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Un blog creato da giulia.2001 il 24/04/2011

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Goccia -

Post n°64 pubblicato il 26 Maggio 2011 da giulia.2001

Sdraiata sul nostro tavolo di marmo, nuda e ansimante per i troppi baci ricevuti, mi aspetti sorridente.

Ho un piccolo bricco in mano, ma tu hai gli occhi  caparbiamente chiusi, non vedi.

Verso miele caldo sui tuoi piedi alteri e tesi, sulle gambe. Mi soffermo appena un pò di più sulle cosce, fino a vederle brillare alla luce dondolante delle candele. Salgo lentamente, guardo le gocce cadere dense, lambire i fianchi e riunirsi sotto, nell'incavo bellissimo della tua schiena.

Mi piace sentirti sospirare.

Verso miele sui tuoi seni, ora, e con quella scia ambrata disegno cerchi leggeri, fiorellini fluidi e colanti. Non ho fretta, aspetto che il rivolo ti sfiori gentile, lascio che ti avvolga, scendendo, come la carezza di un amante appiccicoso.

La tua bocca sorride e sospira invitante, non è facile resistere, e non posarvi la mia, secca di emozione. Su quelle labbra che so essere dolci come niente al mondo, faccio cadere alcune dense gocce. Ne assapori il gusto con un guizzo della lingua.

Oh, adorata lingua... non posso resisterle.

Mi abbasso su di te, e intrecciamo le carni rosee e zuccherate, appiccicose e calde.

Le tue gambe si aprono un pò di più, rivelando l'unico punto che ho volutamente e crudelmente tralasciato. Mi avvicino ai tuoi riccioli. Lascio passare qualche istante, contemplando la perfezione.

Separo con attenzione la carne umida, e il tuo profumo di rosa gialla mi inebria.

Espongo all'aria il bottoncino che amo così tanto leccare, con due dita tengo ben tesa la pelle.

Sono cauta.

La goccia deve cadere esattamente lì.

La guardo mentre si stacca lenta dal ferro, tracciando nell'aria una linea gialla e odorosa.

Cade, infine, ti tocca.

Un piccolo urlo di dolore e piacere ti sfugge dalle labbra, sorrido.

Il tuo bellissimo corpo, vestito di miele e tremante, si tende. E finalmente parli.

"Ancora Rossana...ancora, ti prego..."

 
 
 

Quattro parole -

Post n°63 pubblicato il 25 Maggio 2011 da giulia.2001

"ti amo da morire" quattro parole, quattro luci abbaglianti.

Mi sdraio sul letto cercando di non pensarci, ma non è facile. Non so chi sia. Ed è questo, forse, che mi rende tutto più strano. Mi copro. Il lenzuolo liscio mi avvolge, anzi, io mi ci avvolgo rigirandomi un paio di volte, stiracchiandomi. Alla fine sono su un fianco, nella stessa posizione di sempre. Adoro i letti duri, forse perchè sono io che mi ci devo accoccolare sopra, non sono loro ad accogliermi.

Chiudo gli occhi, e mi tornano in mente quelle quattro parole. Qualcuno mi ama. Qualche mente persa nell'infinita rete virtuale si diverte a giocare con me. O forse mi ama davvero.

Ho voglia di accarezzarmi.

Dolcemente, come questa sera tiepida di primavera richede.

Infilo la mano tra le gambe appena separate, alla scoperta di cosa mi vada. Mi sfioro la fica, accendo la piccola lampadina del piacere.

"ti amo da morire".

Mi piace la mia fica anche quando è asciutta. Ha una consistenza delicata, per niente sfacciata.Con l'altra mano sfioro la natica, distrattamente, come se non fossi io.

Comincia a far caldo sotto il piumino.

Le dita scavano piano fra le carni, alla ricerca della goccia di eccitazione che sta ancora dentro, timida.

Eccola.

La porto fuori, bagno il clitoride, il piacere si fa subito intenso, allargo le gambe.

"ti amo da morire"

Voglio stare di schiena, adesso, godermi la sensazione delle gambe aperte, delle ginocchia appena sollevate.

La mano scorre tranquilla fra i miei umori, so dove toccarmi. Lo so troppo bene.

Porto l'altra mano sotto le natiche, la insinuo fra le gambe finchè rispunta davanti. Le due mani si incontrano, giocano sul mio sesso. Ora siamo in due, a toccarmi. Adoro giocare con la mia mente. Costringerla a dimenticarsi che sono sempre io.

"ti amo da morire"

Sento il peso delle lenzuola sulla carne. Il petto si solleva un pò, la mano che non è la mia mi penetra. Un paio di dita, per cominciare.

Torturo il clitoride andandomene, ogni tanto, dimenticandomelo mentre mi chiede di essere toccato. Gioco con la pelle della coscia, lottando contro me stessa... e perdo.

Torno su di lui, attratta dal piacere che sa darmi. Mi muovo veloce.

La mano da dietro infila altre due dita dentro. Il leggero dolore della fica troppo aperta. Il clioride gonfio. Mi basta sfiorarlo adesso, bastardamente.  Ed è fatta.

Adoro farmi avvolgere dal piacere.

Goderne ogni spira, ad occhi chiusi. Lasciare le dita dentro, sentendomi pulsare. Continuare a sfiorarmi con una carezza dolce. Dimenticarmi di non gemere, che non sono sola in casa...

"ti amo da morire"

Io..., grazie per questi attimi.

 
 
 

Gli auguri -

Post n°62 pubblicato il 23 Maggio 2011 da giulia.2001

Ero lì davanti al computer che cercavo di scrivere un messaggio di auguri non troppo banale. Avevo già cancellato un paio di frasi, insoddisfatta del risultato. Il monitor desolatamente bianco mi guardava, anzi, mi sbeffeggiava: "non ti viene niente, eh? scribacchina dei miei stivali. Adesso vediamo come ne esci...", mi sembrava di sentirlo dire.

E non ne uscivo infatti.

Riscrissi per l'ennesima volta la parola "auguri", rassegnandomi all'idea che non sarebbe venuto niente di buono, quella sera. Aggiunsi un paio di punti esclamativi, mentre il monitor ridacchiava di me, poi mi guardai intorno.

Non avevo avuto molto tempo per le decorazioni natalizie: solo un piccolissimo albero vicino alla scrivania e un paio di finestra decorate dalle lucine bianche.

Continuavo a pensare a qualcosa di simpatico da scrivere e guardavo il mio albero carico di palline d'oro.

 Solo oro, quest'anno.

Qualche sagoma dorata, qualche catena di perline d'oro, e un gran numero di palle e palline.

D'oro.

Allungai una mano a carezzarne qualcuna. Le feci dondolare, dispettosamente, e come ovvio una mi rimase in mano. Guardai di nuovo il monitor, mentre giochicchiavo con la  pallina, cancellai un punto esclamativo e sentii il monitor ridere fragorosamente, questa volta.

La pallina era fredda, fra le mie mani.

Mi appoggiai allo schienale e aprii un poco le gambe. Un pensiero si faceva subdolamente avanti nella mia mente. Finsi di essere ancora concentrata sul messaggio da inviare, mentre la mano si infilava sotto l'elastico della tuta. Con l'altra mano scrissi qualche lettera, così, tanto per non far capire le mie vere intenzioni a quello stronzo di un monitor.

Passai la pallina sullo slip un paio di volte. Ero eccitata dall'idea che avevo avuto. Una cavolata a pensarci bene, ma in certi frangenti le cavolate sembrano favolose.

Questo era uno di quei frangenti.

In più avevo un conto in sospeso...

Con la destra scrissi, molto lentamente. "tanti auguri". Con la sinistra infilai la pallina ancora fredda sotto lo slip. La lasciai lì un pò, appoggiata sulle grandi labbra, trattenuta del cotone della mutandina. Aspettai che la mia eccitazione aumentasse per la stranezza della situazione e per la sensazione di quell'oggetto estraneo sul mio sesso.

Nel frattempo, lettera dopo lettera, scrivevo "a tutti!".

Mentre aggiungevo un altro paio di punti esclamativi toccai la pallina attraverso lo slip e la spinsi lentamente dentro. Entrò senza nessuna difficoltà.Cercai di non gemere troppo forte perchè non volevo farmi scoprire.

Facevo fatica a concentrarmi, ma selezionai lo stesso la casella dell'oggetto e scrissi, ancora una volta:"auguri".

Spinsi la pallina più in fondo, stringendo poi i muscoli per farla uscire. Il monitor mi fissava silenzioso. Credo che avessse intuito qualcosa.

Aggiunsi la firma, in calce al messaggio, continuando a masturbarmi lentamente.

Cliccai su "Send", e mentre il post veniva inviato mi abbandonai all'indietro, infilai anche l'altra mano sotto lo slip e sfiorai finalmente il clitoride.Venni immediatamente, forse ancora prima che barra blu di invio arrivasse a fine corsa.

Quando riaprii gli occhi guardai il monitor dritto nei pixel: "allora?" chiesi. Non mi rispose, ma credo che stesse rosicando parecchio.

Il messaggio di auguri non era poi così banale...

 

 
 
 

Spossata -

Post n°61 pubblicato il 22 Maggio 2011 da giulia.2001

spossata, stanca

mi sdraio sul letto

è tardi...

ti ho fatto l'amore

l'ho perso dentro di me

l'ho cullato piano piano

ho guardato il tuo viso

ho mosso il mio corpo per te

ora mi stai sfiorando

io vorrei solo dormire

ma il tuo tocco è troppo dolce

troppo morbida la tua lingua

mi riempi di piacere

sto sognando?

quasi addormentata sento

meravigliosi spasmi

invadermi

sarà vero?

ho ancora sonno

ancora di più

mi guidi la mano

io ho gli occhi chiusi

la tua pelle è morbida

godi ancora fra le mie mani

buonanotte amore

 
 
 

Senza titolo -

Post n°60 pubblicato il 21 Maggio 2011 da giulia.2001

lasciati trasportare

dalle mie mani e da questo

suono

che ci entra dentro.

lasciati carezzare

dai miei capelli e da questo

ritmo

che ci travolge.

lascia che l'onda arrivi

piano piano.

non pensare.

chiudi gli occhi.

lascia che cresca

fra una nota e un bacio.

non hai scampo, e lo sai.

 
 
 

Musica -

Post n°59 pubblicato il 20 Maggio 2011 da giulia.2001

questa musica sa di sesso.

di gesti che si ripetono,

di piacere e di dolore

di muscoli tesi,

di fatica e di sudore.

sa di cielo cupo.

di rosso e di nero.

sa di bocche che amano,

di giri su me stessa,

di danza,

di espressione libera.

sa di teste che seguono il tempo,

di occhi chiusi,

sa di piedi nudi nell'erba.

di pioggia,

di corpi umidi e stanchi.

 
 
 

Bimbette come altre -

Post n°58 pubblicato il 19 Maggio 2011 da giulia.2001

zucchero filato.

rosa e azzurro con

mille lire alla fiera

tra orsetti vinti e pesci lessi

in sacchetti trasparenti

io e elena

bimbette come altre

un sogno da veterinarie

una bruna l'altra bionda

allegre insieme

tenendoci per mano

raccogliendo lucertole moribonde

complici di grandi scoperte

e piccoli segreti

come quando

sdraiate sul lettone

circondate di peluche

una mano sotto la gonna

e un sorriso complice

giochiamo con quel bottone magico

che conosciamo noi sole

e aspettiamo quel brivido

che non sappiamo cos'è

nè quando arriva

ma facciamo a gara

a chi lo sente per prima.

 

 

 
 
 

La rete -

Post n°57 pubblicato il 19 Maggio 2011 da giulia.2001

lancio parole,

pensieri profondi,

ricordi quasi scordati

nell'etere.

nel buio impersonale

dei cavi

diventano schegge

di silicio impazzite.

sono emozioni che diventano bit.

cercano e trovano

te,

penetrano, si modificano.

poi tornano a me.

bit che diventano parole,

e scaldano,

eccitano,

emozionano...

sono note di sessso e

orgasmi ardenti,

sono pasticceri pasticcioni e

bimbine ridenti.

sono perle che sfiorano

le mie labbra

e la mia mente.

sono pezzetti di sè

racchiusi in qualche riga,

inviati nella rete,

regalati a tutti

e a nessuno.

 
 
 

Sara -

Post n°56 pubblicato il 18 Maggio 2011 da giulia.2001

Quanto è difficile, mi accorgo, accingendomi a descriverle – o tentare di descriverle – rivivere ora, a quasi cinquant’anni, le emozioni di un bambino.

Ero allora un bambinetto di sei anni, quasi sette, che aveva appena finito la prima elementare. Erano i tempi del miracolo economico, lo sviluppo, la motorizzazione di massa. Mio padre, da tipico rappresentante della media borghesia impiegatizia, si era ritrovato a godere di un po’ di benessere in più dell’usato; e aveva da poco comprato la macchina, una Seicento color pervinca, di quelle che, alla fine degli anni Cinquanta cominciavano a scorazzare a frotte per le strade italiane, e all’inizio di luglio, finita la scuola, andammo in vacanza, per la prima volta nella storia della nostra famiglia, fuori regione, a Siusi, in Alto Adige.

L’albergo e tutto il paese era infestato dai crucchi; saremmo stati gli unici italiani, se non fosse stato per la contemporanea presenza di una famiglia di ebrei romani, madre poco più che trentenne, due figli maschi preadolescenti e una bambina più piccola, della mia età: Sara.

Ai miei occhi, Sara era la più bella bambina che avessi mai visto; il  che non significava molto, in realtà, poiché a quel tempo non avevo mai frequentato nessuno dell’altro sesso che non fosse mia madre o le mie zie. Tuttavia, penso che fosse davvero carina; quanto meno, se assomigliava alla madre, che era una donna giovane, bella ed elegante, sì da suscitare la malcelata ammirazione di mio padre e l’aperta gelosia della mamma.

