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PREISTORIA UMANA E TRADIZIONALISMO INTEGRALE

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LA DOPPIA MODALITA’ DEL FEMMINILE

Post n°32 pubblicato il 27 Maggio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Nel mito greco, la causa della separazione tra il maschio e la femmina viene attribuita a Kronos, che all’inizio del secondo grande anno taglia i genitali del padre Urano interrompendo così la fase primordiale ed indistinta: tale atto divide irrimediabilmente il Cielo dalla Terra (che poi, è stato notato, vengono mantenuti separati dal Titano Atlante), ma contemporaneamente assicura un’unione complementare tra i due elementi, dal momento che, in qualche modo, la reciproca vicinanza / lontananza dei due principi viene ad equilibrarsi.

Come si era già accennato più sopra, la figura di Saturno, che qui interviene demiurgicamente da “separatore”, è stata effettivamente avvicinata anche a quella di Prometeo e di Lucifero. Karoly Kerenyi inoltre sottolinea come, nella sua azione, Kronos utilizzi la falce, utensile significativamente legato alla Luna; ed a nostro avviso la sfera lunare qui può ben rappresentare il complesso della manifestazione formale o individuale, che, in tal modo, sembra venire attivamente a specificarsi rispetto al superiore ambito universale. Dal canto suo, un analogo evento viene segnalato da Coomaraswamy, con il mito della bisezione del Serpente che può essere paragonata alla separazione tra il Cielo e la Terra. L’azione di polarizzazione tra maschile e femminile, trova quindi una certa analogia con le azioni demiurgiche già incontrate in precedenza e che, per “caduta”, avevano portato alla creazione generale del mondo della materia.

Per andare rapidamente alla tradizione indù, ricordiamo che la separazione maschio-femmina sembra accompagnarsi alla polarizzazione dei due gunas Sattwa e Rajas. Un ricordo in tal senso potrebbe essere rappresentato dalla disputa sorta fra Vashista e Visvamitra, rispettivamente appartenenti alle caste dei Brahmana e degli Kshatrìya, superiori a tutte le altre ma inferiori a quella originaria degli Hamsa, nell’ambito della quale tale contrasto si verificò. Un altro ricordo simile può essere costituito dall’episodio narrato nel Naradapurana, che segnala nel Krita Yuga le malefatte, probabilmente enfatizzandole, di un cacciatore chiamato Gulika, tracotante e violento, uccisore di brahmani. In rapporto alla polarizzazione maschio-femmina, Coomaraswamy attribuisce alla funzione sacerdotale, contemplativa ed autocentrata, segno maschile, ed al guerriero i caratteri della femminilità, data la presenza in essa di indubbi elementi emotivi; per la casta kshatriya diversi autori evidenziano anch’essi come, significativamente, il relativo simbolismo sia sempre di carattere femminile.

Ma, come dicevamo in precedenza, per Filone di Alessandria, la separazione maschio-femmina sembra implicare un evento doppio, ovvero l’ “uscita” della femmina rispetto all’Adamo-Androgino e l’ulteriore polarizzazione di questa, a sua volta, in un maschio ed una femmina “relativi”. In relazione a questa, per certi versi, paradossale duplicità logica, crediamo opportuno ricordare come anche Julius Evola segnali il concetto di “binario”, cioè il “due”, essere effettivamente un elemento connaturato e riferito propriamente al principio femminile.

Ora analizzeremo in termini più generali il “femminile” e la sua già accennata “doppia modalità” di dispiegamento in rapporto all’Adamo-Androgino, mentre la corrispondente ri-polarizzazione nella summenzionata coppia maschio/femmina “relativi” implicherà degli elementi più specifici che verranno esposti in seguito; possiamo comunque ricordare che, in analogia a quest’ambito più ampio, il concetto della doppia modalità di azione del femminile potrà, a nostro avviso, trovare nuovamente applicazione anche alla “femmina” relativa all’ambito più ristretto (cioè “post-polarizzazione”).

Riteniamo, innanzitutto, che vada comunque ben sottolineato come la femmina rappresenti in sé un’unica entità; questa, infatti, nel mito greco trova corrispondenza nella figura singola di Pandora, mentre invece altrove viene avvicinata, in quanto donna “prima”, sia a Lilith che ad Eva (nella tradizione ebraica, compagne di Adamo in due fasi diverse). Pandora arriva immediatamente dopo il patto di fine convivenza tra uomini e dei, e quindi è presumibile che quella umana sia proprio la razza aurea primordiale, ovvero la prima segnalata da Esiodo (che infatti, antecedentemente all’avvento della donna, viveva in una situazione di serenità e di abbondanza); come abbiamo visto, nel mito ebraico la donna appare invece nella doppia figura di Eva e di Lilith, ma un probabile elemento a sostegno di una loro unicità di fondo può essere fornito dalla contemporanea analogia che, di entrambe, è stata da più parti proposta con il Serpente, il che porterebbe quindi ad inquadrare le due donne primordiali piuttosto come due diversi aspetti del medesimo essere.

Tale ipotesi si avvicina significativamente alla constatazione generale, già evidenziata, secondo la quale la manifestazione del femminile avvenga secondo una duplice modalità. 

Come detto, Evola infatti ci ricorda che la potenza mercuriale, femminile, è una cieca tendenza all’identificazione e che, separata dal centro ed abbandonata a se stessa, coinciderebbe inizialmente con l’impulso promanativo a cadere verso il basso; ma tale movimento, arriverà fino ad un punto di equilibrio con il principio maschile, contrassegnando quindi una fase nella quale la forza femminile apparirià ora imbrigliata, ancorata all’elemento virile. Di passata, riteniamo che forse si potrebbe spiegare questa doppia fase anche attraverso l’ipotesi di un, parallelo, “doppio stato” dell’elemento maschile, all’inizio “assopito” e successivamente ridestato ad una nuova coscienza.

Di conseguenza, posto che l’elemento mercuriale richiamato da Evola è collegabile al concetto di espansione ed in generale all’azione del Raja Guna, come già detto in precedenza, riteniamo che la fase promanativa possa corrispondere all' “aspetto Lilith” di questo piano, mentre invece la successiva fase in cui la femmina appare più “stabilizzata” ed ancorata al principio maschile, possa essere avvicinata all' “aspetto Eva”. “Doppiezza femminile” peraltro ritrovabile anche in Jakob Bohme, che, attraverso il concetto dell’ambivalenza del serpente, delinea la duplice possibilità della vergine celeste o della femminilità maligna; ed il serpente pure per Renè Guenon costituisce uno dei simboli più caratteristici dell’Anima Mundi, i cui due aspetti, contemporaneamente essenziali e sostanziali, a seconda del punto di osservazione, vengono da lui opportunamente messi in luce.

Quindi l’attualizzazione della femmina, ovvero della manifestazione formale in una modalità doppia, potrebbe anche essere interpretata in termini cosmologici come esercitata contemporaneamente sul doppio piano, cioè sia quello sottile che quello grossolano; e ciò, come anticipavamo, tramite l’attivazione piena soprattutto del Raja guna, dal momento che è presumibile immaginare la componente tamasica essersi invece già separata a seguito della precedente caduta demiurgica, già segnalata nei post precedenti e che generò le inferiori forme “parodistiche” e subumane. Guenon ricorda infatti come è proprio attraverso Rajas che si produce l’espansione dell’essere al livello dell’individualità, mentre Evola aggiunge che tale guna corrisponde anche al “seme femminile”.

Ed, inoltre, è anche la primordiale doppia azione del demiurgo, riassunta alcuni post fa, che a nostro avviso può trovare qui una certa analogia con la duplice modalità di dispiegamento della femmina (ora cioè intesa come il complesso della manifestazione formale): ovvero come “plasmazione” nel suo aspetto più alto (ma adesso piuttosto di carattere culturale ? Lo vedremo più avanti) e come “espansione” nel suo aspetto di caduta.

 

 

 
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CORPOREIZZAZIONE

Post n°33 pubblicato il 10 Giugno 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Le conseguenze che gli eventi ricordati nel precedente post hanno comportato sul piano della manifestazione grossolana, sembrano inoltre essere confermate anche da altri riferimenti, di diverso tipo, che in vari modi si ricollegano direttamente al concetto di corporeizzazione umana e che per i momento affronteremo in termini più generali, entrando nel dettaglio dei vari, articolati, percorsi con i post che seguiranno.

