Creato da: MICHELEALESSANDRO il 15/07/2012
PREISTORIA UMANA E TRADIZIONALISMO INTEGRALE

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VERSO L'INIZIO DEL CICLO

Post n°17 pubblicato il 29 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Come abbiamo visto, durante la glaciazione wurmiana le zone artiche paradossalmente beneficiarono di condizioni climatiche migliori di quelle attuali, tali da permettere insediamenti umani alle alte latitudini che non sembrano essere stati solo di breve durata, o di carattere occasionale.    

Se ora andiamo a riesaminare le datazioni che, nei post precedenti, abbiamo riassunto per i più antichi ritrovamenti in tutto il mondo, collegabili a Homo Sapiens Sapiens nel nostro Manvantara (iniziato, lo ricordiamo, circa 65.000 anni fa), noteremo un dato essenziale: i siti africani, in effetti, non risultano essere sostanzialmente più antichi di quelli di altre zone del mondo.

Almeno, non di quelli riferibili alla Beringia.

Ricordiamo ancora che ogni eventuale ritrovamento anteriore al suddetto limite temporale va considerato attinente ad un Manvantara precedente al nostro, e quindi relativo ad un’altra umanità, separata dalla nostra da una cesura piuttosto netta che, secondo Renè Guenon, non deve aver consentito alcun passaggio verso il nostro ciclo; a questo proposito, crediamo sia particolarmente significativo che anche la scienza ufficiale ipotizzi sia avvenuto – in un momento quasi coincidente con l’inizio del presente Manvantara – un evento traumatico di dimensioni planetarie, la cosiddetta “Catastrofe di Toba” (l’eruzione, circa 70.000 anni fa, di un supervulcano nell’isola di Sumatra), le cui conseguenze geoclimatiche dovettero essere tali da ridurre l’umanità del tempo ai minimi termini, fino quasi a provocarne l’estinzione.

Quindi, se guardiamo “al di qua” dell’inizio del nostro ciclo, e ricordiamo che prove veramente decisive, sia di tipo genetico, fossile o archeologico sull’origine africana di Homo Sapiens Sapiens non ve ne sono (assieme al fatto che la provenienza delle popolazioni negroidi continua tuttora a rimarere un mistero antropologico), a nostro avviso non è azzardato collocare nella zona artica il punto di origine dell’attuale umanità, peraltro in conformità con quanto sembrano dirci molti dei miti primordiali di tutto il mondo.

Oltretutto, è plausibile che il modello di un’origine boreale delle prime migrazioni umane si strutturi in modo notevolmente diverso da quello immaginato dalla teoria “Out of Africa”. Questo, infatti, prevede l’ipotesi di piccoli gruppi di migranti che si sarebbero spinti sempre più lontano dall’Africa, portando con sé solo una frazione della variabilità genetica globale, in gran parte però rimasta nel continente-madre fino ai giorni nostri. Al contrario, nell’ipotesi boreale, a nostro avviso non sarebbero stati solo pochi uomini a lasciare la zona originaria – la Beringia ? – attorno a 50-52.000 anni fa, ma ne sarebbe uscito un numero molto maggiore, probabilmente a causa di un primo evento geoclimatico che in quel periodo colpì la zona artica (sul quale torneremo più avanti), in modo da spopolarla in larga misura. Ma se per l’Africa, come abbiamo visto, le attuali evidenze genetiche, che vengono lette a sostegno dell’origine umana, potrebbero risultare falsate da meccanismi di carattere demografico (p.es. una elevata densità di popolamento intervenuta in tempi mediamente recenti) è chiaro che una simile distorsione interpretativa non può verificarsi per le attuali aree artiche, quasi del tutto disabitate o ripopolate in tempi più recenti di quelle africane, peraltro non da popolazioni ivi originatesi, ma adattatevi solo da qualche millennio; è, ad esempio, il caso degli Inuit, di evidente origine mongolide e quindi non particolarmente antica.

In altre parole, vogliamo dire che l’Artide attuale non può più rivelare chiare tracce genetiche del suo passato, perché nel corso del tempo è stata sottoposta ad una dinamica demografica (che più avanti approfondiremo) riassumibile nello schema:

antropogenesi => forte spopolamento iniziale (probabilmente in più fasi) => ulteriore spopolamento successivo => scarso ripopolamento recente.

E’ quanto, ad esempio, è stato già constatato, su scala più ridotta, con le migrazioni paleolitiche da est verso l’Europa, le cui tracce si sono praticamente perse a causa delle varie fasi della glaciazione wurmiana, che hanno causato una massiccia dislocazione di popolazioni verso sud ed il conseguente rimescolamento dei relativi dati genetici.

Ma se ormai, a livello molecolare, forse ben poco può essere ricostruito nel nord del mondo, qualche evidenza generale di carattere bioantropologico ancora permane, se è vero che, ad esempio, Giuffrida-Ruggeri negò l’ipotesi di un origine tropicale dell’uomo propendendo invece per una zona nettamente più boreale, rilevando un   miglior adattamento umano ai climi meno caldi (e che dovrebbero corrispondere all’ambiente nel quale venne alla luce, o dove rimase immerso per un periodo non breve). Impostazione che sembrerebbe di recente confermata (Le Scienze – ottobre 2005) anche dal fatto che, al contrario di quanto finora sembrava stabilmente acquisito, i nostri diretti antenati avrebbero evidenziato, rispetto alle popolazioni neandertaliane, migliori attitudini a fronteggiare il clima rigido dell’Europa glaciale; e ciò anche in considerazione dell’assenza di siti di cultura mousteriana a nord dei 45 gradi di latitudine, mentre invece ritrovamenti riconducibili al Paleolitico Superiore sono stati rinvenuti fin’oltre al circolo polare artico.

Ma da uno sguardo generale sulle datazioni dei ritrovamenti riferibili a Homo Sapiens Sapiens nel mondo, emerge a nostro avviso anche un altro importante elemento di riflessione: l’assenza, in pratica, di reperti collocabili tra 65.000 e 52.000 anni fa, ovvero nella primissima fase del nostro Manvantara.

Questo lasso di tempo dovrebbe in effetti corrispondere al momento veramente primordiale della nostra umanità e a nostro avviso non è casuale che tale assenza di siti archeologici copra un periodo di circa 13.000 anni, ovvero quello che nelle varie tradizioni è stato definito come “Grande Anno”; questo, corrisponde alla metà della durata del ciclo precessionale terrestre e, come Renè Guenon ricorda, nelle varie mitologie assume spesso un’importanza particolarmente significativa, in misura anche maggiore del ciclo precessionale completo di 26.000 anni. Il "Grande Anno", segnalato anche da Gaston Georgel nel suo importante libro “Le quattro età dell’Umanità”, rappresenta una fondamentale modalità di suddivisione del Manvantara, in quanto costituisce precisamente un quinto della sua durata totale.

L’assenza di reperti umani da 52.000 a 65.000 anni fa corrisponde quindi al 1° Grande Anno del nostro Manvantara, ovvero alla prima metà esatta dell’Età dell’Oro; per tentare di comprendere le motivazioni che potrebbero essere la causa di tale evidenza, dovremo fare un passo indietro e, con i prossimi post, iniziare a svolgere, per quanto ci è possibile, qualche analisi sulle primissime fasi della genesi umana.  


 

 
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