Piovve quasi per tutto il mese. Passavamo le giornate giocando a scacchi con i due ragazzi romani e il figlio dell’albergatore, un ragazzetto di carnagione bianca e rossa e dai capelli color stoppia, che non spiccicava una parola di italiano ed era francamente odioso. Sara non giocava, non ricordo se perché non era capace o perché preferiva guardarci.

Essendo il più piccolo, perdevo più frequentemente di quanto vincessi, e mi vergognavo terribilmente quando lei si trovava ad assistere alle mie sconfitte. Lei però, sia che mi sentisse più affine per la vicinanza di età, sia che lo facesse per rivalità con i fratelli maggiori, faceva apertamente il tifo per me: mi consolava quando perdevo, esultava quelle poche volte che riuscivo ad essere vincitore.

Ero sempre stato un bambino solo e sfigato; per la prima volta nella mia appena iniziata vita di relazione, mi sentii apprezzato da una bambina, un essere fino ad allora a me del tutto sconosciuto, ed in breve, ovviamente, me ne innamorai. Nonostante fossi già allora timidissimo e complessato, cercai di passare sempre più tempo con lei, trascurando il nobile esercizio intellettuale degli scacchi pur di godere di un’allegra compagnia femminile. A differenza di me, che, quando eravamo vicini, mi sentivo in continuo imbarazzo, Sara sembrava sempre a suo agio; era dotata di una incomparabile leggerezza dell’essere che la rendeva sempre gioiosa e che aveva un effetto rasserenante sul mio consueto umore melanconico.

Dopo un po’, finimmo per stare sempre insieme. Decisi che era la mia ragazza e che da grandi ci saremmo sposati, cosa che preannunciai ai miei genitori, suscitando la loro crassa ilarità, che non fece altro che offendermi moltissimo e confermarmi ancor di più nel mio proposito. Con Sara, non parlai mai esplicitamente dei miei progetti matrimoniali, poiché mi sembrava naturale che avrebbe aderito non appena fosse stato il momento giusto per entrambi, a vent’anni o giù di lì.

Le giornate passarono, lente e romantiche, e arrivò la fine delle vacanze. Il nostro rapporto era stato di amore totalmente platonico. Per parte mia, era già da un paio di anni che avevo imparato a masturbarmi, ma non associavo ancora la deliziosa sensazione che traevo maneggiandomi l’uccellino con la presenza nelle vicinanze di una qualche entità femminile. L’amore era per me, allora, e fu quella l’ultima volta, totalmente svincolato dalla voglia di raggiungere il piacere sessuale. Fu la stessa Sara, quella bambina angelicata e purissima, che mi svegliò alla vita dei sensi.

Era l’ultimo giorno di vacanza, l’indomani saremmo partiti, noi per Genova, lei per Roma. Facemmo una passeggiata nel bosco umido di pioggia, tenendoci per mano. Quando fummo nel folto del bosco, lontani dall’albergo e da ogni presenza umana, mi disse: «Sai Franchino, eri così buffo, il giorno che sei arrivato in albergo, con il tuo cappottino e il berretto con le orecchie…» Il berretto con le orecchie, in effetti, era la passione di mia madre, a me dava molto fastidio e sapevo che mi rendeva totalmente ridicolo; tanto più in pieno luglio.

Continuò: «Allora mi avevi fatto ridere, ma adesso ti voglio bene…»

Il cuore mi era salito in gola, ma non mi venne in mente niente di carino da dirle.

«Sei così tenero e dolce…» disse ancora «dammi un bacino» e appoggiò la bocca sulla mia.

Ovviamente, non sapevamo baciarci davvero, ma quel contatto di labbra sembrò ad entrambi la cosa più deliziosa che avessimo mai sperimentato. Ci avviammo lungo il sentiero per tornare in albergo, ma dopo poco si arrestò.

«Tu sei figlio unico… scommetto che non hai mai visto la passeretta di una bambina…»

Io non solo non l’avevo mai vista, ma non sapevo neppure cosa fosse; per quanto ammirassi le bambine come esseri graziosi e belli da vedere, nessuno mi aveva ancora spiegato che fra maschi e femmine ci fosse qualche differenza anatomica. La guardai con aria interrogativa; lei capì subito che la sua ipotesi era ben fondata. Senza esitazioni, si tirò su la gonna e abbassò le mutandine. Mi apparve, in tutto il suo splendore, l’oscuro oggetto del desiderio di tutti i maschi del mondo, di ogni età, razza e colore, sotto forma di una timida passerina implume che occhieggiava in mezzo a due coscette bianche alabastro.

Mi sorrise con aria birichina, mentre io restavo impalato a guardargliela, chiedendomi perché una porzione anatomica così inconsueta e quasi inquietante mi sembrasse invece, agli occhi del cuore, tanto affascinante.

Comprendendo che mai e poi mai mi sarei mosso di lì di mia iniziativa, si avvicinò, mi prese la mano e se la appoggiò in mezzo alle gambe, direttamente sulla fighetta. Il suo calore mi trasmise una scossa che si ripercosse stranamente sul mio uccellino, che cominciò ad agitarsi sotto i pantaloni. Sara aprì la patta dei pantaloni e me lo tirò fuori; lo soppesò con gli occhi e con la mano, poi prese a menarmelo, così bene come io, da solo, non sarei mai riuscito a fare.

Poiché io continuavo a starmene immobile, con la mano libera prese la mia e mi costrinse a strofinarla contro il suo minuscolo spacco. Ci toccammo per un po’, godendo quella nuova intimità; non posso dire che godetti veramente, in considerazione dell’età, ma certo non avevo mai provato sensazioni così piacevoli; e anche a lei la cosa non doveva dispiacere, visto che non accennava a smettere, ma continuava ad accarezzare e accarezzarsi come se non dovesse finire mai.

Riprese nuovamente a piovere, in maniera così violenta da penetrare attraverso il fitto fogliame del bosco. Cominciammo a bagnarci e a malincuore dovemmo mettere fine al nostro gioco. Ci rimettemmo a posto i vestiti e scappammo via di corsa verso l’albergo, tenendoci per mano.

Quando fummo nell’atrio, al riparo, mi disse: «Ti amo» e mi baciò di nuovo sulla bocca.

«Torneremo l’anno prossimo» dissi io, «mi aspetterai?»

Fece segno di sì senza parlare, mentre due lacrimoni le correvano lungo le guance; si divincolò e corse su per le scale. Andai anch’io nella mia stanza. Avrei voluto dire ai miei genitori che ero diventato uomo e che ben presto mi sarei sposato, ma poi, prudentemente, tenni per me la mia esperienza. L’anno dopo, andammo in vacanza al mare. Di Sara, non ho più saputo nulla.

Sara fu il mio primo, delizioso incontro, del tutto innocente e platonico, con l’altro sesso. Avevo sei anni, e non l’ho più dimenticata. So dove abita e con chi. La Sarai di Roma, la ragazza del ghetto, ha trovato il suo faraone e non è stata restituita ad Abram. Ancora adesso, ogni volta che mi trovo a Roma, appena ho un attimo di tempo, vado in una sorta di pellegrinaggio davanti alla sua porta, in una stradina di Trastevere, presso al fiume, di fronte al ghetto, e rimango per un po’ lì, sotto la sua finestra, come un trovatore medievale che canti alla sua dama una silenziosa serenata. Anni fa, le mandai dei fiori e un biglietto con un appuntamento; ovviamente non venne,  né mi sarei aspettato di vederla; e vedendola, del resto, non la riconoscerei. Non so se lei ricordi il compagno di giochi di quella lontanissima estate piovosa,nei boschi dell’Alto Adige, il bambino un po’ ridicolo con il cappotto e il berretto con le orecchie… A ripensarci adesso, credo che fu il mio unico amore veramente innocente; non ho  mai nutrito fantasie sessuali su di lei, né allora, né dopo, in tutti questi anni. Solo ora, sulla soglia dei cinquanta, per aprire questo libro di fittizie memorie, arrischio di buttar giù due righe sul mio primo amore, augurandomiche il ricordo sia abbastanza rispettoso!

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Carlo Valerio Sara -

Post n°55 pubblicato il 18 Maggio 2011 da giulia.2001

Siete mai stati in Brasile?

Copacabana? Rio de Janeiro? Il Pan de Azucar? La Samba? Il Sole? Il Mare? Le ragazze? Il Palmeiras? (no, non è il tonno). E vi siete mai lasciati cullare dalle note di Antonio Carlos Jobim? Forse Tom Jobim? Chico Buarque de Holanda? Avete mai tentato un approccio galante con in sottofondo il magico sassofono di Stan Getz? No? Davveroooo? Male, molto male, capisco che un viaggetto in Brasil non è per le tasche di tutti, ma un Cd dei sopraccitati lo trovate in qualsiasi negozio a pochi euro; invece di buttarli in Pausini, Tiziani Ferri, Eminem e compagnia, provate per una volta a cambiare scaffale, sono certo mi ringrazierete.

Non come Sara, la mia ragazza, tutte le volte che infilavo nello stereo della macchina “The girl from Ipanema” iniziava a bofonchiare, che gli faceva venire sonno, che era musica da vecchi, che sembrava la sigla di Casa Vianello, e che due palle, e sempre la stessa solfa noiosa and so on… E io lì a pensare al metodo di sostituirla con un modello carioca di quelli col culo tondo e armonico che pare solo gli manchi la parola. Insomma, non so se si è capito, ma io ho una passione smodata per il Brasile (s’era capito vero?), mi piace tutto, ma proprio tutto, pure le favelas, darei una gamba pur di rinascere in quei lidi, e invece sto qua, in quel di Caronno Pertusella, hinterland milanese, nebbia, afa, zanzare, marcite, poppaccio becero alla radio e ragazze col culo basso e cellulitico, blearp.

Pensavo a tutto ciò, solo soletto, in casa, in quel Luglio appiccicaticciamente bigio, mentre ero intento a scartarmi l’ennesima merendina (mio pranzo), sullo stereo “Diggin’ Deeper” nella mitica versione di Herbie Hancock, allietava le mie orecchie e di lì a poco pure la mia lingua avrebbe avuto il suo giusto premio sottoforma di cioccolato, sì, geneticamente modificato, ma dolce e goloso come piaceva a me.

«Telefona al 699xxxxxx e scopri se hai vinto il viaggio dei tuoi sogni» recitava la carta della tortina spaccafegato che avevo appena ingurgitato; bah, perché non provare, con tutti i soldi che buttavo in messaggerie erotiche, non sarebbe stato certo quell’euro in più a collassarmi il conto in banca.

Composi il numero, digitai l’interminabile sequenza di numeri che la vocina registrata mi indicava, attesi in linea e infine riposi con olimpica calma la cornetta sull’apparecchio. Poi svenni.

Avevo vinto un viaggio per due persone a Rio de Janeiro.

Cazzo! (mi si passi l’anacoluto).

Non mi pareva vero, il sogno di una vita che finalmente si avverava, Brasil Brasil Brasil! Mi precipitai da Sara senza por tempo in mezzo. «Abbiamo vinto, abbiamo vinto un viaggio in Brasile» gridai sputacchiandole in faccia appena entrato in casa sua.

La sua risposta mi gelò.

«Ma che razza di vittoria è? Un viaggio a Rio de Janeiro, in quel posto pieno di negri che non si lavano e pensano solo a ballare e giocare a pallone, che schifezza.» «Cicci (la chiamavo Cicci), guarda che Rio de Janeiro è una metropoli tal quale Milano, l’acqua corrente arriva anche là (magari non dappertutto) e non sono tutti Ronaldi e Edmundi che ballano e giocano a pallone (e vanno a puttane, pensai tra me e me) ci sono anche ragionieri, ingegneri, casalinghe e impiegati come dappertutto.»

«Sarà (disse Sara, e scusate il gioco di parole, ma Sara diceva sempre “sarà”) comunque a me di andare nel terzo mondo non mi va, chissà le malattie che si prendono e le vaccinazioni che bisogna fare e poi per quando sarebbe questo viaggio?» Capii che era inutile tentare di spiegarle che il Brasile non era “terzo mondo” e risposi «Dal 1 al 7 Settembre.»

«Ecco, perfetto! Non ci possiamo andare, non ti ricordavi più vero? Dobbiamo accompagnare i miei dalla nonna a Castelporziano, quindi non se ne parla proprio!»

Nella mia mente, improvvisa e violenta come un lampo si materializzò vividamente un’immagine di schizzi di sangue sulle pareti, mannaie e macerie fumanti di Castelporziani, rasi al suolo come Cartagine dopo la terza guerra Punica, ma fu solo un attimo, tornai subito in me.

«Scusa, Cicci, è vero, me ne ero dimenticato.»

Effettivamente lo avevo proprio dimenticato, la mente umana è un congegno sofisticato e stronzo, se qualche cosa non gli va e non la digerisce, la rimuove, e io, Castelporziano, i futuri suoceri e la strafottutissima nonna che non si decideva a lasciare questa valle di lacrime li avevo seppelliti da tempo, anzi, forse nella mia mente non avevano mai nemmeno trovato asilo.

Naturalmente non avevo nessunissima intenzione di rinunciare al Brasile per una simile cagata e Sara stavolta poteva veramente andare a farsi fottere.

Beh, quasi…

Di lasciarla non se ne parlava minimamente, era piena di soldi e lavoravo nella ditta del padre; se avessi fatto una simile cazzata mi sarei trovato disoccupato in men che non si dica e non me lo potevo assolutamente permettere, tra mutuo e macchina da pagare: se non volevo finire sul registro dei protestati dovevo tenermi ben stretta la fidanzata.

