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La società del situazionismo (I)

Post n°5 pubblicato il 13 Febbraio 2007 da fuoriii

“Il sistema di consumo mercantile, anche se una teoria situazionista costituita non fosse mai esistita come possibile fonte d’ispirazione, contiene implicitamente il suo situazionismo.”

—Daniel Denevert, Teoria della miseria, miseria della teoria

1 Il secondo attacco del proletariato contro la società di classe è entrato nella sua seconda fase.

2 La prima fase, che è cominciata in modo diffuso negli anni ’50 e che ha raggiunto il suo punto culminante con le lotte aperte della fine degli anni ’60, ha trovato la sua espressione teorica la più avanzata nell’Internazionale Situazionista. Il situazionismo è l’ideologizzazione diretta o implicita della teoria situazionista, nel movimento rivoluzionario e nella società nel suo insieme.

3 L’I.S. ha teorizzato tutto il movimento mondiale nel momento stesso in cui partecipava a questo stesso movimento, facendo “passare l’aggressività dei blousons noirs sul piano delle idee”, e dando un’implicazione pratica immediata alle sue posizioni teoriche. Presentava così un modello al movimento rivoluzionario, non soltanto nella forma delle sue conclusioni, ma anche mostrando con l’esempio il metodo della negazione permanente; ed è in questo stesso metodo che si trova la ragione per la quale le sue conclusioni furono quasi sempre giuste.

4 Generando in molti dei suoi partigiani le stesse esigenze che praticava essa stessa, e forzando i meno autonomi a diventare autonomi almeno riguardo ad essa, l’I.S. dimostrò che sapeva educare rivoluzionariamente. Nello spazio di alcuni anni, si è assistito ad una democratizzazione dell’attività teorica, che non era stata raggiunta — ammesso che sia stata ricercata — nel vecchio movimento in un secolo. Marx ed Engels non sono riusciti a suscitare dei rivali; nessuna delle correnti del marxismo ha mantenuto la prospettiva unitaria di Marx. L’osservazione di Lenin nel 1914 che “nessuno dei marxisti dopo mezzo secolo aveva compreso Marx” è in realtà una critica della teoria di Marx, non perché fosse troppo difficile, ma perché non aveva riconosciuto e calcolato la sua relazione con la totalità.

5 La natura stessa degli errori dei situazionisti — esposti e criticati da loro senza alcuna pietà — è una conferma dei loro metodi. I loro fallimenti, come i loro successi, servono a mettere a punto, chiarire e forzare delle decisioni. Nessun’altra corrente radicale nella storia aveva conosciuto un tale grado di dibattito teorico pubblico intenzionale. Nel vecchio movimento proletario, la polarizzazione teorica conseguente costituiva sempre l’eccezione, l’esplosione che seguiva era contraria alle intenzioni dei teorici stessi, e si arrivava a ciò soltanto come ultima risorsa, quando il mantenimento di un’unità fittizia non era ovviamente più possibile. Marx ed Engels hanno lasciato passare l’occasione di dissociarsi pubblicamente dal Programma di Gotha perché “questi asini di giornali borghesi hanno preso questo programma molto seriamente, vi hanno letto ciò che non contiene e lo hanno interpretato come comunista; ed i lavoratori sembrano fare lo stesso” (Engels a Bebel, 12 ottobre 1875). Così, difendendo con il silenzio un programma contro i suoi nemici, lo hanno difeso anche contro i suoi amici. Quando Engels diceva nella stessa lettera “se la stampa borghese avesse contato un solo individuo con spirito critico, avrebbe smontato questo programma frase per frase, avrebbe esaminato il contenuto reale di ogni frase, avrebbe dimostrato il suo non senso con la più grande chiarezza, avrebbe rivelato le sue contraddizioni ed i suoi spropositi economici (...) ed avrebbe reso l’intero nostro partito terribilmente ridicolo”, descriveva come una deficienza della stampa borghese ciò che effettivamente era una deficienza del movimento rivoluzionario del suo tempo.

6 L’espressione concentrata della sovversione storica attuale è diventata decentralizzata. Il mito monolitico dell’I.S. è saltato per sempre. Durante la prima fase, questo mito aveva una certa base oggettiva: al livello in cui operava, l’I.S. non aveva seri rivali. Ora, si assiste ad un confronto pubblico ed internazionale di teorie e di ideologie situazioniste autonome che nessuna tendenza riesce a monopolizzare. Qualsiasi ortodossia situazionista ha perso il suo punto di riferimento centrale. A partire da questa fase, ogni situazionista, o presunto tale, deve seguire la sua strada.

