di primo acchitto non mi parve di notare nulla di strano. Non c’erano errori nel titolo. Cominciai a leggere il testo, scorreva bene. A metà della terza colonna (era impaginato su sei), restai di sasso. Dopo una risposta ad una normale domanda, seguiva una domanda che io non avevo mai fatto: “E dove prese la pistola per quell’attentato e quella serie di rapine?” Rapine, attentati? Ma di cosa diavolo stavo parlando… Non capivo. Il mio articolo ad un certo punto lasciava il posto nella scansione delle colonne, a tutto un altro articolo, anche questo un’intervista, ma no certo al mio sindaco. Bensì, sembrava, ad un brigatista, un terrorista o qualcuno del genere, che veniva intervistato sulle sue malefatte e rispondeva ammettendo rapine, tentati omicidi e così via.

Che cosa diavolo era successo? Il nostro giornale stampava nello stesso centro stampa di un’altra testata del gruppo di cui facevamo parte. Per non si sa quale meccanismo diabolico messo in atto dalla rotativa e dai tecnici che componevano le lastre, una delle nostre pagine – quella con l’intervista al sindaco – andò sovrapposta a una dell’altro giornale – quella in cui c’era l’intervista al brigatista. Perdipiù, le due pagine si erano sovrapposte a metà: mentre in quella del mio giornale, a metà dell’intervista del sindaco, subentrava quella al brigatista; nell’altro giornale era accaduto esattamente il contrario.

La vicenda non è mai stata chiarita del tutto. Anche perché era una “composizione” così stramba, che qualunque tipografo e poligrafico l’avrebbe bocciata come impossibile, inattuabile, inverosimile. Eppure era lì sotto i miei occhi, sotto gli occhi di tutti i lettori, e in particolare del sindaco. Lui, dopo essersi sfogato la prese per fortuna a ridere. Gli bastò prendermi per il culo dieci minuti e l’incazzatura gli passò. Io per farmela passare dovetti fare una litigata feroce al telefono con il direttore del giornale, con il responsabile del centro stampa e anche con l’ufficio: nel senso che mi girarono così tanto che scaraventai in aria un paio di scrivanie e di librerie, mandando a ‘fanculo il giornale, la redazione, il centro stampa, il direttore e il giornalismo tutto.

Fu uno dei peggiori Natale che abbia mai passato da quando faccio questo lavoro. Morale: se potete, se avete tempo e possibilità, fatevi spedire via fax dalla tipografia – almeno quando l’articolo è molto importante – una copia dell’impaginato: può succedere di tutto in un giornale…

 
 
 

CHI VA A ROMA…

Post n°37 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

Ero contento, stavo bene. Avevo un bel gruppo di colleghi che coordinavo. Giovani ma con la voglia di imparare e molto in gamba (oggi uno è vicedirettore e un’altra caporedattore di due ottimi giornali). Dopo i primi mesi di rodaggio dei meccanismi redazionali, le cose cominciavano a filare, stavamo facendo un discreto prodotto, le vendite andavano benino, il direttore e l’editore erano contenti di noi. Morale: potevo andare in ferie una decina di giorni, dopo mesi fatti di 12 ore di lavoro al giorno, spesso senza riposo settimanale. Avvisai il direttore, lui mi disse di stare tranquillo che avrebbe mandato un sostituto all’altezza. Così partii senza remore.

Ero tranquillo perché in redazione restò una collega, diciamo così, a me molto fedele. Il collega che doveva sostituirmi arrivò puntualmente il giorno dopo che ero partito. Prese in mano la redazione e per un paio di giorni filò tutto liscio. Ma dopo aver conosciuto meglio i colleghi, cominciò a fare strani discorsi. Come antefatto bisogna sottolineare che lui era più alto in grado di me: io ero un caposervizio, lui un caporedattore. Ma il giornale che aveva coordinato fino a pochi mesi prima aveva chiuso: la piazza gli era stata sfavorevole. Così era a spasso, inutilizzato come tanti colleghi in altrettanti giornali. Accettò di buon grado le due settimane di sostituzione-ferie: ma solo perché aveva in mente un piano diabolico.

Dopo qualche giorno che era arrivato, iniziò a parlare di cambiamenti, di possibilità di diventare più forti, più organizzati, meglio strutturati. Man mano che passavano i giorni, i suoi veri propositi prendevano sempre più forma. “Sapete, anche il direttore è con me: io farò per così dire da ammiraglio, mentre il vostro capo resterà il capitano della nave. Saremo una squadra fortissima!”. Insomma, voleva fregarmi il bastone del comando. Voleva insediarsi al mio posto e coordinare la redazione, magari facendomi sgobbare mentre lui stava a guardare e si prendeva il merito dei buoni risultati.