Che poi in fin dei conti non era neanche malaccio come ragazza, magari un po’ tonta e schematica nei gusti, un po’ stronza e oca di tanto in tanto, un generale SS nell’intimità, ‘na rompicoglioni da competizione quasi sempre. Però, faceva dei pompini da favola.

Eh sì, malgrado la montagna di difetti di cui sopra, di bocca ci sapeva veramente fare, non avevo mai osato indagare sul come avesse imparato una tecnica cotanto sopraffina, ma non era poi così importante, l’importante era che quando mi calava la zip dei jeans io salivo sull’ottovolante del piacere, aveva connaturati il ritmo e i tempi giusti, eseguiva la pompa a ritmo di Bossa Nova, tocchi sincopati in levare sempre un po’ prima o un po’ dopo di quando te li aspettavi, e faceva crescere il seme pian piano dentro di me, lasciandolo zampillare con tocchi lievi e vellutati, senza tensione, morbidamente e violentemente, lasciandomi poi piacevolmente sconquassato, anzi scosso.

Una goduria credetemi.

Ma non si vive di solo pompini, e IO volevo andare in Brasile, e non c’era bocchino che tenesse, IO sarei andato in Brasile.

Già... “sarei andato in Brasile”, ripetevo tra me e me, con tono tronfio da dittatore sudamericano, il problema è che non sapevo assolutamente come.

Castelporziano e la vegliarda attendevano me e il parentado tutto, e per quanto mi arrovellassi, non riuscivo proprio ad escogitare nessun sistema valido per cambiare la mia destinazione del primo Settembre, dall’avita campagna alle spiagge carioca, sigh. Fu in quella che plinplonnò il campanello (il mio campanello fa plin plon, lo so, lo so è da froci, ma cambiarlo con un virile DRRRIN costava troppo).

«Buonsgiorgni, abida qui el segnor Mastrussao?»

Una Topa galattica era scesa da un pianeta lontano ed era atterrata sul pianerottolo di casa mia, bella, mora, vagamente mulatta, due pere da marchio di qualità “Del Monte”, corpo da favola gotica, gambe da esposizione universale, labbra sulle quali morire (cfr. Mogol), occhi in cui tuffarsi con rincorsa, culo indescrivibile (infatti non lo vedevo).

Raccolsi la mascella e risposi: «Il Signor Mastruzzi... sono io.»

«Segnor Mastrussao, noi della Merendeiro siamo lieci di consegnarglie el suo premio, un viaggiao de due hombre per Rio de Janeiro, io sono Rivaldinha e sarò sua guida per tutto il viaggiao en Brasil, a sua completao desposicion, ci vediamo il primo Settembre all’aeuropuorto de Milan Malpensao, ciao bel Fuastao!»

Mi regalò un occhiolino pieno di doppi e tripli sensi, un bacetto e dondolando svanì dal mio pianerottolo, giustintempo per prendere nota del suo culo da X Files, ai limiti dell’impossibile beltà. Il tempo di riraccogliere la mascella e mi fracassai la testa contro lo stipite del corridoio.

Ma Cazzo!

Viaggio in Brasile. Figa da paura a mia “disposissiao”. Una settimana di Samba, sesso, mare, sole e Tequila e io. Castelporziano con fidanzata & C.

Me infelice.

Certo se Sara mi avesse visto insieme a Rivaldinha mi avrebbe cavato gli occhi, però. Però. Però. Porompompero, però.

Ma certo!

Avevo la soluzione, come avevo fatto a non pensarci prima. Sarei andato in Brasile, altro che Castelporziano, le tette di Rivaldinha, sì sì sì sì sììììì!

Il tocco della genialità prima o poi colpisce tutti, ma devi stare attento perché ti sfiora appena, è come un breve flash che ti accende la mente, sta a te tenere gli occhi aperti e cogliere appieno lo scenario che ti si presenta, così, come su un palcoscenico teatrale, quando improvvisamente le luci abbagliano gli sfondi di cartapesta, gli attori, i musici. E finalmente capisci, tutto ti è svelato, la conoscenza ti pervade e la forza è con te.

«Dovevo farmi tradire da Sara!»

L’uovo di Colombo! Se avessi beccato la mia “adorata” fidanzata nel bel mezzo di una sonora scopata con un aitante giovine, avrei potuto gridare il mio dolore al mondo e alla fedifraga, e soprattutto tenerle il muso per almeno una settimana (quella dall’1 al 7 Settembre) per poi, magnanimo, perdonarla (e non perdere così il mio posto di lavoro).

Naturalmente il tutto doveva essere un processo controllato, mica potevo farmela sbattere da uno sconosciuto, nooo, troppo rischioso, avrebbe potuto poi innamorarsi del tapino e scaricarmi dal suo cuore (e dalla ditta di suo padre), niet! Dovevo farla tradire da un amico fidato, sicuro che si sarebbe levato dai coglioni a mio comando, senza pretendere null’altro che una sana ciulata.

Valerio era la persona giusta!

Valerio, bel tipo, alto, aitante, fico quanto basta, palestrato ma non troppo, mascella possente, pilota di rally, ricco sfondato e pieno di donne (soprattutto top model), ci eravamo conosciuti a militare ed eravamo rimasti in contatto malgrado vivessimo e frequentassimo due mondi lontanissimi. Lui Montecarlo, locali esclusivi, e fighe da paura, io Castelporziano, il Bar Tabacchi sottocasa e Sara.

Valerio però mi doveva un favore, a pochi giorni dal congedo aveva falsificato un permesso per andarsi a scopare la gnoccona di turno, fu beccato e salvato dal mio pronto intervento, mi presi la colpa e mi feci i dieci giorni di rigore in sua vece, avevo aggiunto dieci giorni di naja, ma avevo guadagnato un amico ricco e fico e prima o poi mi sarebbe venuto utile.

Mo’ era il “prima o poi”.

«Caaaaaro Valerio» esordii con tono mellifluo.

«Di cosa hai bisogno Carlo» rispose, conoscendomi ormai nel dettaglio.

«Una sciocchezzuola, dovresti scoparmi la fidanzata» (non amavo tirare le telefonate per le lunghe, anche e soprattutto per via della bolletta).

«Cooosa? Ma sei scemo, Sara? Non è il mio tipo, sai bene che ragazze frequento io.»

E lo sapevo sì, lo sapevo, erano secoli che mi rodevo d’invidia e mai che mi lasciasse qualche rimasuglio.

«E poi scusa è la tua ragazza, non potrei mai, sei un amico.»

In verità se fosse stata una strafiga, non si sarebbe fatto il minimo scrupolo, ma Sara non era precisamente strafiga.

«Appunto perché sei mio amicoe debitore, me la devi scopare. Senti, mo’ al telefono non posso stare a spiegarti tutta la rava e la fava, troviamoci al Bar tabacchi sotto casa mia che ti spiego tutto.»

«No no, che orrore, troviamoci al Luxury qui da me, offro io.»

«Ok, ciao.»

«Ciao.»

Ci contavo, al Luxury servivano un “Bellini” da favola.

Degustando svariati cocktail a sue spese gli spiegai il mio torbido piano, ci volle del bello e del buono per convincerlo ad accettare ma alla fine in nome dell’amicizia e del vecchio favore capitolò. Certo, dovetti cedergli il secondo biglietto per Rio, ma il gioco valeva la candela, tanto non sapevo chi altro portarci. Sicuramente mi avrebbe soffiato Rivaldinha, ma una volta laggiù, sarei riuscito ampiamente a rifarmi, mica si poteva scopare tutta la popolazione femminile del Brasile.

Lo scellerato piano.

Era tutto studiato nei minimi dettagli.

Mi presentai sotto casa di Sara alle 20 in punto, come al solito non era ancora pronta, ma lo avevo previsto, e quando finalmente apparve sulla soglia, attaccai con il mio copione studiato e ristudiato nei giorni precedenti.

«Cazzo, ma possibile che sei sempre in ritardo? Abbiamo appuntamento con Valerio alle 9 in Piazza Redi, lo sai com’è fatto, se non ci vede arrivare, prende e se ne va, e poi alla festa, senza di lui come entriamo?»

«Ummpf, lo sai che mi sta sul cazzo quel tuo Valerio!»

In verità avrebbe voluto “stargli sul” cazzo, e magari calarcisi pure sopra, ma lui non le aveva mai dato corda.

«E poi porterà sicuramente qualcuna di quelle sue troiette che fanno le modelle, dietro alle quali sbaverai tutta la sera» (chiaro sintomo di invidia).

«Chi iooo? Figurati! Sai che non mi piacciono le ragazze di Valerio, abbiamo gusti differenti, e poi io amo solo te, Cicci.»

Valerio ci aspettava (con il quarto d’ora di ritardo concordato) all’angolo di Piazza Redi.

«Serata di merda! Voi due siete sempre in ritardo e io sono stato scaricato da Isabelle» (la troia, ops, pardon, ragazza che frequentava). «Aveva una sfilata e proprio proprio non poteva mancare, si fotta, me ne

troverò un’altra alla festa.»

«Beh, inutile allora andare con due macchine, sali con noi Valerio» cinguettò Sara (quella alla quale Valerio stava sul cazzo).

«No, no, grazie, vi seguo con la mia Porsche» (aveva la Porsche).

Il piano filava liscio come l’olio.

Feci per rimettere in moto la macchina e.

Wrrrr wrrrr wrrr.

Niente.

Il motorino girava a vuoto (in verità avevo montato un piccolo congegno che scollegava l’impianto di accensione, congegno che avevo azionato poco prima di infilare la chiave nel blocchetto). Smoccolai con toni Gassmaniani per un cinque minuti buoni, poi, fintamente affranto, capitolai.

«‘Sta macchina di merda! Non parte, chissà che cosa cazzo gli è preso, e adesso?»

«Non possiamo arrivare tardi alla festa, quella è tutta gente in, io mi avvio e voi mi raggiungete dopo, anzi se vuoi porto io Sara e tu ci raggiungi là, dopo aver chiamato un meccanico» fece Valerio, favolosamente calato nella parte.

«Mi sa che è l’unica cosa da fare, a te non scoccia Cicci, vero?”

«Salire sulla Porsche con quel buzzurro? Un po’ sì, ma piuttosto che star qui a fare la bella statuina.»

Partirono così, rombando nella notte, mentre io, solo e con aria trista e contrita li salutavo con la manina preparando mentalmente la fase due del piano.

Sara nel frattime sfrigolava come olio in padella. Finalmente sola con il suo amore segreto non aveva ancora finito di ringraziare il cielo per la fortuna che le era capitata tra capo e collo, seduta nel Porsche del mitico

Valerio con il suo truzzissimo Carlo appiedato e fuori dai coglioni per almeno un paio d’orette buone.

Era intenzionata a sfoderare tutte le sue armi femminili per far capitolare l’aitante maschione che le stava accanto, e contava che prima del ritorno del suo fidanzato l’avrebbe accolto “tutto” dentro di sé. Yumm yummm (pensò anche yumm yummm, lo giuro!).

Valerio invece viveva il momento con imbarazzo, fastidio ed un lievissimo retrogusto disgustoso sul palato.

 
 
 

(2) Carlo Valerio Sara -

Post n°54 pubblicato il 18 Maggio 2011 da giulia.2001

Sara non gli era mai piaciuta e vestita come era vestita in quella occasione gli faceva ancora più schifo del solito. Gli pareva di accompagnare un gigantesco Ferrero Rocher incartato male ed evitava accuratamente di guardarla per non ferirsi gli occhi con il barluccichìo che la mise color oro sbarbagliava in ogni dove. Si distraeva pensando al pompino che di lì a poco si sarebbe gustato dalle labbra del Ferrero Rocher sedutogli accanto e che Carlo gli aveva decantato con tanta enfasi. La cioccolatina era chiaramente in calore e sparava battutine con doppi e tripli sensi epocali, roba che un camionista sarebbe arrossito violentemente, ma non Valerio, e non che fosse più o meno rozzo di un trasportatore di merci, il problema era che non l’ascoltava minimamente.

Ogni tanto, socchiudendo gli occhi le volgeva lo sguardo (fulminandola) e controllava fino a che punto fosse arrivato il suo grado di cottura; sbiascicava un «Sì, certo», «Epperbacco», «Hihihihi» e poi se ne ritornava nel suo mondo a parte a farsi beatamente gli stracazzi suoi. Era ormai passato un quarto d’ora e secondo i miei calcoli dovevano ormai essere nei paraggi del posto concordato, uno spiazzo nascosto affianco alla statale, scoperto in giovane età, quando si andava tutti ad acculturarci con i giornalini porno acquistati (fregati) di nascosto all’edicola di Piazza Po. Ed in effetti i due erano proprio lì, con la scusa di un bisogno impellente Valerio aveva deviato il Porsche entrando nello spiazzo di cui sopra, sicuro che la reazione di Sara non si sarebbe fatta attendere.

Non si fece attendere.

Era preparato ad una avance della cioccolatina sbarluccicante, non era cieco e si era accorto da tempo immemorabile che la tipina gli sbavava ad ettolitri dietro, ma certo non pensava di avere a che fare con una simile furia. Stava ancora sgrullandosi l’attrezzo che la pantera assassina gli fu addosso, rotolarono come maiali sotto gli alberi che circondavano il loco e mentre con una mano Sara gli abbrancava il pisello ben decisa a non mollarlo, più o meno mai, con l’altra carezzava, graffiava, grattava con foga spasmodica e orgiastica, coprendo di baci linguate, succhi e risucchi il povero Valerio che ormai era in preda ad impercettibili ma ben distinguibili conati di vomito.