7 Le prime critiche del situazionismo sono rimaste fondamentalmente astoriche. Misuravano la povertà teorica dei pro-situs rispetto alla teoria della prima fase. Vedevano bene la miseria soggettiva e le contraddizioni interne di questo milieu, ma non la sua posizione in relazione alla somma dei vettori teorici e pratici di un momento dato; non hanno colto questa “prima applicazione non dialettica” come la debolezza qualitativa dell’insieme, come un necessario “momento del vero”. Anche Le tesi sull’I.S. ed il suo tempo — che sono per tanti riguardi l’espressione sommaria della prima fase nel suo punto di transizione con la seconda — hanno appena accennato all’aspetto propriamente storico del situazionismo.

8 Ad ogni tappa della lotta, la realizzazione parziale della critica genera un nuovo punto d’equilibrio proprio con la società dominante. La teoria sfuggendo ai suoi formulatori, tende, attraverso la sua autonoma inerzia ideologica, a formularsi in tutte le permutazioni e combinazioni possibili; ma soprattutto in quelle che riflettono gli sviluppi e le illusioni nuove del momento. Presi nella transizione dalla prima alla seconda fase, i pro-situazionisti del “riflusso del dopo-maggio” personificavano l’inerzia di una teoria confermata. Quest’inerzia ideologica — attraverso la quale i partigiani della teoria situazionista hanno affrontato in modo lacunoso i nuovi sviluppi nella loro pratica, in quella del proletariato ed in quella della società nel suo insieme — ha misurato la debolezza del movimento situazionista; mentre la rapidità, senza precedenti nella storia, con la quale si generava la sua negazione interna — sabotandosi da sé stesso per sostenere un’esplosione che gli era già sfuggita e preparare il terreno per una nuova fase — conferma la sua verità fondamentale.

9 I pro-situazionisti hanno visto le questioni della seconda fase nei termini della prima. Trattando le nuove lotte dei lavoratori, diffuse e relativamente coscienti, come atti nichilisti isolati di un’epoca anteriore alla quale sarebbe mancato soprattutto la proverbiale “coscienza di ciò che hanno già fatto”, i pro-situs hanno soltanto mostrato che mancava loro la coscienza di ciò che altri stavano già facendo, e la coscienza di tutto ciò che mancava effettivamente ancora. In ogni lotta, vedevano la stessa semplice conclusione totale ed identificavano il progresso della rivoluzione con l’appropriazione di questa conclusione da parte del proletariato. Così, concentrando astrattamente l’intelligenza della pratica umana al di sopra del processo complesso dello sviluppo della lotta di classe, gli attivisti pro-situs furono i candidati bolscevizzanti di un fantasioso colpo della coscienza di classe; hanno sperato con questa scorciatoia di far passare nella realtà il loro programma consiliarista, di cui hanno trascurato le implicazioni per la loro incomprensione o per la loro impazienza.

10 L’I.S. non si è applicata fino ad applicare la sua teoria nell’attività stessa della formulazione di questa teoria, benché la natura stessa di questa teoria abbia implicato la necessità della sua democratizzazione ed abbia così messo la questione all’ordine del giorno. Nel dopo-maggio, né l’I.S., né la nuova generazione di ribelli che aveva ispirato, non avevano realmente esaminato il processo della produzione teorica, né nei suoi metodi, né nelle sue ramificazioni soggettive, oltre ad alcuni procedimenti vaghi ed empirici. Il contraccolpo della realizzazione parziale della teoria situazionista li ha spinti, senza difese, dal delirio megalomane all’incoerenza, in una serie di reazioni a catena di rotture senza contenuto, nell’impotenza, e finalmente, fino alla rimozione in massa di tutta l’esperienza senza che si siano mai chiesti ciò che gli stava accadendo.

11 Anche se l’I.S. ha attirato molti partigiani poco preparati, il fatto stesso che tanta gente senza esperienza particolare della politica rivoluzionaria, né alcuna attitudine o gusto per essa, abbia pensato di trovare nell’attività situazionista un terreno dove potrebbe impegnarsi in maniera autonoma e conseguente, è una conferma della radicalità della teoria e dell’epoca. Se il milieu situazionista ha manifestato tante pretese ed illusioni, ciò era soltanto il normale effetto collaterale della prima vittoria di una critica che ha fatto esplodere tante pretese della società dominante, e tante illusioni su di essa.