In termini più ampi, Gaston Georgel pone infatti, alla fine del primo grande anno ed in corrispondenza dell’avvento della donna, la nascita della prima razza corporeizzata dell’uomo, anche se va detto che, nella sua ricostruzione, questa corrisponderebbe alla razza gialla, sulla quale non ci sentiamo di concordare per l’età troppo recente delle caratteristiche orientali e che avremo modo di approfondire più avanti.

D’altro lato Evola segnala come sia in stretta correlazione con la presenza di un corpo che nasce l’idea del “io sono” e quindi il cambio di visuale prospettica che avviene in questa fase, ed al quale avevamo già accennato, si rivela necessariamente collegato al momento della materializzazione dell’ente. Il pensatore romano, inoltre, rimarca come proprio il femminile costituisca, ontologicamente, il principio della materia e quindi è in relazione allo stato di sonno nel quale viene posto Adamo (sul quale avremo modo di tornare) che si arriva alla determinazione della psiche riflessiva e duale; ne origina, appunto, la conoscenza distintiva che è correlata alla sostanzializzazione-individualizzazione determinata da quella che infine sarà Eva, immagine della vitalizzazione della forma fisica finita.

Nell’ambito della narrazione biblica, alcuni autori hanno giustamente sottolineato come l’elemento osseo, dal quale la donna è tratta, non venga intaccato dalla decomposizione e quindi risulti implicitamente collegato all’idea di una certa solidità; anche per Leopold Ziegler essa corrisponderebbe al manifestarsi definitivo delle caratteristiche corporee odierne, mentre secondo Origene la compagna di Adamo rappresenta la parte sensibile del composto umano, tanto da ritenere che ogni creatura della nostra specie, a prescindere dal sesso di appartenenza, sia in origine di sesso femminile.

Per lasciare l’ambito biblico, ricordiamo che anche nel mito gnostico la donna rappresenta l’elemento materiale, mentre in quello greco ritroviamo il personaggio di Pandora, il cui invio agli uomini rappresenta la punizione divina dell’atto prometeico del furto del fuoco; ma il suo arrivo è anche strettamente connesso alla corporeizzazione umana, tanto che Evola la pone in chiaro collegamento all’incatenamento di Prometeo alla materia. In termini più generali, Karoly Kerenyi significativamente rileva come sembra essere un’esperienza primordiale la connessione tra la donna e la punizione ricevuta, nel momento in cui la femmina viene concepita in particolare sotto il suo aspetto “animalesco e in una sola unità col mondo degli animali”.

Ma l’avvento della corporeità materiale, inevitabilmente, è connesso anche a quello della mortalità.

E’ innegabile che quest’ultima, in diverse concezioni tradizionali, venga collegata all’evento della divisione tra i sessi. Ad esempio, se ne trova traccia in Aristofane, nel vangelo di Filippo (che è tra quelli apocrifi), ed in Gregorio di Nissa; anche Duns Scoto tocca una tematica analoga quando rileva che, pur nel Paradiso Terrestre, l’uomo era comunque un essere mortale.

Il già accennato sonno di Adamo, che per Jakob Bohme rappresenta una prima caduta, corrisponde quindi alla sua “terrestrizzazione” perché egli, abusando della sua libertà si staccò dal mondo divino e si “perse” nella natura: la conseguenza inevitabile fu che, con l’apparire dei sessi distinti, venne anche la morte fisica.

Dal canto suo, Julius Evola in definitiva sottolinea come il differenziarsi dei sessi rappresenti la condizione di un essere ormai caduco ed impermanente, stato duale di chi non ha più in sé stesso la Vita, ma ora in altro. Su una linea che ci sembra similare, Meister Eckhart rimarca come l’ambito psichico (inteso, riteniamo, soprattutto nella sua relazione privilegiata con il corporeo ed il sensibile, nell’illusione di rendersi indipendente dal piano spirituale), rappresenti il male, il non essere, e che non possa rendere ragione di sé stesso rimandando incessantemente ad altro.

Quando Evola rievoca l’antico mito di Gilgamesh, che nella sua impresa riesce a raggiungere la terra del re dello stato primordiale e ad impossessarsi dell’erba di immortalità, è significativo il fatto che l’eroe sumero la perda proprio mentre si trova in uno stato di sonno; anche da questo versante, quindi, ci sembrano piuttosto palesi i collegamenti con il biblico torpore di Adamo e la relativa mortalità che giunge in questo preciso momento, mentre invece, dal lato opposto, è interessante notare come i misteriosi “Veglianti” possano rappresentare quelle entità non ancora mortali proprio per il loro continuo stato di veglia.

 

 

 
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IL SONNO DI ADAMO

Post n°34 pubblicato il 16 Giugno 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

In effetti, è proprio il significato di una “caduta”, che, in questa fase, sembra assumere lo sprofondamento di Adamo nel sonno, quasi a rappresentare, secondo l’ottica cristiana, un primo segno di discontinuità rispetto al momento precedente; non a caso, Onorio da Ratisbona considera tale intorpidimento, più che da Dio (come indicato nel testo biblico) indotto dal diavolo “separatore”, ad ulteriore testimonianza, riteniamo, di come possano essere labili le distinzioni di ruolo nelle narrazioni dei tempi aurorali. Jakob Bohme considera infatti il sonno di Adamo già come un primo indebolimento della coscienza, antecedente a quello definitivo e legato al noto episodio della mela e del serpente, che implicherà la “Caduta dell’Uomo” e la perdita dell’Eden; accenni in questa stessa direzione si trovano anche in Leopold Ziegler ed in Mircea Eliade.  

Analogamente può essere considerato l’evento della divisione dell’Androgine in due metà distinte, citato nel Simposio di Platone e da Evola ricordato come una mutilazione punitiva e “depotenziante” dell’Uomo primordiale, che arrivava ad incutere paura agli stessi dei; vedremo secondo quali percorsi si arriverà, in definitiva, ad un nuovo significato della figura di Adamo rispetto a quello iniziale plasmato dalla polvere: intanto ci basti tener presente, come peraltro già sottolineato da diversi esegeti biblici, che Adamo effettivamente si “umanizza” nel momento in cui, dopo essersi ridestato dal sonno, conosce direttamente la dualità, l’alterità, ed è quindi grazie alla creazione della donna che egli si trasforma, da essere privo di genere, a uomo. E’ ora la stessa, intorpidita, condizione umana (con evidente riferimento al sonno fatto scendere su Adamo), a farne ormai un essere di questo mondo, sottoposto a tutte le condizioni proprie al nostro piano dell’esistenza.

Precedentemente avevamo accennato all’azione del Raja guna ed all’opera di “dinamizzazione” che questo esercita in ambito antropo-cosmico; Frithjof Schuon ricorda come ad esso vi corrisponda l’elemento passionale, che però costituisce anche uno dei maggiori ostacoli spirituali dell’uomo. Tuttavia, mentre la passione induce l’uomo a preferire il mondo a Dio, vi è un’altro ostacolo, l’orgoglio, che invece spinge ad anteporvi se stessi, fino addirittura ad ergersi contro di Lui, e chiaramente è ben più grave. Su quest’ultimo aspetto ritorneremo più avanti, ma intanto riteniamo utile ricordare anche la nota di Guenon che delinea, a nostro avviso, un’analoga distinzione tra luciferismo e satanismo: il primo non riconosce un’autorità superiore, mentre il secondo effettua un rovesciamento dei normali rapporti gerarchici e dell’ordine regolare.

Ciò posto, riteniamo quindi che un parallelo tra l’azione rajasica e l’avvento del sonno di Adamo possa essere calzante.  

In rapporto alla funzione demiurgica già analizzata alcuni post fa, è probabile che sussista una certa analogia con la fase primordiale in cui Lucifero, precipitando, portò alla creazione di tutto l’ampio ventaglio della materia, dall’Etere (corrispondente all’Adamo sottile) fino a quella più bassa e grossolana (che avevamo posto in relazione ai gruppi subumani). Adesso però è lecito supporre che il “campo di variazione” di quanto, analogamente, verrà alla luce, si estenderà tra limiti notevolmente più ristretti; ciò, sia perché il punto di partenza del movimento discendente è ora pur sempre costituito dall’Adamo sottile ed androginico, conforme all’immagine divina, sia perché, come già ricordato, in questa fase è presumibile ritenere relativamente contenuta l’influenza di Tamas. La separazione “precoce” del guna inferiore, trova infatti numerosi accenni in diversi autori: Evola ricorda le “potenzialità animali” che l’uomo delle origini avrebbe in qualche modo “lasciato dietro di sé”, mentre Guenon rimarca, in termini più generali, la predominanza di Tamas nel momento aurorale di ogni ciclo, come se rispondesse ad una certa logica cosmica la necessità di dare corso, prima di tutte le altre, alle più basse modalità di manifestazione, esaurendole così in larga misura. Sulla stessa linea, riteniamo, anche Mircea Eliade sottolinea come nei tempi primordiali le specie viventi generate da Urano si caratterizzavano per una certa fluidità e mostruosità.  