«Bello bello bello, amore amore amore, che figo, che figo, quanto sei bbono, lascia che t’assaggio tutto» decantava lei con gli occhi brillanti di una luce spaventosa.

 «Ehm, stellina, perché non andiamo in macchina, saremo più comodi non trovi ?» provò a proporre lui.

«Sì sì sì, tutto quello che vuoi, sarò la tua schiava!»

«Bene! Fammi una pompa, allora.»

Una pompa.

La pompa della benzina.

Si era rotta la pompa della benzina, per qualche misterioso motivo il congegno che avevo montato per non far partire la macchina aveva scassato la pompa della benzina, una inequivocabile macchia puzzolente sotto il cofano ne era il segno più evidente.

Solo, in mezzo alla statale, con la macchina in panne (e senza benzina) stavo per arrivare in ritardo all’appuntamento con le mie corna, e tutto il piano stava andando a puttane.

Le stesse che mi osservavano tra il curioso e divertito sul ciglio della strada mentre imprecavo in aramaico antico contro il destino cinico e baro.

«Abbello? Se stai in ritardo perché nun te piji l’autobbbus.»

Una zoccola di Centocelle in trasferta (cosa ci facesse a Caronno Pertusella, non si sa) mi stava dando il consiglio giusto. L’autobus, potevo prendere l’autobus, ricordavo di avere visto una fermata qualche chilometro prima, una corsetta e se avevo culo potevo prenderlo al volo e arrivare ancora in tempo.

Nel frattime, Sara si stava voracemente esibendo nel suo pezzo forte. Valerio, per quanto disgustato dall’aspetto fisico e dall’abbigliamento (ormai stazzonato) della ex cioccolatina, non poteva non notare che io in fondo non gli avevo mai raccontato balle. A pompe ci sapeva veramente fare e trattenersi era veramente impresa titanica, d’altro canto sarei apparso di lì a momenti e dovevo beccarli in atteggiamenti inequivocabili, ergo doveva resistere... ma era dura, anzi duro!

Il sudore cominciava ad imperlare la fronte del bel Valerio, sentiva l’orgasmo montare dentro di sé e le slinguatine appena sotto il glande date con perizia da Sara certo non lo aiutavano. Quando poi iniziò ad usare anche i dentini la situazione si fece immediatamente disperata. Provò a pensare ed immaginare nella sua mente sata sei i ammoscianti tipo:

«Scudetto all’Inter!»

«Un’intera puntata di Buona Domenica.»

«L’ultimo successo di Andrea Bocelli.»

«Le domeniche estive all’oratorio.»

«Linda Blair nell’esorcista, che sputa pappetta verde.»

«Zia Carmela (ottantaduenne pelosa) in tanga.»

Ma fu tutto inutile, la tecnica sopraffina di Sara ebbe la meglio e Valerio alfine capitolò.

Lo zampillo fu abbondante e sguaiato nella bocca magica della cioccolatina scartocciata che non si tirò assolutamente indietro, chiamata coscienziosamente ad ingollare tutto fino all’ultima molecola. «Ma dove cazzo è finito Carlo?» pensò tra sé e sé, tra uno spasmo e l’altro, Valerio.

Carlo, cioè io, stavo correndo come un pirla sul ciglio della statale facendo lo slalom tra troie di ogni colore e razza, ricordavo la fermata dell’autobus a poco meno di cinque minuti di strada, peccato però che cinque minuti in macchina siano più o meno cinque chilometri a piedi e il mio allenamento (nullo) non mi permetteva prestazioni atletiche degne di nota.

Ai 500 metri il respiro si fece mozzo e le gambe due pezzi di legno che nemmanco Pinocchio, strinsi i denti e arrancai per altri 500, ma a quel punto mi cedettero di schianto le caviglie. Stramazzai al suolo di fronte ad una Nigeriana con due tette tipo palloni aerostatici in preda ad una crisi ipoglicemica e di pianto.

«E adesso scopiamo?» chiese con faccina finto ingenua la troia dorata con ancora la bocca sporca di sborra. «Ehm, stellina, ma sai che sei bravissima a fare i pompini? Una come te non l’avevo mai trovata sei veramente unica e fantastica, non è che me ne faresti un altro?»

Il povero Valerio non aveva infatti alcuna intenzione di scoparsi quell’orribile trionfo del kitsch che aveva davanti, il suo utensile non ce l’avrebbe fatta mai. La sola alternativa era sfruttare l’unica attrattiva sessuale di Sara, sperando che io apparissi da lì a brevissimo. Sara, dal suo canto, inorgoglita da un simile complimento si mise di buona lena a mulinare nuovamente la lingua sulla cappella momentaneamente addormentata, sicura che avrebbe vinto anche questa sfida, e avrebbe ridonato turgore e vita a quell’asta molliccia che pareva come morta.

«Sta con te quello?» chiese un bergamasco in Golf che si era accostato alla nigeriana con le tette balloons.

«Mai visto prima, stava correndo e poi pof, svenuto qui, comunque sono 50 euro di bocca e 100 l’amore.»

«Stasera non mi interessi tu, pota!» fece il Bergamasco.

 «Tu! Svenuto! Quanto vuoi per il culo?»

«Un passaggio ho bisogno di un passaggio, sono in ritardo.»

Puntualissimo invece stava arrivando il secondo orgasmo per Valerio, anche stavolta le aveva immaginate e provate tutte, aveva pure riesumato un vecchio corso di Training Autogeno seguito decenni prima, ma inutilmente. Era assolutamente incredibile come una ragazza così anonima e bruttarella riuscisse a portarlo alle soglie del nirvana con pochi sapienti tocchi di lingua.

Questa volta Sara aveva usato una tecnica diversa ma dannatamente efficace; invece di leccare aspirava come da una gigantesca cannuccia, saettando ogni tanto colpetti linguistici in punti strategici. Valerio sentiva come se gli stessero estraendo l’anima dal cazzo, ed era nel contempo piacevolissimo e devastante. Eiaculò con sua somma sorpresa anche più di prima mentre allucinazioni, che John Lennon con l’LSD se le sognava, esplodevano nella sua mente.

Di Carlo nemmeno l’ombra e partì così con il terzo pompino consecutivo.

Nel contempo partiva anche, rombando, la Golf del Bergamasco delle valli, con me seduto sul sedile affianco. Avevo valutato bene tutti i pro e i contro, il tipetto era mingherlino e gracile, lo avrei sopraffatto facilmente. Dopo avere mercanteggiato a lungo il mio vergine buchetto, avevo alfine accettato la sua offerta di passaggio più 45 Euro di mancia. Contavo di farmi portare nelle vicinanze dello spiazzo di cui sopra e a quel punto liberarmi del valligiano con un bel cazzottone ben assestato, correre verso la Porsche di Valerio e sperare di beccarli ancora in inequivocabili atteggiamenti. Se si sbrigava forse ce la facevo.

«Piano piano, ti prego, vai piano stellina» implorava nel frattime Valerio, ormai in preda a spasmi incontrollati, flash psichedelici, apparizioni celestiali e musiche new age che esplodevano nel cervello a 240 watt di potenza per canale. «Lascia fare a me, amore amore amore, bello bello bello, figo figo figo, che bel cazzone che hai e come risponde bene.» E intanto si era a quota cinque.

«Cinque euro di resto ce li hai?» fece il bergamasco.

«Certo» risposi io pronto a sferrare il mio colpo segreto.

Non ne ebbi il tempo.

Il valligiano mingherlino e gracile era campione provinciale di lotta greco romana, fresco vincitore del trofeo “Tipi Taragni” nella festosa cornice del palasport di Clusone. Parò il colpo bloccandomi il braccio (spezzandomelo scompostamente) e con una mossa dal nome greco (o romano, non so), mi appiccicò definitivamente contro la portiera. Non potevo più muovere un dito e fu con orrore che seguii dallo specchietto del lato sinistro della Golf la lenta svestizione del “Tipo Taragno”. Il suo aspetto mingherlino e gracile celava muscoli guizzanti e gonfi, mai quanto, però, il suo enorme cazzone, che svettava gigantesco sotto i boxer.

Incredibile come tanta roba potesse essere attaccata ad un omino simile, pensai tra me e me mentre un dolore come di trivella incandescente infilata per il retto mi colpiva.

Che male!

«Sta male, sta male! Presto presto, il mio ragazzo sta male ha gli occhi rivoltati all’indietro è svenuto e ha la bava alla bocca.»

«Pure lei, signorina, ha la bava alla bocca» fece il Taragno stappando momentaneamente il suo megacavatappi dal mio (ex) buchetto.

«Sara!»

«Carlo!»

Conclusione.

Valerio, è stato ricoverato d’urgenza all’Ospedale Maggiore, ha un forte esaurimento e ha perso molti (troppi) liquidi, sta chiuso in casa e ha bisogno di molto molto riposo. Ha composto e pubblicato un LP di canzoni in stile anni 60, i critici le hanno definite un po’ datate, la psichedelia è finita da un pezzo, ma il singolo va forte nelle radio. Sara, ha lasciato Carlo, si è iscritta al Conservatorio e vuole prendere il diploma per Oboe, flauto, tromba e trombone. Fiato e labbra non le mancano, sentiremo ancora parlare di lei. Carlo, ha dovuto vendere il suo premio Brasileiro per pagarsi l’operazione di rettoplastica, è stato licenziato e con la liquidazione si è pagato la tessera FIDAL. Si sta allenando per la maratona, ha scoperto l’importanza della corsa.

Ah, dimenticavo: Carlo non mangia più merendine.

 

 

 
 
 

Lacrime -

Post n°51 pubblicato il 13 Maggio 2011 da giulia.2001

lacrime di rabbia.

piccoli torrenti che ti solcano gli occhi.

curvano a destra, poi sfiorano il naso.

gocce dell'anima.

restano lì sospese, alla fine del labbro,

e poi vanno giù

a bagnarti il mento e il cuore.

una, due, - nulla, un moscerino nell'occhio.

dieci, venti - scusa, non mi va di parlarne.

a volte una mano si appoggia a te,

al volto bagnato da ricordi mai spenti,

e un dito ti sfiora le labbra.

"perchè piangi?"

"non lo so, non volevo".

a volte sei solo davanti a un cielo troppo bello.

godi nel sentirle scendere.

non le asciughi neanche stasera.

godi nel vedere le macchie scure sul foglio.

l'inchiostro con cui hai scritto la tua vita,

sbafa leggermente.

"ricordi perchè hai pianto?"

"si, sento il sale tirarmi la pelle,

come potrei scordarlo..."

lacrime che non vuoi, che sanno di te

più di quanto sappia tu.

 

 
 
 

Corpo di uomo -

Post n°50 pubblicato il 13 Maggio 2011 da giulia.2001

ho il tuo corpo nudo accanto.

corpo di uomo che odori di foglie

d'autunno.

che dormi e respiri,

che sogni, forse.

ho il tuo corpo

come una macchia scura sul letto bianco,

in questa afa di inizio estate.

ho una mano di velluto

che corre su di te,

che leggera accarezza la schiena.

ho un dito che sfiora la spina dorsale,

che prosegue malizioso

fino al bianco invernale

e più giù.

corpo di uomo accanto a me,

che apri poco le gambe,

che respiri più forte.

ho una mano che scende,

che si insinua fra te e il letto sfatto,

e trova.

sogni di me, allora...o sono le mie mani?

corpo di uomo che ora non dormi

e inarchi la schiena,

che implori su di te la mia mano intera.

ma oggi io sono una brezza d'estate,

un profumo di fragole...

ho una bocca che gusta il tuo odore

di uomo appagato.

ho una lingua che viaggia sulla tua pelle

bagnandola appena.

corpo di uomo accanto a me

che scalpiti, nervoso e duro.

ora puoi girarti.

e darmi un bacio.

 

 
 
 

Il frutto -

Post n°49 pubblicato il 13 Maggio 2011 da giulia.2001

pelle di pesca

ho, amore mio,

morbida e setosa.

e rugiada d'estate

fra le gambe tese.

e gocce lente

lungo la schiena.

e brividi leggeri

sui seni ampi.

pelle di pesca

sono, amore mio.

e rosa delicata

da annusare.

e velluto color carne

da toccare.

pelle di pesca

divento, amore mio,

il corpo lucente,

bagnato di passione,

divorato dalla tua bocca,

illuminato dalla luna.

 

 
 
 

Quando dormi sei bello -

Post n°48 pubblicato il 13 Maggio 2011 da giulia.2001

sei bello quando dormi.

e incroci le gambe e le braccia

che sembri un nodo impossibile da

sciogliere.

sei bello mentre dormi,

dopo avermi inondato la bocca.

un sonno che non puoi dominare

ti ha portato via.

prima gemevi piano

e io ti guardavo dal basso

chiudere gli occhi

e riaprirli incredulo,

ogni tanto.

ora dormi, ogni tanto sospiri.

te ne stai lì, di traverso sul letto.

sognando di me, spero.

 
 
 

Bambina cattiva -

Post n°47 pubblicato il 13 Maggio 2011 da giulia.2001

Lo so, la doccia è un posto banale; ma questa è una cabina per la sauna, credo, ed è grande quanto il mio bagno. E poi l’acqua che scorre bollente sulla pelle e tutto questo vapore che rende difficile respirare mi stordiscono, come dire, ed è un bene. Mi sono ficcata in questo angolo, la faccia contro lo spigolo a giocare a nascondino, ma stavolta non apro gli occhi neanche se mi pagano.

Uno, due, tre, quattro, cinque...

Apro le gambe e l’acqua si insinua caldissima facendomi contrarre in uno spasmo involontario. Ho voglia di farmi sbollentare la pelle. E poi c’è questo frastuono del getto che mi arriva in testa: è come se mi isolasse dal mondo, dalla camera fuori di qui, in particolare; resto qui e aspetto.