12 Nella misura in cui le ideologie ostili della prima fase hanno deliberatamente mascherato tutto ciò che aveva rapporto con i situazionisti — compresi i concetti più esplicitamente associati a loro — la scoperta ulteriore della critica situazionista aveva quest’effetto inverso ed esagerato di conferire ai situazionisti un monopolio apparente della comprensione radicale della società moderna e della sua opposizione. Di qui il carattere brusco, fanatico, di una improvvisa conversione religiosa che ha rivestito l’adesione alla critica situationniste (che spesso ha dato luogo ulteriormente, con un atteggiamento esattamente simmetrico, ad un rifiuto di questa in toto). Al contrario, il giovane rivoluzionario che ora aderisce alle posizioni situazioniste tende ad essere meno incline a quest’eccesso fanatico, proprio perché le diverse sfumature della lotta situazionista e del suo recupero sono diventate un aspetto familiare del suo mondo.

13 Nel contesto della seconda fase, la rivoluzione non è più un fenomeno apparentemente marginale, ma un fenomeno visibilmente centrale. I paesi sottosviluppati hanno perso il loro apparente monopolio della contestazione; ma le rivoluzioni non si sono fermate, sono semplicemente diventate moderne, e somigliano sempre più alle lotte nei paesi progrediti. La società che proclamava il suo benessere è ora ufficialmente in crisi. I gesti di rivolta un tempo isolati contro una miseria essa stessa apparentemente isolata, ora sanno di essere generali, proliferano, straripano e scoraggiano ogni sforzo per contarli. Il 1968 fu il momento in cui i movimenti rivoluzionari iniziarono a vedersi in compagnia internazionale, ed è questa nuova visibilità mondiale che ha fatto definitivamente volare in pezzi le ideologie che vedevano la rivoluzione ovunque, eccetto nel proletariato. Il 1968 fu anche l’ultimo momento in cui le rivolte importanti potevano sembrare rivolte di studenti.

14 Il proletariato ha iniziato ad agire da sé, ma finora solo appena per sé. Le rivolte continuano, come durante gli ultimi cent’anni, come reazioni soprattutto difensive: appropriazione delle fabbriche abbandonate dai loro proprietari, o appropriazione delle lotte abbandonate dai loro dirigenti (in particolare nei periodi di dopo-guerra). Se dei settori del proletariato hanno iniziato a parlare per sé stessi, devono ancora elaborare un programma internazionalista francamente rivoluzionario, ed esprimere effettivamente i loro scopi e le loro tendenze in modo internazionale. Se questi settori del proletariato fungono già da esempio ai proletari di altri paesi, è ancora attraverso la mediazione de facto dei gruppi radicali, e dell’informazione spettacolare.

15 Quest’ideologia della prima fase che insisteva sulla realizzazione concreta del cambiamento radicale senza cogliere il negativo o la totalità, ha trovato la sua realizzazione nella proliferazione di quelle che sono state chiamate le istituzioni parallele. L’istituzione parallela differisce dal riformismo classico essendo soprattutto un riformismo immediato ed autogestito, che non attende lo Stato. Recupera l’iniziativa e l’energia dei piccoli malcontenti, ed è un indicatore sensibile dei difetti del sistema e delle loro soluzioni possibili. La produzione parallela — il cui sviluppo in margine all’economia ricapitola lo sviluppo storico della produzione mercantile — svolge la funzione di correttivo free-enterprise all’economia burocratizzata. Ma la democratizzazione e la “autogestionarizzazione” delle strutture sociali, benché generarici di illusioni, sono anche un fattore favorevole allo sviluppo della critica rivoluzionaria. Lasciano dietro di sé le questioni superficiali della lotta, mentre preparano un terreno più sicuro e più facile a partire dal quale è possibile volgersi a quelle essenziali. Le contraddizioni nella produzione fondate sulla partecipazione democratica, e nella distribuzione parallela rendono facile il deturnamento dei loro beni e dei loro mezzi, al punto da permettere delle “Strasburgo delle fabbriche” quasi-legali.