Nella sua nascita, quindi, l’umanità sembra andare ad occupare uno spazio geometricamente “orizzontale”, in conformità alla tendenza rajasica che infatti Guenon ci ricorda corrispondere proprio al “mondo dell’uomo” (manava loka), e che, come vedremo più avanti, predomina nettamente nella casta Kshatriya.

E, per continuare a ragionare in termini geometrici, è proprio il dato della “perifericità” che, in diverse fonti, trova una certa conferma come rappresentazione dell’ambito individuale posto in posizione decentrata rispetto al nucleo più interno e “principiale” dell’aggregato umano.

Guenon evidenzia infatti come nella visuale taoista, Yin, il femminile, si ponga all’esterno, mentre Yang, il maschile, all’interno; analogamente, Meister Eckhart segnala che al di fuori dell’intellettivo si trova il sensibile, al di fuori dello spirito c’è la carne, al di fuori del maschio c’è la femmina. Anche da Coomaraswamy vengono indicazioni similari, quando significativamente collega l’origine laterale di Eva da Adamo a quella del Budda nato dal fianco della madre, ponendo questa, a sua volta, in relazione alla comparsa dell’immagine antropomorfica; lo studioso indiano, inoltre, ricorda come il “Sé”, che nasce dal seno divino, corrisponda all’Uomo interiore e costituisca la Persona vera, sovra individuale, mentre quello che chiama Uomo esteriore – cioè l’aggregato psichico-fisico – nasce dalla donna. Rileviamo che qui l’esteriore corrisponde alla femmina interpretata nel suo senso più ampio, cioè l’insieme della manifestazione formale tutta, ma, a maggior ragione, l’analogia ci sembra valida anche secondo una lettura più ridotta, ovvero con il sottile inteso come “psichico” e posto all’interno, ed il puramente corporeo che si situa all’esterno.

In ogni caso, l’individualità esteriore di un essere umano (maschio o femmina) appare sempre di natura femminile rispetto all’interiore, che rappresenta la parte maschile del composto.

Infine, possiamo dire che anche in relazione alla parola ebraica tradotta con “costola”, dalla quale venne poi tratta Eva, sarebbero sviluppabili considerazioni analoghe, in quanto il termine è semanticamente abbastanza vago e può anche venire tradotto con “fianco” (p.es. di una montagna): siccome nella narrazione biblica Eva origina da una costola / fianco di Adamo, a questo punto ci sentiamo già di ipotizzare che ciò possa alludere alla nascita dell’umanità fisicizzata in una posizione cosmologicamente decentrata rispetto al suo Adamo, ovvero il principio sottile e più “interno”.

 

 

 

 
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L’ELEMENTO ARIA

Post n°35 pubblicato il 17 Giugno 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

Il processo di uscita dall’interno verso l’esterno prende come punto di partenza l’Adamo androginico, sostanziato dell’elemento Etere, per arrivare ad interessare il livello della manifestazione fisica; Renè Guenon segnala come a questo punto venga a prodursi l’elemento Aria, che in effetti all’Etere può essere fatto corrispondere su un piano più basso e nel quale è proprio Rajas il guna nettamente predominante. Il metafisico francese ricorda inoltre come l’Etere contenga in potenza tutti i corpi e la sua stessa omogeneità lo renda capace di ricevere tutte le possibili forme nelle loro varie modificazioni; anche l’Aria è, in un certo qual modo, un’elemento neutro e quindi corrisponde ad uno stato di minore differenziazione rispetto agli altri, da cui la ragione del perché rappresenti proprio la prima produzione a partire dal quinto elemento centrale. Non è quindi da escludere che vi possa essere anche una certa analogia di plasticità tra questo e l’Aria, sebbene ad un livello inferiore, che ormai è chiaramente quello fisico. Guenon infatti significativamente evidenzia come, sul piano corporeo, corrisponda proprio all’elemento Aria quello che nella Bibbia è definito Ruach, cioè il “soffio” di Dio.  

Ma anche se ormai posti sul piano della manifestazione grossolana, è significativo il fatto che la caratteristica principale dell’Aria sia sicuramente l’estrema mobilità, di cui forse il detto “Krita viaggia ed erra” può essere un lontano ricordo; inoltre è importante rilevare come sia solo a partire da essa che si produrranno tutti i successivi elementi. Non a caso, infatti, Guenon ricorda come poi l’Aria si polarizzerà in un elemento attivo, il Fuoco, ed un elemento passivo, l’Acqua; è questo un aspetto che, per certi versi, può renderla analoga al “femminile” il quale, secondo Filone di Alessandria, a sua volta contiene in sé la polarità maschio-femmina. Ed una tale interpretazione dell’elemento Aria crediamo possa anche trovare un’indiretta conferma nell’analogo riconoscimento, come simbolo di sicuro segno femminile, della figura della “losanga”; la corrispondenza tra Aria e losanga sembra infatti molto probabile, dal momento che quest’ultima riunisce geometricamente un triangolo con il vertice rivolto verso l’altro ed uno con il vertice verso il basso, che sono rispettivamente i simboli tradizionali del Fuoco e dell’Acqua, appunto nell’Aria potenzialmente contenuti e dalla quale poi trarranno origine.

Inoltre l’elemento Aria, si ricollega, secondo diversi autori, anche alla casta Kshatriya (nella quale, analogamente, il Raja guna predomina) ed alla parte volitiva attiva dell’aggregato  umano; in questo contesto la casta Kshatriya va a nostro avviso interpretata, come già accennavamo sopra, in un’ottica più ridotta e specifica, corrispondendo cioè alla parte eminentemente corporeizzata. Guenon oltretutto ricorda come la stessa Razza Rossa, già collegata all’elemento Aria (e che, come vedremo, riteniamo primordiale rispetto a tutte le altre), possa essere direttamente assimilata proprio agli Kshatriya; inoltre, crediamo nella stessa direzione, lo Zohar significativamente segnala che il colore del fuoco (il rosso ?) scende nel mondo e si divide in diverse direzioni, specificando anche che la parte proveniente dal lato della femmina sembra collegato alla guerra.  

L’elemento Aria trova quindi un giustificato collegamento con la casta guerriera, in modo ancora più diretto e specifico, anche per il tramite del suo principale simbolo, cioè l’orso: è di particolare interesse il fatto che ad esempio nell’India vedica si trovino significative divinità-orsi correlate ai venti ed alle tempeste. Ma il plantigrado è portatore anche di altri elementi interessanti: secondo vari autori (Frazer, Eliade, ecc…) il suo culto è il più antico attualmente esistente ed è diffuso in popolazioni di tutto il mondo quali Ainu, Ghiliaki, Baschi, Marocchini, Amerindi, molti uralici e paleoasiatici. In termini indiretti, ciò potrebbe quindi confermare quanto approfondiremo nei prossimi post, ovvero l’anteriorità temporale della Razza Rossa su tutte le altre. Inoltre la figura dell’orso, oltre ad essere di notevole interesse il fatto che sia molto spesso identificata tout-court con la stella polare, viene significativamente assimilata anche a quella di un lontanissimo antenato, fino a diventare oggetto di culto “totemico”: tra i Lapponi – con un’interessante analogia rispetto agli usi di certe popolazioni africane verso il gorilla – l’orso viene infatti chiamato “uomo”, come se rappresentasse un antenato lontanissimo, ed analogamente avviene anche tra gli Ainu, che si proclamono “figli dell’orso” (il tutto, ovviamente, non da interpretarsi in chiave evoluzionistica, in quanto il totem è colto come uno spirito assolutamente immateriale). E’ certamente pregnante il fatto che, come è stato notato, l’orso venga percepito secondo un rapporto di particolare vicinanza con gli esseri umani, rivelando peculiarità molto simili a quelle della nostra specie (tra le quali, al contrario degli altri animali, il suo bipedismo).   