Dove si saranno nascosti... ottantadue, ottantatre, ottantaquat…

I loro corpi caldi mi arrivano dietro all’improvviso. Si appoggiano a me; con delicatezza, direi, ma ora sì che mi sento messa all’angolo. Chissà da quanto erano nella cabina, se mi stavano osservando, se stavano decidendo cosa fare; un complotto alle mie spalle. Non vale, due contro una! ma non ho tempo di stizzirmi perché partono a leccarmi il collo: due lingue che scorrono dall’orecchio alla spalla, e ritorno; ognuna ordinatamente dalla sua parte, quasi in sincrono, tanto che sento che potrei innervosirmi per un momentaneo sfasamento. Professionalità ci vuole, che diamine.

Mi riempio di brividi, sì, bene così.

Sono andata oltre ormai, non posso tornare indietro. Sono due, due durezze che mi premono addosso, a due altezze diverse. Due bei fisici dagli addominali segnati, due volti neanche troppo anonimi. Quando si decide una cosa del genere meglio farla bene, pensavo. Due cazzi che mi toccano, a volte premendo, a volte solo sfiorando ma senza intenzione, solo per farmi sapere che ci sono, sono lì dietro. E sono due.

Ogni tanto smettono di leccarmi, ma dove se ne vanno? cosa fanno? ne sento la mancanza. Con gli occhi a fessura giro appena la testa, intravedo le loro bocche unite nello scrosciare dell’acqua e l’emozione mi fa quasi piegare le gambe. Menomale che sono poggiata al muro, puntellata, quasi.

Dio che voglia ho di lingua, di lingua in bocca. Torco la testa all’indietro, ne chiamo e accolgo una, la succhio, mi faccio succhiare, lascio che mi entri morbida fra i denti ingoiando acqua che continua a venir giù imperterrita, sopra di noi.

Sarebbe già bello così, mi dico, a baciare un corpo maschio sentendone un altro che ti si struscia addosso; ma posso concedermi di più, stanotte.

Ruoto la testa e dall’altra parte mi aspetta un’altra bocca, un’altra lingua, altra acqua da sputare o da ingoiare. Il cuore va a mille. Forse questa è la cosa più erotica che faremo, per lo meno è quella in cui mi sto perdendo. Questo sentirmi schiacciata in un angolo e ruotare la testa a destra e sinistra, lentamente, e farmi riempire la bocca dai loro aliti caldi e dalle lingue grandi e bagnate d’acqua.  Come una bambina con due lecca-lecca, uno per mano, che succhia prima uno poi l’altro, poi di nuovo uno e poi l’altro, senza sapersi decidere.

Sono una bambina golosa.

Non riesco a smettere; la testa mi gira, quasi, per questo continuo ruotare. Per fortuna loro hanno più fantasia di me; le mani cominciano a vagare sulla pelle scivolosa, ad insinuarsi fra le cosce e a toccare, a violare. Per un attimo ho l’istinto di chiudere le gambe, di cacciarli via a pedate, come osano, come si permettono, ma il culo mi si sposta indietro – a tradimento – e sento un paio di dita risalire verso l’alto, da dentro.

Avrei bisogno di più aria, di poter respirare con più forza, a pieni polmoni, ma ci ho già provato e sono mezzo soffocata, prima. Poca aria e troppa acqua, qui dentro. Mi stupisco solo che nessuna delle tre mani che vagano su di me abbia ancora tentato l’entrata nel buco piccolo, ma forse ho parlato troppo presto: eccolo il dito che entra, già lubrificato dal sapone. Sento l’odore fruttato – dio come stona – spandersi nell’aria mentre il fiato mi esce in un singhiozzo.

Professionisti, non c’è che dire.

Che poi com’è che ora mi sembrano venti, le mani? Le sento dappertutto, dentro, fuori, sopra, sotto. Che stanno facendo? Ma poi che importa, purché non smettano.

La pelle mi va a fuoco.

Sono delicati, gentili, li ringrazio mentalmente per questo, perché mi stanno allargando con delicatezza, con gentilezza, e probabilmente quando entreranno non li sentirò nemmeno, sarò così larga che dirò «già fatto?» Comunque non posso star qui tutto il tempo a farmi manipolare come uno straccetto, devo prendere un minimo di iniziativa, diamine, ho una reputazione da difendere. A fatica mi giro verso di loro, svuotandomi delle loro dita: sono bellissimi. Li prendo per la nuca e li spingo uno verso l’altro e loro, docili come agnellini, uniscono le bocche, avvicinano i corpi e io quasi svengo – a guardarli che si scambiano effusioni come due scolarette – le gocce d’acqua che imperlano le ciglia, che scorrono sulla pelle. La dolcezza con cui si baciano fa a cazzotti con i loro corpi modellati dalla palestra, coi membri che svettano duri; ma è questo che volevo, è questo fottuto contrasto, che mi piace.

Si toccano masturbandosi piano, baciandosi con le lingue fuori per farmi vedere.

C’è questo effetto specchio che mi stupisce, mi affascina; se non fossero leggermente diversi di altezza sarebbe quasi sconvolgente. Invece è solo un massacro. Mi tocco, non posso farne a meno, indecisa fra sperare che vadano avanti fra di loro o che tornino da me, o tutte e due le cose in una combinazione impossibile di bocche, di mani e altro. Mi schiaccio contro di loro, improvvisamente ho bisogno di contatto.

Mi accolgono nel loro abbraccio, generosi. Sono generosi.

Baciano anche me – a turno – e io li bacio; è un carosello ancora più assurdo di quello di prima perché ora non solo la bocca ma anche la mano vaga da un membro all’altro, spostando una delle loro, facendosi spostare, a volte rimanendo ostinata dov’è a scorrere su e giù fino a non aver più dubbi, fino a saperli distinguerli dalla consistenza, dalla forma, da quel piccolo particolare.

All’improvviso ho solo una domanda in testa, un dubbio, un punto interrogativo immenso che sovrasta qualsiasi altro bisogno: quale dei due vorrei vedere con in bocca il cazzo dell’altro? Forse quello più basso, anche se è lui che ce l’ha più bello; però se facessi chinare il più basso sarebbe quasi una brutta copia di una donna che lo fa ad un uomo, no: meglio far abbassare quello più alto con una lieve pressione sulle spalle, ché le parole sembrano abolite, qui dentro. Forse sarà più goffo, più strano.

Voglio saturarmi con questa stranezza, con questi contrasti.

Lo carezzo quindi, un po’ spingendolo giù, un po’ fissandolo con uno sguardo che non vuol dire niente. Lui non si precipita a prenderlo in bocca come una puttana qualsiasi, no. Lui si abbassa con una lentezza esasperante, baciando con devozione tutto quello che incontra, mio o dell’altro non importa – senza alcuna fretta – carezzandoci la schiena, poi il culo, poi le gambe.

Una mano per uno non fa male a nessuno.

L’altro ha una mia tetta in mano, la carezza leggero ma si vede che è sovrappensiero, che al momento ci sono cose più importanti nella sua vita, nella sua testa e non solo lì. E infatti una lingua gli sta scorrendo lungo l’asta, su e giù, coprendo tutta la superficie come se dovesse dargli una mano di bianco. Accurato, preciso, l’altro si china ancora di più e gli si infila quasi sotto a prendergli le palle in bocca mentre continua a toccarlo. Gentile, lo dicevo io.

Mi guardo le mani, ho le dita lesse. Forse dovremmo andarcene da qui, forse dovremmo buttarci sul letto come fanno tutti, ma nessuno sembra aver voglia di abbandonare questa sorta di bozzolo erotico isolato dal resto del mondo. Mi infilo due delle cinque dita lesse dentro ma non sento niente, c’è tanto di quello spazio. Mi tocco fuori allora, mentre guardo questi due che si sollazzano e girandomi ogni tanto verso le espressioni di piacere di quello in piedi appoggiato al mio corpo, leccandogli la bocca aperta.

Lo sto baciando quando l’altro glielo prende finalmente in bocca e lui mi urla sulle labbra; un ruggito di piacere che da solo potrebbe farmi venire. Stacco le dita – appena in tempo a dire il vero – guardo verso il basso e ho paura di venire lo stesso. Dio, che meraviglia. Ho un uomo con un cazzo in bocca tanto vicino da sentire, nonostante il frastuono dell’acqua, il rumore del risucchio e i lievi gemiti che emette quando affonda.

È bello. Non ha niente delle pose e della leziosità di certe femmine quando fanno un pompino, gratificate dal piacere che danno come da un premio alla carriera; è serio, concentrato, non guarda in su, non cerca l’angolatura migliore, non si sposta i capelli. Succhia e basta. È devastante, annaspo in cerca di aria appoggiando una mano alla parete. Dio, se non ci uccide la tensione erotica lo farà la pressione bassa, qua dentro.

Non so come ma riprendo il controllo e metto le mani un po’ dappertutto sfiorando, stringendo e graffiando; quello in piedi – placido – gode e dirige con una mano la testa che lo sta succhiando, gli carezza le guance quando si gonfiano del suo cazzo. Mi incanto per un po’ a guardarla, questa bocca che si apre e si chiude, che si fa scomparire dentro un cazzo molto ben messo – anzi, diciamolo, decisamente grosso – senza fare una piega.

Colta da improvviso coraggio mi sposto dietro quello in piedi e gli spingo un dito fra i glutei, nel culo. Entra che è una bellezza, il che mi fa pensare che non si stessero solo baciando prima, mentre io stavo faccia alla parete a fare un due tre stella. E bravi.

Non ho mai dovuto far così poca fatica per infilare un dito in un uomo, è una sensazione inebriante, posso passare subito a due; oh sì che posso. E mi sembra che apprezzi, anche, dai versi che fa. Ora è appoggiato con entrambe le mani alla parete di legno, la testa abbassata mentre quello lo succhia e io sperimento un terzo dito. Nel frattempo ammiro la schiena ampia, i fianchi stretti e la mia mano incuneata là in mezzo, meravigliosamente estranea. Ripensandoci un attimo, però, mi pare che qui si stia prendendo una piega sbagliata.

Non erano qui per me, questi due?

Sfilo le dita con uno strattone, mi intrometto fra di loro a forza, facendoli staccare, strusciandomi polemica contro il cazzo bagnato di saliva, scivoloso. Come è ovvio lui mi prende per un braccio – poco gentilmente, devo dire – mi gira, me lo infila dentro senza fatica e prende a scoparmi.

Te la stavi godendo un po’ troppo, tesoro, torna a lavoro.

Sono sempre stata una bambina prepotente, soprattutto quando le attenzioni non erano tutte per me. Soprattutto quando pago. Certo, alla fin fine sono di nuovo con la faccia alla parete, ma almeno adesso fra me e la parete c’è qualcosa, c’è una bocca su cui poggiarmi e dentro la quale respirare, c’è un torace caldo e delle spalle a cui reggermi, c’è un cazzo duro che mi preme contro la pancia. Un uomo, insomma, che al momento insinua una mano fra le nostre gambe – di chi esattamente non lo so più – e spinge e ruota per infilarmi un dito dentro dove già c’è il cazzo che sfriziona avanti e indietro. E ci riesce, perdio.

Mi attacco al suo membro duro strattonandolo senza gentilezza, tanto per vendicarmi di questa iniziativa così poco scontata, di questo lago che mi ha tirato fuori da chissà dove con un solo dito ben piazzato. Mi gira la testa, li incito a penetrarmi di più, più forte, più dentro, che quando mi prendono i cinque minuti non bado a spese e chiedo più dita a far compagnia al cazzo, e lui ce le mette – non so come – facendomi vedere le stelle e sbavare, mentre la vista mi si sfuoca.

È bello, bellissimo, mai provato qualcosa di così bello... ma non verrò mai. Ho bisogno che mi tocchino fuori – mi conosco, mascherina – e devo trovare il modo di farglielo capire, se qualcuno – uno a caso cazzo – non lo farà spontaneamente entro i prossimi quattro secondi.

 

Qualcuno invece, all’improvviso, spegne l’acqua.

Il silenzio cala nel nostro piccolo spazio.

Il silenzio è terribile, crudele, impietoso. Svela tutti i volgari rumori che stiamo emettendo, li rende crudi, li spoetizza: i respiri animali che escono dalle bocche aperte, lo sbattere ritmico delle carni e i gemiti di fatica; i rumori del sesso insomma, senza scuse. Non c’è più niente di magico, di ovattato: ora siamo solo tre corpi separati che cercano a fatica di compenetrarsi, di godere. All’improvviso tutto mi sembra orribile. Io mi sembro orribile. La bocca alla quale mi sono aggrappata mi abbandona e io rischio seriamente di scoppiare in lacrime mentre quell’altro va avanti a scoparmi come una macchina da guerra. Il ragazzo gentile invece, non lo so se l’ha capito da solo, se gliel’ho detto io, se il mio corpo ha comunicato a livello subliminale – non lo so – però scende, di nuovo, nei bassifondi di questa sauna, nel girone dei lussuriosi, dei sodomiti e dei generosi per trovare il mio sesso – stavolta – per lambirlo con delicatezza prima e con forza poi fino a regalarmi piacere, piacere, piacere...

È finita, dio. Grazie. Tana libera tutti.

Mi accascio in un angolo, le gambe scomposte e la testa di lato, inerme come una bambola di pezza, a godermi questa spossatezza e il dolore sordo fra le gambe. Una voce mi giunge da lontano, da molto lontano, e dice cose senza senso. O forse è il mio cervello che è intorpidito e non riesce a connettere. Poi finalmente tutto mi è chiaro, e per fortuna sono già per terra e non posso svenire e cadere più in basso d così.

«Vuoi vederci scopare?»