16 La nozione hippie di trip esprime il fatto che quando le merci diventano più abbondanti, più adattabili e più disponibili, la merce particolare si svalorizza a favore dell’insieme. Non si trova nel trip una merce o un’idea particolari, ma un principio d’organizzazione che permette di selezionare fra tutte le merci e tutte le idee. Per contrasto con il blocco di tempo in cui “tutto è compreso”, che è ancora venduto come una merce distinta, il carattere di merce del trip che è indefinitamente ampio (arte, artigianato, passatempi, manie, sottoculture, stili di vita, progetti sociali, religioni), e che comporta un complesso più flessibile di merci e di stars, è nascosto dietro l’attività quasi autonoma che l’individuo ha l’impressione di dominare. Il trip esprime il momento in cui lo spettacolo è diventato così sovrasviluppato che diviene partecipativo. Trova l’attività soggettiva che manca allo spettacolo, ma si scontra con i limiti del mondo dominato dallo spettacolo; limiti che sono ancora assenti nello spettacolo finché resta separato dalla vita quotidiana.

17 L’indebolimento dell’impero esclusivo del lavoro, e l’estensione di conseguenza dello svago e della sua frammentazione, danno luogo alla nascita del dilettantismo sempre più esteso della società moderna. Lo spettacolo presenta l’agente segreto che sa a quale preciso grado di temperatura il saké deve essere servito, ed inizia le masse alle tecniche della vita esotica ed ai piaceri sofisticati prima riservati alle classi superiori. Ma il “nuovo uomo del Rinascimento” di cui lo spettacolo celebra l’elogio resta ancora lontano dal controllo della propria vita. Quando lo spettacolo diventa sovrasviluppato e vuole disfarsi della miseria e dell’unilateralità della sua origine, riconosce semplicemente di non essere che un parente povero del progetto rivoluzionario. Può moltiplicare i divertimenti e renderli più partecipativi, ma la loro base mercantile li respinge inevitabilmente nella matrice del consumo. Degli individui isolati possono, in una caricatura di Fourier, riunirsi sulla base di sfumature sempre più precise di gusti spettacolari comuni, ma questi legami li lasceranno nonostante tutto distinti gli uni dagli altri e dalla totalità sociale; e l’attività appassionata ricercata affonderà nella sua trivialità. Il nuovo cosmopolita resta storicamente provinciale.

18 All’insoddisfazione crescente, suscitata dalla sua tendenza verso l’uniformità del minimo comune denominatore, lo spettacolo risponde diversificandosi. Le lotte sono incanalate in lotte per un posto nello spettacolo; ciò conduce allo sviluppo semi-autonomo di diversi spettacoli destinati a gruppi sociali specifici. Ma il potere singolare di uno spettacolo gli viene soltanto dall’essere stato posto per un momento al centro della vita sociale. Così l’incremento delle scelte spettacolari riduce al tempo stesso il potere spettacolare, che dipende dall’importanza e dall’asservimento totalitario della pseudo-comunità che lo spettacolo riunisce. Lo spettacolo deve contraddittoriamente essere tutto per tutti gli uomini individualmente, e riaffermarsi continuamente come loro unico ed esclusivo principio d’unificazione.

19 Lo spettacolo risuscita ciò che è morto, importa ciò che è straniero, reinterpreta ciò che esiste. Il tempo necessario perché una cosa acquisisca il giusto grado di banalità barocca per essere “retro” diminuisce continuamente; l’originale è lanciato sul mercato simultaneamente alla sua caricatura, dalla quale spesso si può appena distinguere; le discussioni sulle opere artistiche si circoscrivono sempre di più intorno ad un’unica questione intesa ad accertare se una certa è una parodia o no. Ciò esprime il disprezzo crescente per lo spettacolo culturale avvertito dai suoi produttori e dai suoi consumatori. La società produce uno smaltimento sempre più rapido di stili e ideologie, pervenendo a un delirio che non sfugge a nessuno. Nella misura in cui tutte le permutazioni e combinazioni possibili sono utilizzate, le miserie e le contraddizioni individuali si fanno conoscere, e la forma comune che soggiace ai diversi contenuti inizia a distinguersi; “cambiare illusione ad un ritmo accelerato dissolve poco a poco l’illusione del cambiamento”. Con l’unificazione mondiale esercitata dallo spettacolo, diventa sempre più difficile idealizzare un sistema perché è in una regione diversa del mondo; ed la circolazione mondiale delle merci e quindi delle persone rende sempre più vicino lo storico incontro dei proletariati dell’Est e dell’Ovest. Il riciclaggio permanente della cultura essicca e dissolve tutte le vecchie tradizioni per lasciare spazio soltanto alla spettacolare “tradizione del nuovo”. Ma il nuovo perde la sua novità, e l’impazienza della novità generata dallo spettacolo può trasformarsi in impazienza di realizzare e distruggere lo spettacolo, la sola idea che resta in permanenza realmente “nuova e diversa”.

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