Ma l’elemento Aria evidenzia una particolare relazione anche con la figura di Lilith (che, come abbiamo già accennato, rappresenta già di per sé “il femminile del femminile”, quindi la spinta verso la piena corporeizzazione umana) in quanto, secondo alcuni, trarrebbe il suo nome dal sumero “lil” che significa “vento”, mentre in altre interpretazioni sarebbe piuttosto “civetta” (che comunque è una creatura dell'aria). Lilith, inoltre, è stata avvicinata anche alle Arpie, creature del mito ellenico spesso collegate alle donne-uccello di altri miti orientali, oltre che alle Sirene; ci sembra interessante notare come esse furono cacciate proprio dai figli di Borea. In altre tradizioni Lilith viene vista come messaggera degli dèi, quindi accostata a Hermes; ma è stato rilevato come egli abbia relazione proprio con il vento (e perciò possa compiere la sua missione in cielo, in terra e negli inferi – fatto suggerito anche dal suo soprannome “Tricefalo” – agendo soprattutto nell’ambito del mondo intermedio, atmosferico).

Lilith, oltre alla relazione con l'elemento Aria, sembra tuttavia presentare anche marcati caratteri ctoni (come spesso rilevato in vari miti del mondo, ad esempio nel drago cinese), e quindi una certa connessione con il legame materiale, a conferma di quanto già accennato precedentemente; tra l’altro tale accostamento di significati, presenti in un’unica figura mitica, a nostro avviso rafforza ulteriormente il concetto generale della contemporaneità intercorsa tra il dispiegamento dell'elemento Aria e l’avvento della corporeità umana. E' stato infatti osservato come la stessa fase calante della Luna, ed il conseguente progressivo oscuramento della luce fino alla Luna Nera (della quale Lilith è notoriamente il simbolo) implichi la cessazione totale della riflessione luminosa, stando così ad indicare una modalità di completo assoggettamento al corpo, considerato quale “materia bruta”. Nella tradizione ebraica Lilith viene fatta corrispondere alla decima sephirah, cioè Malkuth – la più bassa delle sfere – e posta al di sotto di Yesod, via discendente ed involutiva che conduce l’uomo alla prigionia della materialità. Nella stessa direzione interpretativa, su Lilith è stata proposta anche un'altra analogia, ovvero quella che la pone in relazione a Nephesh, cioè l’elemento animico più basso, che non può esistere se non unito al corpo (mentre, in quest’ottica, Adamo corrisponderebbe a Ruach): come nella fiamma di una candela, Lilith ne rappresenta la parte inferiore, quella che rimane attaccata alla fisicità dello stoppino, mentre Adamo è la superiore parte bianca. 

 
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LA RAZZA ROSSA – PARTE 1

Post n°36 pubblicato il 26 Giugno 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

L’elemento Aria, la figura di Lilith (in un’accezione più ampia) e la casta Kshatriya (in una più ristretta) alludono quindi al materializzarsi della prima razza umana unitaria, evento che si verifica durante il “sonno di Adamo”; la nostra interpretazione è che questo primo gruppo, dal quale poi sarebbero nati tutti gli altri, possa corrispondere alla Razza Rossa, e ciò per una serie di elementi che esporremo di seguito, iniziando da alcune considerazioni generali legate proprio al colore rosso.

Il nesso più noto è tradizionalmente quello costituito dallo stesso nome di Adamo (la radice “adam” significa infatti essere rosso, per analogia con il colore della terra con la cui polvere venne plasmato), collegamento che peraltro non risulta limitato al solo ambito biblico in quanto, ad esempio, secondo i Maidu della California il dio supremo creò la prima coppia di esseri umani usando sempre terra rossa, o anche nei Quichè, il cui libro, il Popol Vuh, parla più genericamente della creazione dell’uomo dal colore rosso. Al rosso si collega, come ci ricordano Julius Evola e Titus Burckhardt, il guna Rajas (mentre il nero è in relazione a Tamas ed il bianco a Sattwa), guna che abbiamo già visto essere di importanza centrale per la corporeizzazione umana; un altro rimando non molto esplicito, ma comunque interessante, ci arriva dallo Zohar, che segnala come sia il colore del fuoco (il rosso ?) a scendere nel mondo e a dividersi in molte direzioni, notazione forse interpretabile su diversi piani tra i quali, magari, anche quello antropologico. Ancora Evola stabilisce pure una connessione del colore rosso non solamente con il Raja guna ma, più specificamente, proprio con l’elemento Aria.  

Il tema del collegamento tra le quattro razze tradizionali ed i quattro elementi è piuttosto controverso, in quanto diversi autori hanno proposto corrispondenze discordanti tra loro, in alcuni casi evidenziando differenze persino sul numero dei gruppi umani da prendere a riferimento; eviteremo quindi di entrare ora in un argomento così malfermo e ci limiteremo solamente a citare la nota di Frithjof Schuon, che ci sembra la più condivisibile, con la corrispondenza da lui ipotizzata tra le razze, bianca, gialla e nera rispettivamente agli elementi fuoco, acqua e terra. Emerge quindi il fatto, piuttosto significativo, che Schuon non citi né la razza rossa né l’elemento aria, per cui, se non esplicitamente almeno per deduzione, riteniamo che questi due elementi potrebbero effettivamente essere tra loro accostati.    

Da un’ottica di taglio più poligenista, inoltre, ricordiamo che Evola ebbe modo di accennare ad “aborigeni rosso-bruni” come di una delle razze originarie della terra, analogamente a quelle negroidi e mongoloidi, che, assieme, avrebbero popolato il pianeta fin dai primordi; nei post precedenti, però, portavamo alcuni dati a sostegno di una antichità piuttosto relativa delle razze nera e gialla (per gli orientali, comunque, ci ripromettiamo di tornare più estesamente sull’argomento) e quindi ne conseguirebbe che, nella fase aurorale, il campo dovrebbe esser stato occupato unicamente da questi “rosso-bruni”, modificando quindi il quadro globale in senso nettamente più monogenista. In effetti diversi autori, considerando l’attuale differenziazione mondiale tra popolazioni di pelle chiara e popolazioni di pelle scura (in termini antropologici “leucodermi” e “melanodermi”) hanno ritenuto ragionevole ipotizzare, in termini generali, un gruppo ancestrale ed unitario che presentasse caratteristiche di pigmentazione intermedia tra i due estremi. Caratteristiche che, a ben vedere, non appaiono incongrue in un clima da “eterna primavera”, tradizionalmente tramandatoci per l’Età dell’Oro, mentre invece mal si abbinano alla formazione di un tipo nordico come lo intendiamo oggi (biondo-occhi azzurri); questo, infatti, sembrerebbe piuttosto un prodotto fortemente depigmentato specializzatosi in climi freddi – quindi, ormai, chiaramente post-edenici – ed originato in tempi relativamente recenti (come avremo modo di approfondire più avanti), per cui non ci sembra azzardata l’ipotesi che, in un ambiente temperato come dev’essere stato quello del Paradiso Terrestre, vede decisamente più probabile la formazione di un tipo umano meno “chiaro” del nordico “classico”.    

Secondo Julius Evola, che riprese parte delle sue concezioni da Herman Wirth, la razza originaria di inizio ciclo viene definita “prenordica”. Lasciando da parte le considerazioni, già espresse, sulla prospettiva di carattere tendenzialmente più poligenista che sembra prediligere e sul relativo quadro temporale che appare più basso rispetto a quello guenoniano, ora ci interessa piuttosto soffermarci sulle caratteristiche di questa razza prenordica che secondo Evola, dovrebbe rappresentare la radice di base almeno del ramo boreale dell’umanità.