No che non è finita, maledizione, cioè, fantastico.

Certo che voglio, certo che voglio!

Non mi esce alcun suono.

La terza volta che lo dico

riesco finalmente a biascicare: «Sì...»

Mi abbraccio le ginocchia mentre loro – tanto vicini da urtarmi – si leccano, si aprono con dita esperte, si scopano: in piedi, in ginocchio, con volti contratti che non scorderò mai, con forza trattenuta, a tratti con violenza, con dolcezza, con dolore. E il gioco continua, anche se per ora non mi eccita – non mi eccita niente, dopo essere venuta – ma mi godo ogni istante, me lo bevo, me lo stampo nella memoria cercando di non perdermi niente, neanche il più piccolo particolare.

Ogni tanto allungo una mano; per ora carezzo le schiene, le cosce tese, mi insinuo a sfiorare durezze, a soppesare ciondoli morbidi e  dondolanti. Finirò col divaricare e infilare dita dovunque ci sia posto, già lo so.

Ma qual è il problema.

Mica sono in penitenza.

 

 

 
 
 

Una storia d'amore a Milano -

Post n°46 pubblicato il 10 Maggio 2011 da giulia.2001

Abitavo a Villasanta. Mi chiamo Luciano, Luciano Cerutti.

Quando tutto cominciò, abitavo a Villasanta, dove la Brianza non si fa ancora collina, ma il grande polmone del parco di Monza ti permette ugualmente di respirare, a dispetto della diossina scaricata dal famoso disastro di Severo.

Veramente sono di San Fiorano, il nostro grande quartiere sito oltre ferrovia; e forse l’unico vantaggio che abbiamo rispetto a quelli del capoluogo consiste nel fatto che la stazione ferroviaria è dalla nostra parte, e loro devono prendere il sottopasso per raggiungerla. Sono ragioniere, anzi, con un certo orgoglio, perito commerciale; lavoravo a Milano, presso uno studio di dottori commercialisti associati in corso Lodi.

All’epoca, oltre al lavoro, ero un capo scout del Clan, e tutti i sabati li trascorrevo tra i miei lupetti, i miei reparti, i miei novizi, inventando nuove attività, secondo il credo del nostro grande Baden Powell. La domenica era un giorno perso; solo, talvolta, andavo al “Brianteo” a tifare Monza, nella speranza che un giorno saremmo divenuti la terza squadra in “A” del milanese.

Non volevo trasferirmi nella metropoli e quindi, per andare al lavoro, prendevo l’automotrice delle 7.13. Guardavo i treni della linea veloce per Arcore e Lecco sfrecciare sulla linea parallela alla nostra, elettrificata, ed io, dannato, aspettavo lo sbuffo di gasolio del trenino che arrivava da Molteno, finché lo stesso stancamente si arrestava alla fermata, dove salivo insieme all’esercito dei pendolari come me. Scendevo a Sesto; di corsa alla Metro 1, poi, dopo venticinque minuti, cambio a Piazza Duomo con la gialla; quindi Missori, Crocetta, Porta Romana e finalmente Lodi/Tibb, dove risalivo a rivedere la luce del sole.

Avevo ventun’anni. Mi innamorai di lei a Porta Romana.

 

La vidi per la prima volta su un vagone straripante di umanità della linea gialla. Era una rossa, piena di lentiggini. Non molto alta, i capelli raccolti in una crocchia, pantaloni, giaccone, scarpe della Nike. Una normalissima ragazza. Però a me piacciono da impazzire le rosse; chissà perché. Nel mio immaginario le rosse sono tutte irlandesi, ah, il cielo d’Irlanda, ed il suo mare, freddo, gelido....

La rividi casualmente sul treno del giorno dopo. Ma dal terzo giorno fui io a cercarla. In breve imparai che frequentava solo e sempre il quarto vagone (seppi più tardi che saliva a Zara) e che scendeva a Porta Romana. E così, addio fermata Lodi/Tibb; iniziai a scendere a Porta Romana, e ad arrivare puntualmente in ritardo al lavoro. Scoprii che lavorava in banca, un’agenzia dell’Unicredito (sfortunatamente avevo il conto alle poste, dove peraltro mi trovavo benissimo; niente appigli, dunque!).

Iniziai a frequentare bar e trattorie della zona. Iniziammo ad incrociare le nostre strade. Lei mi notò, e un giorno, forse, mi fece mezzo sorriso.

Ma l’occasione tardava.

Finché una volta ci trovammo a mangiare al “Dubbio”; io ero sotto la foto appesa con autografo di Maldini, lei vicino alla porta. Era piovuto, ma poi un pallido sole apparse. Si alzò per uscire, dimenticando l'ombrello.

Quello che avevo sempre cercato!

La rincorsi con l’ombrellino, bingo! Ahi, che tampa, non era il suo! Si mise a ridere, e fu così che le nostre vite s’incrociarono. Fu davanti alla Libreria di Porta Romana che la invitai per la prima volta a cena, il sabato sera. Oggi, quando passo davanti al negozio, ancora mi commuovo.

La scopai al Vigentino.

Sapevo fare un fuoco con pochi arbusti secchi. Sapevo montare la Tenda Sopraelevata con buona maestria. Me la cavavo con la palafitta. Una volta steccai una gamba ad un lupetto fratturato, ed il medico dell’ambulanza mi fece i complimenti. Forse sarei sopravvissuto anche in Iraq.

Ma non sapevo mettermi un preservativo!

Ho pensato più volte, oggi che sono il responsabile della Comunità Capi del mio paese, che dovremmo insegnare agli scout come si scopa. Fa parte della vita, e va fatto con responsabilità. Beh, una vecchia zia svernava in Liguria, e mi aveva lasciato le chiavi del suo appartamento in Via Ripamonti. Quindi decidemmo che l’avremmo fatto lì.

Era Ottobre, faceva un freddo becco. Lo scaldabagno non voleva accendersi, dovevamo lavarci al freddo. Non sapevo da che parte cominciare. Il nostro incontro ravvicinato fu come quello che avvenne tra il Titanic (il mio povero cazzo lanciato a tutta velocità) ed il grande Iceberg che l’affondò (perché Lei, povera, in quella circostanza era maledettamente frigida). Ci buttammo sul letto, guardandoci dolcemente, e cercammo di prenderci.

Ma il preservativo non entrava, o era alla rovescia; e lei era secca come la fontana malata di Palazzeschi. Infine la penetrai (oddio, gridò molto, ero maldestro come gatto Silvestro). Che disastro, venni in un baleno.

Ci riprovammo, alla fine mi tornò duro.

Le cose andavano ora meglio. Lei era un po’ umida, io ci davo dentro, ma non venivo più. Mi salvò il 24, quello diretto verso Salvanesco.

Lo sentii prendere velocità, giungere come un rombo di tuono, frenare, aumentare lo sferragliamento, sempre di più, sempre di più e... uao, venni, in una esplosione di colori.

Ancora oggi, di tutta la rete cittadina, amo molto prendere il 24.

La sposai a San Calimero, ed andammo ad abitare in Piazzale Lotto. Una rossa in bianco! Che accoppiata di colori. Canta Carmen Consoli: «ricordo il giorno del mio matrimonio...» Beh, io ricordo poco. Non avevamo soldi, facemmo il viaggio di nozze a Tresenda, in una villa di un parente. Trovammo un alloggetto in piazzale Lotto. Lei si fece trasferire al centro servizi della sua banca in Lorenteggio, io prendevo la filovia circolare 90 per recarmi al lavoro.

Si viveva, qualche volta andavamo al “Ducale” a vederci un film. La domenica andavo a San Siro, per la partita dell’Inter, ma mi mancava il Monza, mi mancavano gli Scout, mi mancava Villasanta. Scopavamo abbastanza bene, ci volevamo abbastanza bene, avevamo una vita abbastanza serena, il futuro sembrava accettabile, forse avremmo messo in cantiere un figlio.

Mi tradì in Piazza Cordusio.

Chissà perché, quel giorno non presi la metro. Fu il destino? Non volevo andare sottoterra, avevo visto un uomo, un tossico, in ginocchio, a faccia in giù sull’asfalto. Tutti gli passavano avanti e scendevano la scala. Io non ce l’ho fatta, son tornato indietro. E così ho preso il 2, per piazzale Negrelli; una vecchia motrice Peter Witt, panche di legno, guidata da una tranviera. Guardavo dai vetri, scorreva tanta gente...

E a Piazza Cordusio l’ho vista, mano nella mano ad un tipo importante della sua banca, uno che la foto glie l’aveva pubblicata persino il Corrierone. Ed ho capito che era persa per sempre. Ci separammo, andai a stare da solo al Giambellino. Perché? Forse perché mi chiamo Cerutti. Ricordate la ballata di Gaber, il Cerutti, Cerutti Gino?

Beh, ero così, ma non mi chiamavano Drago.

Al bar sport, parlavo sempre del Monza. Mi ritenevano un pirla. Forse io sono un pirla, un pirla tutto solo. Non volevo tornare dai miei a Villasanta. Pure Milano mi stava stretta. Ero così stufo...

Morì al Niguarda, e fu sepolta al Cimitero di Chiaravalle. Uno stupido calabrone, quello che secondo le leggi di natura non dovrebbe volare, la punse sul collo mentre stava sistemando un vaso di gerani. Abitava col suo dirigente in piazzale Loreto.

Sbiancò subito. Choc anafilattico.

Il dirigente non c’era, ebbe ancora la forza di chiamare un’ambulanza. Ma giunse troppo tardi al centro antiveleni. La portammo al cimitero di Chiaravalle, non so perché, e non l’ho mai chiesto ai miei suoceri. Poca gente. C’era il dirigente della banca, da solo. I parenti stretti e quelli meno. Io ero con gli scout di Villasanta.

Cantavano.

«Madonna degli Scout,

ascolta t’invochiam,

concedi un forte cuore

a Noi ch’ora partiam.

La strada è tanto lunga,

il freddo già ci assal,

respingi Tu Regina,

lo spirito del mal»

Mi unii a loro.

«e il ritmo dei passi

ci accompagnerà

là verso gli orizzonti

lontani si va...»

Voltai la schiena, e ripercorsi i passi perduti.

Sono tornato a Villasanta. Ho ripreso lo scoutismo, sono il Capo Sezione. Domenica vado al “Brianteo”, forza ragazzi, facciamo il culo a quei venduti del Genoa, e torniamo in serie “B”. Ho cambiato studio commerciale, ora lavoro a Monza. Vado a Milano sempre più di rado. Ieri però ero in città. Era il 28 febbraio, il giorno del mio compleanno. Ne compio ventisei. Ho visto una ragazza dai capelli rossi, ai giardinetti di Via Quadronno; mi sembrava Lei, ho affrettato il passo, ma poi l’ho vista entrare al Gaetano Pini. Ho girato a vuoto, sono arrivato in Garibaldi. L’automotrice partiva alle venti e quindici. Ho preso un biglietto alla macchinetta automatica. Mi sono acceso una Marlboro. Mi è caduta una lacrima, ha strisciato sul mio viso. Ma il dolore non era quello...

Io, della vita, non ho mai capito nulla.

 

 

 
 
 

Maria Chiatta in Andrisano -

Post n°45 pubblicato il 10 Maggio 2011 da giulia.2001

Maria era la donna di servizio ad ore che ogni mattina, col sorriso sulle labbra, ci salutava incrociando me e mia sorella che, direzione opposta, ce ne andavamo a scuola. E mai il concetto di direzione opposta fu più calzante perché, mentre Maria s’inerpicava dal suo alloggio, in basso, verso il nostro a mezza collina, noi calavamo, dal nostro eremo, per guadagnare il centro di Napoli dove erano ubicate le nostre scuole.

Tutti sanno che Napoli è città collinare, a semicerchio sul golfo ma solo i napoletani, e non tutti, sanno che a Mergellina inizia un’arteria, in verità strettina ma snodata lungo tutto un percorso che, da quota zero la porta, gradualmente, sotto la collina del Vomero, per correrle attorno ed in piano per un po’ e poi ridiscendere verso il centro storico, il Museo archeologico, piazza Dante e la famosa via Toledo, già via Roma ma, ancor prima, a simbolo della costante mutevolezza politica della città, via Toledo.

Quest’arteria, che è senza soluzione di continuità si chiama, nel tratto da Mergellina a piazza Mazzini dove ridiscende verso il museo, Corso Vittorio Emanuele, o il Corso, da non confondere col corso Umberto I che dovrete chiamare, o in tal modo o Rettifilo, per la sua struttura inconsuetamente diretta, in una città che più sghemba non si può, nemmeno a farlo di proposito.

Noi qui abitavamo, al parco Eva e dal Corso un’ulteriore ascensione attraverso una strada privata e, valicando palazzi intermedi, arrivavamo al nostro paradiso, un bel diciotto piani più su dell’accesso a livello strada. Dal Corso, s’irradiano verso il basso una serie di stradine, vicoli, scalinate, rampe e gradoni che, congiungendo la collina col centro, attraversano i vecchi quartieri spagnoli, una sorta di casbah partenopea costituita da palazzi nobiliari del Barocco ma anche da vecchie case cadenti che restano su, più per inerzia che per pregi particolari, abitate da una popolazione variegata e socialmente molto trasversale.

 

A quei tempi, non molti anni dopo la guerra, molte case erano ancora giù, complete di macerie, o pericolanti coi barbacani che servivano a puntellamenti reciproci, puri castelli di carte pronti al crollo, autentiche scommesse col destino o con San Gennaro.