Per fortuna, come detto, avevo una collega molto fedele, che mi informava giornalmente delle novità sul nuovo arrivato. Quando mi fu chiaro il quadro mi recai dal direttore e, infuriato come una bestia, lo apostrofai di tradimento: “Ma come, vado in ferie due settimane, e ti mi invii uno che vuole prendere il mio posto, senza dirmi nulla?” Il direttore cadde dalle nuvole e mi garantì che avrebbe preso provvedimenti. “O io o lui! Quando torno non voglio neanche vederlo: potrei anche menarlo!!!”, minacciai incazzatissimo. Il dir mi rassicurò che non avevo nulla da temere, ma io mi coprii le spalle con una telefonata all’editore: “Ragioniere (lo chiamavamo così), ma lo sa che c’è uno che vuole fregarmi il posto? Non si fanno queste cose…A meno che lei non abbia perso la fiducia in me”. Ma per fortuna non l’aveva persa, avevamo un buon rapporto. E anche lui mi rassicurò: “Nessuno ti monterà sulla testa. Torna pure al tuo lavoro”.

E così andò. Tornato in sede, seppi che il tipo non si faceva vedere da due giorni, dopo aver salutato frettolosamente i colleghi, alcuni dei quali stavano per passare dalla sua parte (il giornalista che vuole fare carriera sceglie quasi sempre di stare dalla parte dei suoi nuovi capi, chissà perché…). Mi ripresi quello che mi era stato dato grazie al sudore del mio lavoro. Ma i rapporti interni alla redazione erano ormai irrimediabilmente compromessi. E dopo un paio d’anni le nostre strade si separarono definitivamente. Ma non porto rancore per nessuno di loro: mi hanno tutti insegnato qualcosa. Soprattutto a non stare mai troppo tranquilli, anche quando le cose vanno nel migliore dei modi. Può sempre arrivare uno stronzo o una stronza a rovinare tutto.  

 
 
 

CONFERENZA AL... BAR

Post n°36 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

Personalmente invece mi ricordo quando ero alla presentazione della nuova sede di una importante banca. Ero lì con il mio taccuino e mi sentivo un vero pezzente in un ambiente che profumava di denaro e potere. Fra l’altro, per pura coincidenza, ero correntista di quella banca, e pensavo: “Se questi sapessero quanti soldi ho nella loro banca, non mi farebbero fare neanche entrare”. Ero lì da ore ad ascoltare questi papaveroni del credito che si beavano dei loro miliardi (era in vigore il vecchio conio, come dice Bonolis), dei loro mega-fatturati, dei loro pallosissimi bilanci, quando dalla finestra non ti vedo arrivare il mio idolo, il più grande inviato del più grande giornale italiano. Per un attimo perdo la testa, corro fuori dalla sala conferenze e gli vado incontro: sta scendendo da una Mercedes coupè con i controcazzi e ha in mano una di quelle valigette che una volta costituivano i telefoni cellulari. Lo fermo sulle scale, mi presento, gli faccio i miei complimenti per i suoi reportage, lo innalzo sul piedistallo, in adorazione per il contatto ravvicinato. E lui – wow! – mi prende sottobraccio e comincia a interrogarmi. Poi, visto che sembravo preparato, si dirige verso il più vicino bar. Si siede e continua a farmi domande, mentre tira fuori dalla valigetta uno dei primi computer portatili: una meraviglia della tecnologia, una cosa esclusivissima. Io resto un po’ interdetto e gli chiedo: “Ma non vai a seguire la conferenza?” “Fossi matto – risponde senza alcun pudore – tanto i dati me li dai tu, le considerazioni le faccio io e poi… Hai mica qualche dichiarazione dei capi della banca?”. Io, giovane imbelle ma entusiasta di collaborare con il “mito”, gli propino tutta la conferenza con il virgolettato dei relatori. Lui ogni tanto scrive qualcosa, non prima di avermi chiesto da bere (e ho pagato io…). Poi mi congeda con un abbraccio (!), mi ringrazia di cuore, mi dice di tenermi in contatto – già chissà come, dal momento che non mi dà alcun numero di telefono – e si avvia al bancone del bar. Chiede al gestore una presa telefonica a cui collegarsi con il computer. Poco dopo esce dal bar, rimonta in auto e sgommando si dirige verso l’autostrada. Io sventolo la manina, ma ormai non esisto più.

Il giorno dopo, mentre il mio piccolo articolo riportava pedissequamente l’andamento della conferenza di presentazione, che avevo seguito per ben tre ore, il suo grande, grandissimo pezzo sul grande, grandissimo giornale, era una specie di intervista semi-esclusiva ai padroni della banca, che riportava le frasi che io gli avevo fornito, precedute da domande fatte ad hoc, molto ben fatte. Il suo articolo sembrava più documentato, più presente e più bello del mio. Pareva che lui avesse seguito per ore la conferenza e al termine avesse fatto le interviste: un lavoro di mezza giornata. Invece ci aveva messo poco meno di mezz’ora.

Dovetti rivedere qualche parametro della mia “mitologia” giornalistica sui grandi inviati, ma dovetti ammettere con me stesso che avevo avuto una grande lezione di giornalismo. Magari non proprio “….”, ma pur sempre grande lezione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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