Intanto possiamo notare come il termine “prenordica”, a rigore, dovrebbe proprio esprimere il concetto di “precedente a quella nordica”, e quindi in quest’ottica tale denominazione avrebbe effettivamente un senso, perché il “classico” tipo nordico odierno sarebbe venuto, come dicevamo, solo in un momento successivo. E poi Evola, quando porta esempi fotografici di “resti della razza prenordica”, significativamente propone individui per nulla biondi o dall’aspetto generale particolarmente “chiaro”, oltretutto rinvenendoli in gran parte tra indigeni nord-americani; sottolinea inoltre come il sangue del gruppo “0”, che dovrebbe corrispondere a quello originario di origine artica, si trovi espresso in massima parte proprio tra questi (solo successivamente vengono Islanda e Svezia), cosa che a ben vedere dovrebbe ulteriormente confermare la primordialità della razza rossa, se consideriamo questa tradizionalmente avvicinabile agli odierni nativi americani (il cui fenotipo attuale, comunque, non è assolutamente detto sia identico a quello originario). Nella visione evoliana ed in quella di Herman Wirth, è inoltre significativo che il cosiddetto “cuneo della razza prenordica”, venga situato soprattutto nella parte nord-occidentale dell’emisfero boreale, coprendo l’area settentrionale del nord-America, quella occidentale dell’Europa ed arrivando fino alla latitudine della penisola iberica. Quindi, a maggior ragione, tale gruppo primordiale potrebbe proprio corrispondere alla razza rossa, che spesso viene collegata all’Ovest, ed occupare la zona tipica di quelle che, successivamente, saranno le popolazioni Cro-Magnon (le quali potrebbero esserne considerate delle più tarde forme di gigantismo e di rimeticciamento interno, come avremo modo di approfondire). Questa ipotesi sarebbe peraltro compatibile anche con le ricostruzioni evoliane delle arcaiche migrazioni boreali, quando accenna al primissimo movimento partito dall’Artide verso meridione, seguito da una successiva migrazione che si sarebbe spinta ancora più a sud, in America centrale e, contestualmente, in Atlantide: quindi lo stesso ceppo razziale avrebbe presumibilmente popolato sia la terra atlantica (per la prima volta, sembrerebbe) che il continente nord-americano fino al suo istmo centrale, e quindi non sembrerebbe incongruo ritenere che tale stirpe dovette corrispondere proprio alla razza rossa. Più tardi ancora si sarebbero verificate le migrazioni partite da Atlantide – e solo a questo punto si tratterebbe dei veri e propri Cro-Magnon – sia verso l’America (mito di Quetzalcoatl) che verso l’Europa (mito dei Tuatha de Danann). Siccome per Evola tale civiltà, che in una fase posteriore a quella autenticamente primordiale viene definita “nordico-atlantica”, avrebbe costituito un centro ad immagine di quello artico originario, ci sembra del tutto logico ipotizzare che il suo ceppo umano (secondo noi, appunto, “rosso”) sia da porre in continuità con quello iperboreo nato nel 50.000 a.c. 

 

 
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LA RAZZA ROSSA – PARTE 2

Post n°37 pubblicato il 30 Giugno 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

A nostro avviso anche Frithjof Schuon sembra muoversi sulla stessa linea quando segnala un “elemento atlantico forse anteriore alle grandi differenziazioni razziali”, avallando quindi l’idea che possa essere stata proprio la razza rossa quella base unitaria dalla quale sarebbe poi iniziato il processo di differenziamento di tutti i successivi gruppi umani del mondo.  

Julius Evola, inoltre, ricorda come la “stirpe di Kronos” si sarebbe anticamente mescolata, in una terra boreale, con quella di Eracle; quest’ultima è probabilmente riconducibile ad una fase eroica e relativamente meno antica, mentre la stirpe del titano Kronos per Evola è esplicitamente quella che residua dal ciclo primordiale. Renè Guenon menziona un evento in parte analogo (entrambi verranno approfonditi in seguito), che si trova accennato nella vicenda dell’Avatara Parashu Rama, come di una fusione avvenuta tra razza rossa e razza bianca; siccome sembra più calzante correlare le figure titaniche alla razza rossa (anche, ad esempio, nell’episodio della titanomachia, dove qualche ricercatore l’ha vista rappresentata da Atlante, capo della sua fazione nella guerra contro Zeus) ciò ne confermerebbe indirettamente la primordialità. Ed un ulteriore indizio in tal senso, può esserci fornito anche dal mito ellenico del diluvio legato a Deucalione e Pirra che, per quanto situabile in un momento forse ancora più recente, è probabile riproponga su scala cronologica più bassa eventi verificatisi in periodi molto anteriori (per un meccanismo di trasposizione temporale, segnalato da Guenon, che avevamo già ricordato in precedenza); sotto questa luce, ci sembra quindi di particolare interesse il fatto che il nome di Pirra significhi proprio “la rossa”.  

La razza rossa, tuttavia, sembra costituire un’unità antropologica di non semplice definizione e ciò, riteniamo, proprio a causa del suo collegamento con l’estrema mobilità e plasticità tipica dell’elemento Aria ed anche con il Raja guna; Julius Evola, infatti, ci ricorda come Rajas rappresenti il modo del dinamismo e del divenire, della trasformazione e della mutazione, la spinta continua ad una marcata eterogeneizzazione.

Ne consegue che alcuni ritengano la razza rossa essere stata, già di per sé stessa, un insieme alquanto eterogeneo, con margini di oscillazione morfologica piuttosto ampi, da cui la difficoltà odierna di definirla con precisione; tale ipotesi, peraltro, sembrerebbe coerente con l’interessante teoria della “cosmolisi”, formulata a suo tempo dal paleontologo Aberto Carlo Blanc, secondo la quale all’inizio della sua storia Homo Sapiens dovette presentarsi con popolazioni altamente polimorfe, cioè con campi di variabilità fenotipica assai estesi. Poi, con il tempo, l’enuclearsi delle razze attuali comportò, per ciascuna di esse, lo stabilizzarsi di specifici standard di oscillazione antropometrica; un polimorfismo che, secondo un’altra teoria, potrebbe essere spiegato con l’intervento di varie ibridazioni tra popolazioni diverse (che però andrebbero individuate), ma per Blanc, invece, ciò costituisce un fatto sicuramente primario. Forse anche Frithjof Schuon sembra in parte seguire questa stessa idea quando accenna all’originaria umanità che, pur inizialmente indifferenziata, presentava tuttavia sporadici elementi morfologici che potevano anticipare le caratteristiche delle successive razze.    

Inoltre, quello che a nostro avviso ha rappresentato un altro tratto saliente, ovvero la sua marcata ecumenicità (ricordiamo il precedente “Krita viaggia ed erra”), ha portato a far emergere un po’ ovunque nel mondo quelle caratteristiche antropologiche “di base”, già segnalate nei post precedenti, con il risultato che la razza rossa non è stata colta come un vero e proprio raggruppamento a sé stante rispetto a quelli bianchi-gialli-neri, invece riconosciuti con una certa sicurezza dall’antropologia classica. Non sono quindi ben chiare le specificità tipologiche che avrebbero connotato la razza rossa, in quanto il colore ad essa tradizionalmente attribuito viene posto in connessione, a seconda degli autori, ora con la pigmentazione cutanea (che quindi risulterebbe di tonalità più intensa rispetto a quella degli attuali popoli nordici), ora anche con il rutilismo (che però al giorno d’oggi si accompagna soprattutto a pigmentazioni cutanee poco pronunciate): a tal proposito, notiamo di sfuggita come, nel mito, Lilith venga descritta proprio con i capelli rossi, dettaglio che ci sembra particolarmente significativo.    

Quest’ultimo elemento, infatti, più che una mutazione estemporanea e senza particolari significati filogenetici, può essere interpretato invece come un preciso carattere razziale (tesi ad esempio sostenuta da Topinard ed Hervè) posseduto da una popolazione antica ed ora presente nel mondo in quantità residuale a seguito dei vari meticciamenti intervenuti; qualcuno ha dedotto che possa aver rappresentato un tratto tipico delle popolazioni Cro-Magnon, o in generale che fosse una caratteristica occidentale ed atlantidea, se non direttamente iperborea. Simile a tale ipotesi potrebbe essere quella – ricalcata sulle narrazioni platoniche riguardanti l’antico peregrinare nel mondo di dei e di maestri – che ricorda l’arcaica diffusione nelle più svariate aree (Europa, Egitto, India) di popolazioni di razza rossa, probabilmente sacerdoti e guerrieri dai capelli rossi. Elemento fenotipico che, pur sporadicamente, sembra comparire su un’area piuttosto estesa, se consideriamo ad esempio il caso dei Lapponi, tra i quali non sono infrequenti, o quello degli estinti Guanci delle isole Canarie, per arrivare fino in Cina; qui, infatti, alcune leggende ricordano un antico popolo dai capelli rossi, che non è chiaro se possa essere ricondotto ai resti, segnalati da Evola, di una precedente civiltà affine a quella maya. I tratti demetrico-atlantidei presentati da questa potrebbero forse collegarla ad una razza di ceppo rosso analoga a quelle mesoamericane, dal momento che anche altri autori segnalano in zone attigue (ad esempio, sull’altipiano del Tibet) la presenza di popolazioni “rosse”.  