In una di queste abitava Maria col marito Geppino ed un paio di ragazzini in età prescolare, sempre col moccio al naso, frignanti e petulanti. Maria faceva i servizi perché da qualche anno il marito, cuoco cardiopatico, era a casa, invalido e depresso, indigente e rancoroso verso il mondo, il destino, la guerra che, a sentire lui, lo aveva fregato. In realtà il cuoco aveva fatto la guerra, credo, alla Cecchignola, cucinando per la truppa e senza troppe strippe, dato che Roma, rispetto ad altre città, Napoli compresa, se l’era passata molto meglio. Poiché però era in attesa di una dichiarazione d’invalidità per cause di servizio, adduceva ai bollori delle cucine il proprio malanno. Maria, tipica matriarca napoletana, aveva preso in mano la situazione e, tramite un’amica che faceva la cameriera da una zia di mia madre, aveva trovato posto da noi.

Era una donna, alta e formosa, che procedeva con un passo che dovette poi ispirare la Loren in ‘Matrimonio all’italiana’ di De Sica, una specie di sbirressa o di guappa che col ruotare dei fianchi, muovendo in sincrono il culo faceva girare la capa a tutti gli uomini del vicolo, del quartiere, della città. Bella non era, ma il corpo era assolutamente prepotente ed invadente, e così le si accreditava più avvenenza di quanta non meritasse obbiettivamente, mentre chi la incrociava non mancava di buttare lì dei commenti, pesanti come macigni che, a noi ragazzini, ingenui e poco edotti del dialetto, suonavano fra il misterioso, l’iniziatico e l’osceno.

Ogni tanto mi accadeva di restarmene a casa per qualche disturbo, più o meno passeggero, che la mia salutista ed ipocondriaca madre gratificava con lunghe astensioni da scuola, lasciandomi da solo con Maria, dato che mammà insegnava al Conservatorio e, quasi tutti i giorni li passava lì, fra allievi dotati ed altri, più paraculi che artisti, che poi sarebbero finiti a suonare in complessi partenopei. Avete presente Peppino di Capri ed i suoi musicisti? I professori che accompagnavano, anni dopo, Sergio Bruni? Beh, qualcuno di quelli era fra le nostre vergogne familiari!

Io mi annoiavo da matti e seguivo Maria per casa, come un cagnolino, come lei stessa mi commentava. Il fatto è che era molto gentile con me, parlavamo e parlavamo, non so più di cosa ma ricordo che mi piaceva ascoltarla e seguirla, guardarla e cominciare a comprendere, suo tramite, che il corpo femminile è una bellezza. Non che fosse la prima volta, anche la maestra, pur anzianotta, ma col suo corpo alto e flessuoso da veneta raffinata, mi dava sensazioni inesplicabili, indescrivibili, segretamente torbide.

Maria però era più concreta, meno evanescente ed inarrivabile, ogni tanto in bagno, mentre se ne stava col busto nella vasca per lavarla in profondità, le passavo dietro e, sempre speranzoso in un suo movimento inavvertito che mi mostrasse di più o che ci facesse scontrare, osservavo questa maestosa rotondità che, pur in sformati abiti da lavoro, mostrava la divisione delle due mezzelune che tanto avrei voluto maneggiare ma che mai avrei osato.

Una volta, era una fredda mattina di febbraio, la pioggia batteva con la ferocia che solo a Napoli, paese del sole, è nota, con costanza ed abbondanza tale che Maria, ovviamente scherzando, mi disse che sarebbe stato impossibile per lei tornarsene a casa e che avrei dovuto ospitarla, quella sera, nel mio letto. Io ero tanto ingenuo, allora, che la presi sul serio e mi preoccupai per il resto della mia famiglia, non comprendendo la piccola provocazione che la donna esercitava così con me, che aveva già colto, in più di un caso, a fissarle la scollatura abbondante ed il posteriore .

Quella volta lei, vedendomi confuso, arrossito per l’imbarazzo e quasi febbrile mi disse: «Ma tu a vuo’ ben a’ Maria?» e, senza altre chiacchiere, mi portò in salotto dove la furia degli elementi sul golfo era visibile in Vistavision Panasonic oltre che in effetto dolby, ante litteram. Mi tirò in braccio, dopo essersi stravaccata sulla bergere di mio nonno e, slacciatosi il reggiseno, mi offrì da baciare le incredibili sfere, bianche e sode come mai avrei potuto nemmeno sognarmele. Essì, perché io mica sapevo cosa farmene di quel po’ po’ di femmina che, a suo modo, mi si offriva, consapevole dei miei turbamenti prepuberi!

Per fortuna la matriarca anche stavolta prese la situazione in mano anzi, nelle mani e cominciò a strusciarmi sul viso le sue poppe, colpendomi quasi a schiaffo con le zizze, mostrandomi come succhiarle i capezzoli, incitandomi a morderla perché «core mij, nun m' fai mal, m' piac, accussì» e mentre io ciucciavo e mordevo lei mi aveva preso il pispolo, lo aveva sfoderato e fra un «comm’è piccirillo,» ed un «com’è b'llillo, è bell’ comm, a tte!» con l’altra mano si smanazzava fra le cosce, ben allargate e olezzanti di femmina in calore.

 

Che solo qualche anno dopo, alla prima vera esperienza, feci “due più due quattro” e rimisi il tutto in sesto, collegando le smanazzate e l’odore pungente coi suoi sospiri affrettati e con quella cosa che seppi poi chiamarsi orgasmo.

L’episodio rimase isolato anche perché, per un po’ ne mancarono i presupposti; la mia salute era di ferro ed io troppo ingenuo per inventare qualcosa. L’estate arrivò, torrida quell’anno, insieme alle vacanze scolastiche. Maria era cambiata, più distratta ed assente con me, meno gentile e disponibile, con tutti.

Un giorno non venne al lavoro.

Mia madre, sempre premurosa verso le malattie ed i malati, s’informò, temendo per il cardiopatico. Maria stava male. Molto male. Anzi, era morta. Ammazzata dal marito. Anche lui non stava troppo bene, ricoverato all’ospedale Loreto. Sembra che, da tempo, Maria avesse avviato una losca relazione con un vicino di casa, guardiano notturno, che viveva in un basso ai piedi della casa di Maria e Geppino.

Lui, il cardio, non usciva più per timore che quattro piani da risalire a piedi potessero fargli male e lei, libera come una colomba, s’infrattava nel basso, nelle prime ore del pomeriggio al risveglio di Ciro Coppola, detto Ciro tre cosce. Cardio sì, ma non cieco, lui dalla finestra vedeva la moglie entrare nel basso di tre cosce ed uscirne un’oretta dopo, e la febbre lo divorava.

Fino a quella sera in cui cucinò una zuppa di cipolle per lei e spaghetti ca pummarola, per gli altri. Ai bambini disse d’andare a cercare compagnia nel vicolo, per un po,’ mentre la zuppa, col sonnifero, faceva il suo dovere. Perché una come Maria mica l’accoppi così, è troppo forte, troppo vitale. Invece, una volta addormentata, un sacchetto di plastica a coprire il capo ed in poco tempo cessa il respiro.

A quel punto basta sporgersi dalla finestra e si vola giù.

Si volerebbe, perché a Napoli, nei vicoli, è tutta una ragnatela di corde per i panni che attutiscono la caduta e che preservano il cuoco dal cimitero di Poggioreale ma lo indirizzano, ormai tetraplegico ed invalido incontestabile, al carcere. Che, a Napoli, stessa ubicazione e denominazione comune, anche lui, Poggioreale, si chiama.

 

 
 
 

Frammento di vita di un clochard -

Post n°43 pubblicato il 08 Maggio 2011 da giulia.2001

Le panchine intorno alla chiesa di Santa Maria del Quartiere erano deserte. Solo un uomo sedeva sopra una panca in prossimità di un albero spoglio di foglie. Indossava un cappotto rattoppato in più parti, l’unico che possedeva. Adelmo, questo era il suo nome, rincorreva i suoi pensieri ignaro delle persone che transitavano davanti alla postazione dove stava seduto. La temperatura dell’aria era vicina allo zero. Il cielo carico di nubi. Una pioggerellina sottile cadeva ad intermittenza dal primo pomeriggio sulla città. Da lì a poco, col sopraggiungere dell’oscurità, sarebbe arrivata la prima neve della stagione.

Adelmo sollevò il bavero del paltò e lo avvicinò al collo per proteggersi dal freddo. Da una tasca del cappotto estrasse un sacchetto di plastica annodato con molta cura all’estremità. L’involucro conteneva una mistura di tabacco frutto della raccolta di mozziconi di sigarette. Appoggiò il sacchetto sulle ginocchia, dopodiché aprì una cartina di tabacco per arrotolare una sigaretta. Le mani gli tremavano per il freddo. Distribuì i frammenti di tabacco sulla sottile striscia di carta bianca fino a raggiungere la quantità desiderata. Arrotolò la cartina, ne inumidì un lembo e lo incollò alla superficie sottostante. Tolse dalla tasca una scatola di fiammiferi di legno e accese la sigaretta.

Le prime boccate di fumo consumarono in fretta l’estremità della bionda. Adelmo aveva gli occhi persi nel vuoto, come del resto i suoi pensieri che parevano dissolversi nell’aria allo stesso modo dei cerchi di fumo che gli uscivano dalle labbra.

Da un sacchetto di plastica sistemato attorno ai piedi tolse una bottiglia di vino mezza piena. Afferrò il collo di vetro della bottiglia nella mano e l’avvicinò alle labbra. Deglutì il vino frizzante lasciando che il liquido scivolasse poco per volta nella gola a riempirgli le viscere e trasmettergli un poco di calore. Furono sufficienti poche sorsate per svuotare il recipiente di vetro. Lasciò cadere la bottiglia per terra, fra le foglie accatastate ai suoi piedi, abbandonandola al suo destino. Era la quarta bottiglia di lambrusco che svuotava da quando al mattino si era messo per strada e ancora doveva cenare, se mai ne avesse avuto l’occasione.

Da sotto il calzino tolse una piccola busta. Era lercia, spezzettata in più parti. L’aprì e si mise a contare la cartamoneta che custodiva. Gli erano rimasti soltanto alcuni biglietti da dieci euro; per qualche giorno non gli sarebbe mancato il denaro per comperarsi da bere, poi avrebbe dovuto arrangiarsi.

Adelmo conduceva la vita da barbone da una decina di anni. Si era messo per strada dopo avere abbandonato affetti, lavoro e carriera, deciso a vivere alla giornata. Aveva preso quest’ardua decisione dopo essere stato ricoverato in sala di rianimazione a causa di un incidente stradale di cui era stato innocente protagonista. Durante il coma aveva varcato più volte la soglia della vita. In quei giorni d’incoscienza e torpore aveva potuto guardarvi dentro senza trovarci nulla. Di ritorno all’esistenza di tutti i giorni, dopo tre mesi trascorsi in ospedale, si era reso conto che la vita, così come l’aveva vissuta sino ad allora, era priva di qualsiasi significato.

Non ci aveva riflettuto molto nel dare un taglio netto con il passato.

Aveva lasciato dietro di sé carriera, ricchezze e onori, ed il rimpianto di coloro, amici e parenti, che comunque avrebbero continuato a volergli bene nonostante la sua scelta di vita. Da mendicante si era messo alla ricerca di una verità che potesse dare significato alla sua esistenza. Da dieci anni conduceva quella vita da accattone. Gli piaceva stare accovacciato sul marciapiedi di qualche chiesa nell’attesa che qualcuno si degnasse di fargli l’elemosina. Una barba incolta, folta di striature di grigio, gli ricopriva il viso. I capelli, un tempo corti e ben curati, erano lunghi e raccolti sulla nuca con una fettuccia. Si lavava di rado, il corpo mandava un puzzo tremendo, e la pelle aveva assunto un colorito bruno. La gente lo evitava come si trattasse di un appestato, ma lui non se ne dava grande pena perché si comportava allo stesso modo nei loro riguardi.

Dopo avere riposto il denaro nella scarpa si alzò a fatica dalla panchina. Impiegò un po’ di tempo a mettersi dritto, ma non si perse d’animo. Infilò lo zaino di tela grossa sulle spalle e afferrò le due borse di plastica che stavano ancorate ai suoi piedi. A passo lento si avviò verso le strisce pedonali che conducevano all’altro capo della piazza verso Via Imbriani.

La sua andatura era caracollante, insicura. Indeciso sul da farsi arrestò il proprio incedere in corrispondenza del bordo del marciapiede senza decidersi ad attraversare la strada sulle strisce pedonali. «Ha bisogno di aiuto? Vuole che l’assista nell’attraversare la strada?» Sorpreso da quella insolita domanda girò il capo nella direzione da cui proveniva la voce. Una giovane ragazza se ne stava immobile accanto a lui.

«Non abbia timore, l’aiuto io.»

La ragazza infilò la mano sotto il braccio di Adelmo e lo accompagnò dall’altra parte della strada, poi lo salutò e proseguì nel proprio cammino. Quando Adelmo era giovane il semplice contatto con un corpo femminile gli avrebbe messo il sangue sottosopra, stavolta sfiorando l’esile corpo della ragazza non si era sentito confuso dalla sua vicinanza. Anzi, l’umile gesto lo aveva messo in imbarazzo facendolo sentire un derelitto anche se di anni ne aveva solo quaranta.

L’ultima volta che aveva avuto un rapporto sessuale con una donna era accaduto un anno prima, alla stazione ferroviaria. Quella notte se ne stava coricato su di una panca della sala d’aspetto quando fu avvicinato da una giovane ragazza.

«Cento sacchi se te lo fai succhiare» disse la giovane. «Cosa?» «Dai non fare lo stronzo, hai capito bene. Ti do cento sacchi se ti lasci fare una pompa.»

