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La maschera del demonio - M. Bava - 1960

Post n°34 pubblicato il 03 Giugno 2007 da wellburnthesky
Foto di wellburnthesky

Il film d'esordio del regista sanremese ricalca esteriormente le gesta dei film gotici della Hammer e della Universal, ma con una personalità ed uno stile unici ed originali, che negano alla fonte il carattere di puro entertainment. La sceneggiatura è tratta da un racconto di Gogol dal titolo Il Vij e di cui Bava stravolge però il contesto generale: dove in Gogol ci sono ironia, atmosfere quasi surreali e atteggiamenti più fantastici che orrorifici, in La maschera del demonio ci sono crudeltà, ribrezzo e larghe concessioni al macabro. Il maestro italiano immerge la storia in un paganesimo atavico e pieno di conseguenze che, travisando volutamente il racconto gogoliano, lo ammantano di un'aura da gothic novel con tanto di risultanze romantiche (la storia d'amore tra Andrei e Katia) estranee a Il Vij dello scrittore russo. Inoltre il bianco e nero di Bava è illuminato morbidamente, con tinte turgide e lontanissime dai chiaroscuri sovraccarichi dell'Espressionismo. Semmai l'unico vero ed evidente debito nei confronti di un classico del filone succitato, è quello verso il Nosferatu di Mamau, sia per la famosa scena della carrozza (che Bava, in modo diverso, riprende al ralenti e senza il caratteristico negativo del regista tedesco) e sia per il volto della strega che "fuoriesce" dalla bara (in questo caso un altro riferimento potrebbe essere anche quello ad una scena simile del Vampyr di Carl Theodor Dreyerr). Le immissioni più orripilanti sono, in ogni caso, di marca tipicamente baviana.

Altro merito del film di Bava è quello di aver trasformato un'attrice praticamente sconosciuta come Barbara Steele (nei titoli di testa il cognome è indicato erroneamente come Steel), in una vera icona del cinema alternativo, grazie al suo volto quasi squadrato, dai lineamenti asimmetrici ma dall'immenso e insondabile fascino. Di straordinaria suggestione è, in particolar modo, l'"apparizione" dell'attrice inglese che in lontananza, nella veste di Katia Vajda, tiene alcuni alani al guinzaglio come una seducente sentinella a guardia dell'inferno. Il tema del doppio (la Steele ricopre, infatti, anche il ruolo della strega Asa) è sicuramente uno dei più caratteristici del film di Bava, il quale porterà alla perfezione l'ambivalenza dei suoi personaggi in Operazione paura, con una delle sequenze più memorabili della sua intera filmografia. Ma il momento più indicativo del film è sicuramente quello della scena iniziale: la strega viene giustiziata insieme al suo amante. Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla soggettiva della strega, ripresa nel momento esatto in cui il boia posiziona sul suo volto l'infamante e raccapricciante maschera chiodata. A noi non resta che ribadire la grande capacità di Bava nel rappresentare lo spazio diegetico, la cui segmentazione è ridotta al minimo optando, grazie ai carrelli e ai piani-sequenza, ad un suo progressivo ingrossamento (come quando la macchina da presa che, muovendosi febbrilmente all'interno del castello, segnala l'arrivo di Iavutich o, ancora, per le sequenze ambientate nel bosco). Non da meno è la padronanza dei mezzi tecnici in cui il regista italiano non è inferiore a nessuno (splendido è il passaggio dal volto in primo piano della strega alla campana dello strumento a fiato, seguito da uno zoom all'indietro che ci proietta nella baldoria del locale pubblico; altrettanto riuscita è la dissolvenza incrociata con cui il volto di Asa appare dai cerchi concentrici dell'acqua, senza che si noti quasi lo stacco). Più oculato e molto efficace in La maschera del demonio è l'impiego del caratteristico zoom fulminante che nei film successivi diverrà una vera e propria cifra stilistica, fino a divenire, in ultima analisi, un vezzo eccessivamente di maniera nelle prove meno riuscite (poche) del maestro sanremese. E tra queste non c'è sicuramente il film in esame che è da considerarsi di diritto (se c'è bisogno di ribadirlo ancora) uno dei classici dell'horror (internazionale) in bianco e nero di tutti i tempi.Bava non utilizza il colore, grande innovazione della Hammer, ma uno stupendo bianco e nero, probabilmente con la volontà di rifarsi ai classici della Universal anni Trenta. Il regista può permettersi infatti di indugiare sulla violenza grazie al fatto che Terence Fisher aveva spostato la soglia del non mostrabile: se il regista inglese rende particolarmente energici gli scontri, cruenti gli impalamenti - anche grazie alle urla disumane delle vittime - , e mostra il cadavere di Dracula decomporsi fino a diventare cenere, Bava non è da meno. Mostra la maschera del demonio che si conficca nel volto di Asa (dal quale zampillano schizzi di sangue), inquadra Javutich mentre si toglie la stessa maschera ostentando il suo volto tumefatto, ed esibisce infine la lenta ricostruzione della carne sul volto di Asa partendo dal cranio putrefatto. E' il tentativo di dare carnalità e spessore fisico al cinema fantastico, di virare verso la corporeità del male, verso l'esibizione del sangue tipica dell'horror moderno. Fin dall'inizio, quando il boia imprime sulle carni di Asa il bollente marchio di Satana (una S appunto) capiamo che qualcosa è cambiato, che il dolore e la mutilazione sono più vicini, più reali, più spaventosamente visibili del solito. Il film comincia con un prologo ambientato in un bosco molto stilizzato, fatto con pochi rami e al cui fondo balugina una luce misteriosa: è evidente che la povertà del budget non metteva a disposizione nulla di più. Lo scenografo si arrangia come può a riempire il set vuoto e Bava si ingegna, abilissimo nell'organizzazione prospettica, a giocare su inquadrature strette (per non far notare la deficienza di mezzi) ma con una grande profondità di campo e con gli elementi posizionati secondo diverse distanze dall'occhio della macchina da presa. Se da una parte dunque Bava da letteralmente un corpo al bianco e nero, dall'altra recupera l'effetto di vecchie pellicole b/n in cui la mancanza di connotazione relegava gli scenari ad un'atemporalità che dava validità perenne alle azioni. La stilizzazione trasforma il set in una specie di palcoscenico della mente umana (o della memoria), una sacra rappresentazione dei vizi e delle virtù con grande valore esemplare.

Le novità de La maschera del demonio sono evidenti fin dai titoli di testa, uno sfondo nero con lapidarie scritte in bianco: quel nero carico di premesse è il punto zero dell'horror italiano, l'alfa e l'omega a cui tutti i film gotici italiani si rifaranno più o meno distintamente. E' il nero dell'anima dell'uomo, il profondo pozzo oscuro dove risiede l'enigma dei più insondabili segreti, dove si deposita il residuo di una paura vecchia come il nostro codice genetico. Il prologo del film è altrettanto indicativo: la cerimonia del rogo alla strega Asa mostra un legame metacinematografico notevole con l'operazione del regista. Gli astanti incappucciati e mai inquadrati in volto o con primi piani, silenziosi nel buio "originario" del bosco, assorti di fronte alle fiamme del rogo purificatore sono come il nuovo spettatore del cinema popolare, spettatore la cui presenza nell'oscurità della sala e di fronte alla luce del proiettore battezza la nascita dell'horror italiano.

 
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