 

 
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LA RAZZA ROSSA – PARTE 3

Post n°38 pubblicato il 03 Luglio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

In ogni caso, non ci sentiremmo nemmeno di escludere che, sia il rutilismo che una colorazione cutanea tendente al rossastro, possano essere stati a suo tempo presenti contemporaneamente nella prima umanità, scindendosi poi e riemergendo occasionalmente nel mondo come elementi separati ed indipendenti. Ne sono forse testimonianze dirette alcune popolazioni pigmee, che peraltro sottolineano spesso la loro netta diversità rispetto a quelle negroidi e sostengono di non essere di colore nero; il concetto peraltro pare confermato dall’osservazione delle relative pigmentazioni, che effettivamente appaiono piuttosto bruno-rossastre, non molto scure, e dalla non rara presenza di individui con occhi azzurri e capelli biondi, o tendenti al rosso. Forse si tratta delle stesse popolazioni, o similari, raffigurate in certe pitture rupestri del Sahara e risalenti al neolitico, nelle quali si notano popoli cacciatori dalla pelle scura ma con capelli biondi o rossicci. Per cambiare continente – confermando, quindi, una diffusione antica di tali caratteristiche ben superiore a quella attuale – si potrebbe citare l’antica razza sudamericana di Lagoa Santa che Renato Biasutti segnala contraddistinta, contemporaneamente, sia da capelli che da pelle tendenti al rosso.

Ma anche al di là del rutilismo, vi sono ulteriori elementi antropologici e culturali per ipotizzare un’arcaica diffusione della razza rossa su larghissima scala.  

In Africa, a parte le già incontrate popolazioni pigmee odierne, o anche quelle più genericamente pigmoidi, vi sono significative testimonianze provenienti da un passato mitico: Bertaux segnala infatti che gli attuali negridi africani (in particolare i Dogon del Mali) fanno spesso riferimento ad enigmatici “uomini rossi” – non senza una relazione diretta anche con i Pigmei attuali – che furono un popolo a loro preesistente e caratterizzato dalla piccola statura. Più a oriente, avevamo già accennato alle particolarità antropologiche delle popolazioni etiopiche, che presentano caratteristiche scheletriche e facciali di tipo decisamente europoide e la cui pelle scura denota, rispetto ai negroidi classici, un tono decisamente più rossastro; non va poi dimenticato il fatto che gli stessi Etiopi definiscano sè stessi come “i rosei”.  

In Asia, nella vicina zona meridionale della penisola arabica, i popoli dell’Hadramaut, ovvero gli himyariti – che nella loro lingua significa appunto “i rossi” – avrebbero in tempi antichi risalito il mar Rosso, che proprio da loro avrebbe preso l’attuale nome, e si sarebbero stabiliti in Libano, da cui i Fenici – “i rossi” anche loro – ne sarebbero i discendenti. Per restare nel Mediterraneo, ricordiamo che anche i Cretesi erano chiamati “i rossi” dagli Egizi, ma, come loro, un po’ tutte le popolazioni del continente europeo – che Guenon ci segnala aver rappresentato miticamente la “Terra del Toro” – sembrano essere state delle multiformi propaggini della onnipresente razza rossa. Per Julius Evola, tali gruppi sono di origine occidentale ed atlantidea, quindi nella sua visuale non realmente primordiali, ma purtuttavia, va ricordato, anteriori e di “substrato” rispetto ai più recenti Arii (sul problema indoeuropeo avremo comunque modo di ritornare più avanti): Pelasgi, Egizi, Cretesi, Subarei, “Indomediterranei” vari, fino a gran parte delle popolazioni mesopotamiche e del vicino oriente. Ma se, a nostro avviso, appare convincente l’idea di un contributo fondamentale della razza rossa, nel caso specifico, al popolamento dell’area mediorientale, meno sicura sembra invece esserne la provenienza da ovest, almeno per gli antenati di Sumeri e Caldei: in una significativa nota lo stesso Herman Wirth ipotizza, infatti, una loro provenienza non dall’area nordatlantica (che sembra invece aver originato i Tuatha de Danann) ma piuttosto da un settore nordorientale. Si sarebbe trattato di gruppi iperborei noti come “esquimesi bianchi”, “uomini del sole”, o anche “gente di Tanara”, il cui ricordo sembra ancor oggi presente tra gli Inuit.

E un elemento simile a quello che avrebbe generato i Sumeri, sembra presente ancora più ad oriente, in India, dove Evola accenna al ritrovamento di resti di civiltà simili anche all’elemento Maya e databili a prima dell’arrivo degli avi degli indù, che al tempo erano ancora stabiliti nel nord eurasiatico.

Proseguendo ulteriormente verso est, e ritornando su aspetti più prettamente bio-antropologici, va ricordata la razza indonesiana, la cui pelle presenta un pigmento bruno-rossastro, e che un tempo dovette essere molto più diffusa rispetto alla sua attuale estensione, con propaggini spintesi fino all’arcipelago giapponese. Significativamente, è stato notato che le sue caratteristiche la avvicinano alla razza mediterranea, mentre sembra denotare anche la presenza un importante elemento ainuidico. Ma pigmentazioni con componenti rossastre, sono frequentemente rinvenibili anche tra le popolazioni australiane (che di tanto in tanto segnalano anche sporadici casi di biondismo) e la cui varietà più pura è la Carpentaria, che presenta una pelle di colore nerastro con sfumature verso il rosso cinabro e l’arancione. Nella zona dell’Oceano Pacifico, pigmenti cutanei rossastri sono spesso presenti nella razza melanesiana ed anche in quella polinesiana, mentre in America caratteristiche analoghe, a fianco di una base bruno-giallastra, si ritrovano soprattutto tra gli amerindi della razza amazzonica e della razza fueghina.

Già sulla base di questi elementi, sembrerebbe quindi delinearsi una vastissima area di continuità antropologica e culturale mediterraneo-pacifico-americana, passando per i già incontrati Ainu del Giappone; area che probabilmente rimanda ad un’ancor più vasta – quindi planetaria – dispersione di quello che dev’essere stato il ceppo umano originario di tutte le attuali popolazioni mondiali. Una forma forse inizialmente avvicinabile alla tipologia Combe-Capelle, da qualcuno definita come “archeo-mediterranea” ed anteriore agli stessi gruppi Cro-Magnon, o forse anche ad essa precedente ma non molto dissimile nell’aspetto.

 
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LE ENTITA’ DELLA DIMENSIONE SOTTILE

Post n°39 pubblicato il 12 Luglio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

Dopo la parentesi sulla Razza Rossa e sugli aspetti più salienti relativi alla corporeizzazione umana, riprendiamo ora il discoso sul versante che invece riguarda, in contemporanea agli eventi sopra descritti, l’ambito “sottile” e le entità che ad esso sembrano collegate.

Una di queste entità è sicuramente costituita dal titano Kronos, il reggente primordiale per eccellenza, che oltretutto presenta delle caratteristiche chiaramente ambivalenti, tipiche di certe figure del dominio intermedio sulle quali avremo modo di tornare in seguito. 

Vari rimandi hanno evidenziato il nesso esistente tra il manifestarsi della femmina ed il sorgere dell’elemento temporale, del quale Kronos è notoriamente la figura-simbolo; è stato inoltre osservato come la stessa esistenza del tempo sia da porsi in stretto collegamento con quella della dimensione psichica, cosa che ci sembra fornisca una conferma del legame esistente tra l’entità saturnina ed il variegato ambito della manifestazione sottile. Tale idea sembrerebbe trasparire anche dalla significativa immagine, presente nella mitologia indiana, che rappresenta il tempo sotto forma del drago Rahu nell’atto di divorare se stesso, come anche in un’altra, similare, in una teogonia ellenica che Atenagora attribuisce ad Orfeo, nella quale Kronos appare sotto forma di serpente alato: in entrambi i casi non può certo sfuggire il fatto che il rettile rappresenti chiaramente uno dei simboli dell’Anima Mundi. Il collegamento tra l’ambito psichico e Kronos trova, a nostro avviso, una ulteriore conferma nei “tortuosi pensieri” che nel mito vengono attribuiti al titano, e che peraltro Guenon pone in relazione all’ambito sottile dove si colloca quell’elemento così caratteristico della individualità umana che è “il mentale” cioè “manas”.    