Frastornato dall’insolita richiesta Adelmo si era messo a sedere sulla panca appoggiando i piedi per terra. La ragazza, dall’aspetto elegante e raffinato, vestiva una pelliccia di visone sbottonata sul davanti. Un abito da sera, nero, scollato a punta, metteva in evidenza le forme tonde delle tette. Indossava una paio di scarpe nere, lucide, coi tacchi a spillo che ne affusolavano le gambe. Nella sala d’aspetto, insieme a lui, c’era pure un gruppo di nordafricani; in prevalenza marocchini e tunisini. Gente dedita allo spaccio e a fare marchette. Probabilmente anche loro si erano stupiti nel vedere una giovane donna colloquiare con lui.

Ma anche ad Adelmo era parso piuttosto strano che una tipa così giovane e carina desiderasse a tutti i costi fargli un pompino e pagarlo con una cifra così alta. C’era qualcosa d’anormale nel comportamento della ragazza e non era riuscito a capire cos’era.

«Va bene, dai, ti do centocinquanta sacchi, ma sbrigati a seguirmi nel bagno che ho fretta.»

Adelmo non aveva potuto declinare quell’ultima offerta. E poi se lo sarebbe fatto fare anche gratis il pompino se la ragazza glielo avesse chiesto.

Allontanatisi dalla sala d’aspetto della stazione ferroviaria avevano camminato sotto la tettoia del primo binario fino a raggiungere l’area riservata al personale viaggiante delle ferrovie. Quando si erano trovati a transitare dinanzi alla vetrata della stanza che ospitava il posto di polizia nessuno dei poliziotti aveva fatto caso alla loro presenza, intenti com’erano nel sottoporre ad interrogatorio alcuni extracomunitari dalla pelle nera.

La ragazza gli era sembrata a proprio agio nell’ambiente della stazione, come se fosse solita frequentare quel luogo. Superato uno dei magazzini che ospitavano materiale per la manutenzione, la ragazza era entrata nella latrina riservata al personale delle ferrovie. Adelmo si era accodato a lei seguendola dappresso. Tre orinatoi incastonati nel muro occupavano una intera parete dei servizi igienici. L’ambiente, male illuminato, era provvisto di due cessi alla turca. La ragazza era entrata per prima nel locale aveva provveduto ad aprire una delle porte dei cessi e con un gesto della mano aveva invitato Adelmo ad accomodarsi dentro insieme a lei.

Dentro il gabinetto Adelmo aveva provveduto ad appoggiare le scarpe sull’appoggia piedi della turca e la ragazza si era messa in ginocchio davanti a lui. Un istante dopo gli aveva sganciato la cintura dei pantaloni abbassandoli sino alle ginocchia insieme alle mutande. Adelmo era rimasto in piedi impossibilitato ad appoggiare la schiena a una parete, con gli occhi fissi sul legno della porta che aveva di fronte piena di scritte oscene e tracce di escrementi.

La ragazza, piuttosto eccitata, aveva iniziato subito a masturbarlo.

Adelmo, stupito dal modo di fare della donna, era rimasto ad osservare i movimenti della mano che lo masturbavano, sorpreso nel constatare che al polso aveva infilato un orologio Cartier d’oro massiccio. L’uccello aveva preso subito vigore nonostante il lungo letargo cui Adelmo l’aveva costretto. La ragazza gli aveva succhiato la cappella con impegno nonostante la puzza che emanava. Erano trascorse molte settimane dall’ultima volta che si era lavato ai bagni pubblici di Via Bixio. La cappella doveva puzzare da fare schifo, increspata com’era di sedimento d’urina, ma la ragazza non ci aveva fatto troppo caso, anzi, probabilmente era quello di cui aveva bisogno per eccitarsi. Sembrava averci trovato gusto nell’annusare il tanfo di cui era impregnato l’uccello, infatti, non aveva smesso un solo istante di manovrare la lingua sulla cappella mugolando di piacere come una cagna in

calore.

 
 
 

(2) Frammento di vita di un clochard -

Post n°42 pubblicato il 08 Maggio 2011 da giulia.2001

Adelmo durante la sua tribolata vita da accattone non aveva mai preso in considerazione l’idea di doversi prostituire, ma l’occasione che gli era capitata quella notte era troppo ghiotta e non aveva saputo esimersi dal farlo. Inginocchiata ai suoi piedi, col bordo della pelliccia che sfiorava il pavimento umido di piscio, la ragazza aveva continuato a succhiargli l’uccello sbuffando e ansimando per l’eccitazione di trovarsi a gestire quella strana situazione. Adelmo le aveva sborrato in bocca contraendo le natiche ed irrigidendosi in tutto il corpo. Lei aveva accolto lo sperma fra le labbra fino all’ultima goccia, strizzandogli l’uccello con la mano per non disperdere nemmeno una sola goccia della preziosa sostanza. Portato a compimento la prestazione la ragazza aveva raccolto la borsetta dal pavimento e nella mano di Adelmo aveva lasciato cadere tre banconote da cinquanta euro, poi se n’era fuggita via lasciandolo con le gambe divaricate e le brache calate sino alle ginocchia. Dopo quella sera non aveva più avuto più modo di rivederla.

Qualche settimana dopo il fortunato accadimento aveva smesso di frequentare la sala d’aspetto della stazione ferroviaria. Il posto era divenuto troppo pericoloso, soprattutto per la presenza di tossicodipendenti disposti a tutto pur di procurarsi qualche biglietto da dieci euro. Una sera in cui era più ubriaco del solito alcuni extracomunitari lo avevano picchiato e derubato del poco denaro che portava indosso e abbandonato semisvenuto sul pavimento accanto alla biglietteria. Dopo quell’episodio aveva smesso di frequentare la stazione cercando rifugio notturno negli androni e nelle cantine dei condomini.

Dopo avere attraversato la strada sulle strisce pedonali, in compagnia della ragazza che si era offerta di accompagnarlo, s’incamminò verso il centro. La mensa dei poveri di Padre Lino, presso la chiesa della S.S. Annunziata, avrebbe aperto i battenti soltanto alle 18.00. Era sua intenzione raggiungerla prima del tempo per occupare uno dei posti nella fila di persone che a quell’ora del pomeriggio sostavano davanti alla porta del centro in attesa dell’apertura. Le vetrine dei negozi addobbate per il Natale illuminavano i marciapiedi umidi di pioggia. Mancava un mese alla festività eppure molta gente sostava dinanzi alle vetrine disquisendo sull’opportunità del tipo di compere da fare.

Adelmo camminava sul marciapiedi caracollando. La gente scorgendolo gli stava alla larga, quasi si trattasse di un lebbroso e non di un povero mendicante. In poco tempo raggiunse il cortile della chiesa della S.S. Annunziata dove aveva sede la mensa dei poveri. Salutò Orlando e la Gina, le uniche persone che conosceva, gli altri erano tutti nord africani o gente dell’est. Più di un mese era trascorso dall’ultima volta che era stato lì. Durante questo tempo era sopravvissuto sfamandosi con il cibo recuperato nei cassonetti delle immondizie, specie in quelli posti in prossimità dei supermercati, ricchi di scarti buoni da mangiare.

Aveva voglia di qualcosa di caldo da mettere nello stomaco e alla mensa dei Padre Lino avrebbe potuto trovare un pasto bollente. Gocce di pioggia frammiste a nevischio cominciarono a cadere nel cortile imbiancando il selciato. Quando Adelmo entrò nel salone della mensa i tavoli erano già occupati per metà da persone che stavano consumando il pasto. Dopo avere ricevuto il pane e una ciotola di minestrone si avvicinò al punto dove erano distribuite le pietanze. Una donna gli porse un piatto con del pollo. Era giovane, carina, e gli fece un sorriso. Adelmo, come suo solito, non contraccambiò il gesto di cortesia, andò ad accomodarsi ad un tavolo all’estremo angolo del salone, poco distante dal punto in cui avevano preso posto Orlando e la Gina.

Una ciotola di minestrone caldo era ciò di cui aveva bisogno per riscaldarsi.

Non gustava un piatto caldo da molto tempo, ma la vicinanza di tante persone lo metteva a disagio. Trangugiò fino all’ultima cucchiaiata il minestrone, raschiando il fondo della ciotola con un tozzo di pane. Inumidì la superficie esterna delle labbra con la punta della lingua ed asportò i residui del pasto, soddisfatto del pasto che aveva consumato. Quando uscì dal locale, dopo avere consumato la cena, grossi fiocchi di neve stavano scendendo dal cielo. Un sottile manto bianco ricopriva la sede stradale. Le luci dei negozi che soltanto un’ora prima avevano reso gioiosa la strada ormai erano spente. Qualche raro passante transitava lungo i marciapiedi coperti da un sottile strato neve.

«Dove vai?»

A pronunciare la frase era Gina. La donna stava appoggiata con la schiena contro uno dei pilastri di sostegno del portico che consentiva l’ingresso al cortile della mensa. «Ma tu cosa ci fai qui? Non eri insieme a Orlando?» «Sì, ma lui non ha niente da bere. Tu invece sono certa che ne hai, vero?» Adelmo calcò il basco sulla fronte per ripararsi dalla neve. Fece alcuni passi, poi si girò verso la donna. «Dai, vieni con me, seguimi.»

La nevicata si era fatta ancora più fitta.

Di mano in mano che si avvicinavano al Ponte di Mezzo lo strato di neve depositato sui loro abiti si fece più consistente, impregnando gli abiti d’acqua. Gina e Adelmo camminavano affiancati occupando per intero il marciapiede. Dietro, alle loro spalle, non c’era nessuno; soltanto le loro ombre. Attraversarono Via Farini intenzionati a raggiungere Viale Maria Luigia. Adelmo teneva lo zaino infilato sulle spalle e stringeva due sacchetti di plastica nelle mani. Gina si portava appresso una sporta di tela e un sacchetto di plastica. Una sciarpa di lana le avvolgeva il capo riparandola in parte dalla fitta nevicata. Quando si trovarono davanti alla saracinesca di un negozio di mercerie, Adelmo si fermò. «Prendiamo questo cartone! Ci servirà per ripararci dal gelo della notte.»

Ripiegarono il cartone da imballo e lo trascinarono fino al sottopasso stradale distante un centinaio di metri.

Il posto era privo di luce. Nessuno degli abitanti del quartiere si fidava ad attraversare di notte il sottopassaggio per paura delle aggressioni, ma Adelmo e la Gina non avevano beni preziosi da farsi rubare, di prezioso avevano soltanto la vita. Distesero i cartoni sul pavimento, a ridosso di una parete, rendendo somigliante l’umile giaciglio a un letto. Stanchi si sdraiarono sopra il cartone da imballaggio uno accanto all’altra. Ambedue avevano gli abiti bagnati fradici. Avrebbero dovuto toglierli di dosso e metterli ad asciugare, ma la neve caduta in anticipo rispetto al periodo invernale li aveva colti impreparati. Non avevano abiti di ricambio e il sottopassaggio era il rifugio migliore che avevano trovato per mettersi a dormire.

«Dai, beviamo un goccio di vino, ci riscalderà» suggerì Gina.

Adelmo prese da una tasca dello zaino una confezione in tetrapak di Chianti e l’avvicinò alla bocca. Con un colpo secco dei denti strappò un angolo dell’involucro che cedette sotto la pressione della dentatura. Mandò giù tutto d’un fiato alcune sorsate di vino, poi passò la confezione a Gina che non si fece pregare nel bere la bevanda. In poco tempo svuotarono la confezione di tetrapack. Semiseduti, addossati uno all’altra, si scambiarono un poco di calore. Tutt’a un tratto la mano di Gina s’infilò fra le cosce di Adelmo. Fece scendere la cerniera della patta e strinse l’uccello nella mano. L’uomo la lasciò fare certo che le facesse piacere toccarlo in quel modo, l’ultima donna che glielo aveva stretto fra le dita era stata la ragazza della stazione ferroviaria. Da quella sera non aveva avuto contatti con nessun’altra donna. Ma in quella occasione la ragazza l’aveva spompinato per noia e voglia di trasgressione. Gina, invece, gli stava facendo una sega perché era il solo modo che aveva a disposizione per ringraziarlo della bevuta.

Gina aveva la stessa età di Adelmo. Lui la considerava alla pari degli altri compagni di strada maschi con cui condivideva il viaggio della vita. Adelmo si lasciò andare sul letto di cartone e si stese supino mentre Gina glielo menava. Il freddo si era fatto più pungente. Nel sottopassaggio filtrava un’aria gelida. La mano della Gina ebbe la meglio sulle resistenze dell’uccello che sembrava non volerne sapere d’indurirsi. Era esperta in quel tipo di prestazioni, le era capitato più di una volta di concedersi a qualche marocchino per poche lire. Ma prostituirsi lo faceva assai raramente, soltanto quando le andava di farlo o perché era priva di risorse ed aveva necessità di procurarsi soldi per mangiare.

Da tempo Adelmo aveva rimosso dalla mente ogni possibilità di contatti sessuale con le donne, ma la sega che la Gina gli stava facendo con tanta premura gli risvegliò i sensi. La mano gelida della donna incominciò a scorrere sulla cappella strofinandola. Adelmo venne quasi subito, sborrandosi addosso. Qualche fiotto di sperma andò a depositarsi sul cappotto. Adelmo non si preoccupò di asportarlo lasciandolo che gli insudiciasse il tessuto. Gina pulì la mano sporca di sperma sul letto di cartone e si strinse ad Adelmo tremante per il freddo.

Si addormentarono stretti uno all’altra.

Fu in quella posizione che i netturbini li trovarono la mattina seguente, tutt’e due congelati. Durante la notte la temperatura dell’aria era scesa fino a 20 gradi sotto zero. La morte non li aveva colti impreparati, da tempo l’aspettavano.

Era la loro ombra

 
 
 
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