In generale, va ricordato che presso molte tradizioni la dimensione psichica viene descritta come una compagine estremamente complessa, non materiale ma nemmeno del tutto trascendente; mutevole, collegata all’acqueo mondo emotivo, al sangue (che Evola accosta all’elemento Aria), al fuoco della volontà e decisamente ambigua, in quanto sede sia delle passioni che del raziocinio. Probabilmente il filo conduttore di tutto questo complesso intreccio di fattori è costituito proprio dal guna Rajas, che Guenon ci ricorda essere predominante nell’elemento Aria, ma che è presente anche, e a nostro avviso in termini in qualche modo simmetrici, sia nell’elemento Fuoco (sotto forma della sua componente “calore”, mentre a Sattwa corrisponde la parte “luce”) che nell’elemento Acqua (nella sua componente di espansiva fluidità, mentre a Tamas corrisponde quella di pesantezza e caduta).

Vari autori hanno inoltre rilevato come il multiforme piano intermedio, in ambito indù, vada posto in corrispondenza con le prerogative della casta sacerdotale dei brahmana, che corrisponde all’aspetto del “Mahatma” nell’immagine del triangolo iniziatico richiamata da Renè Guenon; le altre due funzioni della figura sono rappresentate dal Brahatma, che ne costituisce il vertice (e simboleggia la fase unitaria primordiale, quindi androginica ed antecedente alla polarizzazione maschio-femmina), ed il Mahanga, che invece ne è la base (ed allude alla funzione regale degli kshatriya, avvicinata al mondo terrestre, come accennato più sopra). Il Mahatma, che occupa lo spazio intermedio del triangolo, viene accostato alla vitalità cosmica ed all’ “Anima Mundi” degli ermetici e, secondo la visuale che per comodità abbiamo in precedenza definito “verticale/principiale”, all’Adamo psichico (denominato, singolarmente, anche Eva o Afrodite, da cui il rapporto con la bisessualità, probabilmente in quanto essere doppio). Anche Coomaraswamy attribuisce alla funzione sacerdotale, contemplativa ed autocentrata, il segno maschile e riteniamo che nella stessa direzione possa essere interpretato anche Paolo, dal momento che definisce Adamo come “psychè vivente”.     

In ogni caso, la funzione adamica “sottile” sembra presentarsi come qualcosa di analogo alla già incontrata fase positiva del Demiurgo, nel momento in cui esso arriva fino ad identificarsi / sovrapporsi all’immagine divina superiore: tanto che, come avevamo già avuto modo di notare, negli articolati sistemi gnostici il primo Adamo spesso presenta caratteristiche demiurgiche egli stesso. Il maschio relativo e “sottile”, in questa prospettiva, risulta quindi in posizione sovrastante al piano materiale e “femminile”, livello subordinato che corrisponde alla casta kshatriya e per la quale, oltretutto, diversi autori tra i quali Coomaraswamy, hanno opportunamente evidenziato gli elementi emotivi (assieme al fatto che il relativo simbolismo sia, appunto, sempre di carattere femminile). E’ un concetto che pare effettivamente in coerenza con quanto riportato anche da Jakob Bohme, secondo il quale ciò che è in basso rappresenta il corpo o la femmina (o la sposa) di ciò che è in alto. In questa prospettiva “verticale/principiale”, la femmina assume cioè la veste della sola parte grossolana della manifestazione formale/individuale, ed esternamente rappresenta un mero “corpo” che riveste l’entità adamica globale.

 
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IL DOPPIO CENTRO

Post n°40 pubblicato il 15 Luglio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

Diversi elementi mitici suggeriscono, comunque, la necessità di integrare la sopra accennata ottica “verticale/principiale” della ri-bipolarizzazione maschio-femmina con un’ulteriore prospettiva, che per comodità definiremo “orizzontale/correlativa”; è, questa, una visuale che sembra piuttosto porre in luce il tema della doppia valorizzazione lunare/solare implicita nella manifestazione sottile, aspetto sul quale riteniamo opportuno soffermarci per qualche specifico approfondimento.

In termini ermetico/alchemici l’Anima Mundi viene infatti accostata al principio mercuriale, il quale notoriamente può avere una doppia caratterizzazione, ovvero acqueo-femminea se in movimento e sotto il segno della Luna, oppure ignificata e maschile se fissata e sotto il segno del Sole. Anche Julius Evola ci ricorda il “doppio segno” del mercurio, inteso come “Ruach” o soffio, segnalando inoltre come questo venga spesso raffigurato anche sotto forma di un albero che, in varie saghe europee, spesso si sdoppia in un’albero del Sole, orientale, ed in un’albero della Luna, occidentale. E’ una simbologia che riteniamo richiami palesemente l’immagine, presente nella tradizione indù, dei due uccelli rappresentanti le due entità animiche: Jivatma, passiva e legata al corpo, sul ramo di sinistra, ed Atma, attiva e distaccata, sul ramo di destra. Ci sembra interessante rilevare come nell’interpretazione di Valsan – e qui ritorniamo alla polivalenza dei simboli tradizionali – queste due figure siano entrambe maschili, mentre invece in altri autori, come ad esempio Bohme (per il quale il fuoco è chiaramente virile, mentre l’acqua è femminile) Jivatma viene considerata di segno femminile.   

La duplicazione mercuriale è stata avvicinata anche a quella insita nell’Albero della conoscenza del bene e del male, che Schuon ci ricorda rappresentare la potenza manifestante o cosmogonica; sotto questo aspetto, quindi, la pianta mitica sembrerebbe tutta di segno femminile (riteniamo, allo stesso modo in cui l’Adamo psichico viene denominato anche Eva) ma la cui natura duplice sembra evidente nel nome stesso. La sua funzione, è stato notato, viene rappresentata anche nel simbolo della Scala, sotto forma dei due staggi verticali, nessuno dei due veramente assiale ma unificati dai gradini, comparabili alla colonna del centro (ed al momento ancora unitario relativo alla fase androginica precedente); ciò emerge anche da un'altra raffigurazione simbolica estremamente significativa tramandataci dalla Kabbalah, ovvero le due colonne dell’albero sefirotico. Infatti, se lo osserviamo attentamente e consideriamo la sephirah Tiphereth, che rappresenta il nucleo centrale analogo al Sole (ma, a nostro avviso, quello primordiale ed unificante, verso il quale, infatti, converge l’etere indifferenziato), vediamo che questa sephirah si scinde in altri due elementi, Daath (Consapevolezza) e Yesod (Psichismo-senso dell’oggettività, legata al mondo sublunare ed alla cerebralità); sappiamo che la coscienza dell’uomo ordinario non riesce a seguire Daath e viene trascinata in basso da Yesod, rimanendo così coinvolta nello psichismo formale e ritenendo di assumere qui la sua vera identità. Daath risulta tuttavia strettamente allacciata al Centro-Tiphereth, assume caratteristiche solari ed infatti è proprio attraverso Daath che si rivela il trascendente; in qualche modo tale sephirah è connessa al concetto di fuoco (“fuoco sacro”, “fuoco di vesta”) e di “Veglia”, termine significativamente analogo ai già incontrati “Veglianti”, le enigmatiche entità del mondo intermedio che in questo caso sono interpretabili sotto l’aspetto solare e “positivo”. In tale modo, da un cerchio con centro in Tiphereth, viene così a crearsi un’ellisse con due fuochi (Daath in alto e Yesod in basso), raffigurazione che, lo notiamo di passata, venne utilizzata anche da Jakob Bohme, che immaginò il Dio vivente non come un cerchio, dotato di un solo centro, bensì proprio come un’ellisse con due fuochi, e per questo ambivalente e bipolare; i due centri per Bohme rinviano rispettivamente ad una “volontà dello spirito” (lato paterno) e ad una “volontà della natura” (lato materno). Ma anche a mantenere il simbolo del cerchio, significativamente Coomaraswamy evidenzia come la semplice ruota, dove il centro corrisponde all’essenza e la circonferenza alla natura, comunque propone tra questi due un zona mediana (antariksa, akasa), dove trovano spazio le coppie bene-male, luce-ombra, nascita-morte, portatrici anch’esse del concetto di ambivalenza, idea che invece nell’ellisse viene suggerita dalla presenza del doppio centro. Lo sdoppiamento di Tiphereth viene messo in relazione all’analoga duplicazione della coscienza umana, concetto che nella tradizione indù si trova espresso dall’immagine di Ida e Pingala, i due canali psichici (rispettivamente femminile e maschile) che sono laterali in rapporto all’Axis Mundi centrale; Guenon infatti ci ricorda che Ida corrisponde alla Luna, Pingala al Sole ed entrambi rappresentano i due occhi di Vaishwanara, entità analoga all’Uomo Universale, mentre il canale mediano, Sushumna, corrisponde all’occhio frontale di Shiva, identico a quello di Giano bifronte.

Ma la duplicazione del centro primigenio potrebbe essere suggerita anche da diverse altre raffigurazioni.

Ricordiamo ad esempio il triplo perno centrale (nabhi) che, nel mito indù, viene menzionato da Coomaraswamy come mozzo della ruota del carro solare, intesa anche come ruota della vita e del mondo; ma anche, nel corpus ellenico, la coppia di fratelli Apollo-Artemide, forse simboleggianti rispettivamente il centro solare-maschile e quello lunare-femminile, e, secondo una tradizione, figli di Latona, o Leto, che si narra fosse stata la prima donna del mondo (quindi assimilabile ad Eva, nella misura in cui si sovrappone all’Adamo psichico ?). Donna che, significativamente, si dice fosse nata nell’Iperboreo.

Ma anche la simbologia montana fornisce spunti interessanti, come, sempre nel mito greco, la sede dei Titani che viene posta sul monte Otri, situato di fronte all’Olimpo ed entrambi rappresentanti “le due cime del mondo”; o il mito di Ermafrodito (frutto dell’unione di Ermes e Afrodite) che viene fatto corrispondere al Parnaso, la montagna dalla doppia vetta, fino alla probabile similarità con Mashu “il monte dei Gemelli”, presente nella saga dell’eroe caldeo Gilgamesh. Idee e rappresentazioni mitico-geografiche che probabilmente resistettero “sottotraccia” fino a tempi molto recenti, se interpretiamo in tal senso anche la mappa di Zeno del 1380 la quale, oltre a mostrare una grande isola ad est della Groenlandia (che però non corrisponde all’Islanda) evidenzia alcune incongruenze cartografiche le quali, è stato rilevato, possono essere spiegate solo considerando la presenza di due diversi nord geografici.  

Ovviamente il tema dello sdoppiamento del centro trova un suo riscontro anche nell’ottica della già incontrata differenziazione delle prime due caste, sebbene secondo una visuale in parte diversa da quella “verticale/principiale”; ora, cioè, facendo gravitare le due entità, originariamente unitarie, in corrispondenza dei due centri così enucleatisi, si pongono le premesse per la maturazione, nel corso del tempo, di quel disallineamento polare che infine porterà all’aperto antagonismo tra il Cinghiale e l’Orsa (questa, non a caso, di sesso  femminile). Tale evento, secondo l’interpretazione guenoniana, rappresenterà la rivolta guerriero-femminile verso la funzione maschile-sacerdotale, conducendo in ultima analisi alla “Caduta dell’Uomo” ed alla perdita della condizione edenica.

 

 
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UN NUOVO ADAMO

Post n°41 pubblicato il 21 Luglio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

Quando Evola ricorda che, nella manifestazione della femmina, dopo l’iniziale momento “promanativo” si giunge fino ad un limite contraddistinto da un “punto di equilibrio”, riteniamo che il summenzionato enuclearsi di un doppio centro rappresenti appunto il raggiungimento di tale bilanciamento.   

A nostro avviso, la “doppia fase” della femmina potrebbe essere collegata anche ad un parallelo e corrispondente “doppio stato” dell’elemento maschile, connesso al mitico episodio del “sonno di Adamo” il quale dovette probabilmente verificarsi a partire dagli esordi del secondo grande anno del nostro Manvantara.  

Si tratterebbe, quindi, di concepire Adamo in una doppia veste: all’inizio “assopito” e successivamente ridestato ad una nuova coscienza.

La prima fase si presenterebbe quindi secondo una modalità “notturna” e collegata alla nascita di Lilith, qui avente un significato più generale – ovvero, tutta la materialità – (un altro, più specifico, verrà approndito in seguito); modalità che ci sembra anche proporsi piuttosto palesemente, visti i rimandi simbolici che collegano chiaramente Lilith ad un momento più oscuro (come, ad esempio, dal suo noto collegamento con la Luna nera, o all’attribuzione ad essa degli incubi notturni che ci tormentano nel sonno).   

Sarebbe questo, riteniamo, il principale motivo per il quale miticamente Lilith viene menzionata come prima compagna di Adamo, mentre Eva sembra arrivare solo in un momento successivo.

La seconda fase sarebbe invece di carattere più “diurno”, rappresenterebbe il raggiungimento tra il principio maschile e quello femminile del punto di equilibrio di cui sopra e corrisponderebbe al manifestarsi di Eva, entità che, almeno all’inizio, si presenta certamente in modo meno “tenebroso” rispetto a Lilith. Il centro “lunare”, enucleatosi in relazione alla nuova fase raggiunta tra maschio e femmina, corrisponderebbe quindi ad Eva, in una situazione non di opposizione rispetto al principio solare ma di complementarietà. D’altro lato, la funzione solare ora rivestita da un Adamo ridestatosi da sonno, richiamerebbe chiaramente il concetto di “veglia”; ciò non senza relazione, come già accennavamo, con le figure dei “Veglianti” posti sul piano sottile, e di alcune significative conseguenze sul piano corporeo che approfondiremo più avanti. Anche l’immagine delle due montagne contrapposte Otri ed Olimpo, presenti nella mitologia ellenica, a nostro avviso pone chiaramente quest’ultimo in relazione ad una coscienza di tipo diurno, collegata alla dorata luce solare.   

Non ci sembra casuale, inoltre, il fatto che Adamo, risvegliatosi dal sonno e posto davanti ad Eva, la riconosca come sua pari e si appresti a convivere in una situazione di armonica condivisione con la sua compagna. Tale prospettiva, peraltro, tradisce già l’instaurarsi tra i due elementi di una nuova dinamica, più sopra definita “orizzontale/correlativa”, nella quale il maschio pare ora situarsi quasi sullo stesso piano della femmina, in questo modo “rappresentando” al livello più basso, come ricorda anche Evola, il principio soprastante.

In effetti, sembra ora proporsi un nuovo significato della figura adamica rispetto a quello iniziale, relativo al primo grande anno e plasmato / sostanziato di polvere “sottile”: come sottolineato da diversi esegeti biblici, Adamo effettivamente si “umanizza” nel momento in cui, dopo il sonno, conosce la dualità, l’alterità (cioè davanti ad Eva) ed è proprio grazie alla creazione della donna che egli si trasforma, da essere privo di genere, a uomo. E’ stato anche rilevato come sia ora la stessa, intorpidita, condizione di Adamo (con evidente riferimento al sonno che precedentemente era stato fatto scendere su di lui), a farne ormai un essere di questo mondo,  sottoposto cioè a tutte e condizioni proprie al nostro piano di esistenza.     

Come analogo rifesso in termini geografici e macrocosmici, d’altro canto, è stato sottolineato il fatto che nel continente euroasiatico furono arcaicamente costituiti centri tradizionali di diretta promanazione iperborea, ed indipendentemente da quello atlantideo; Atlantide che Evola stesso pone in reazione alla femmina, ma di cui ricorda come la controparte maschile sia ora costituita da un Adamo che, però, non è più “puro spirito” (ovvero, verrebbe da pensare, non è più puramente “polare” nemmeno esso). Quindi Adamo si corporeizza, ma tuttavia rimane in contatto diretto con quei centri sottili che, nel loro aspetto solare, a loro volta sono in posizione relativamente più vicina rispetto a quelli selenicamente condizionati (perché viventi di sola “luce riflessa”), al superiore principio sovra-formale.     

La tradizione indù richiama l’aspetto solare di Vishnu come quello che esprime l’archetipo della manifestazione corporea, e lo pone in relazione alla terra iperborea Varahi, “terra del cinghiale”, la cui posizione geografica riteniamo possa essere accostata all’interessante episodio riportato da Coomaraswamy, in contesto buddista: sotto il perno assiale del mondo il Bodhisattva cerca di trovare una posizione consona a nord, sud ed ovest dell’Albero centrale, ma ogni volta la Grande Terra non riesce a mantenere l’equilibrio cosmico, che invece viene raggiunto solo quando egli si pone ad est dell’Albero. Il Bodhisattva, quindi, si siede in quella posizione (Coomaraswamy peraltro segnala come l’Est – apparentemente in contraddizione con la nozione di “centro” – implichi invece il Nord, lo Zenith e l’ “interno” come centro della coscienza e della vita), dando così la schiena all’Albero; sarà poi in quel punto che dovrà subire gli attacchi di Mara, che incarna il “Desiderio alla Vita” e reclamerà il trono facendo, inutilmente, uso di tutte le armi di cui dispone.  

L’episodio riportato può quindi fornire, a nostro avviso, un ulteriore elemento di conferma, assieme al già menzionato accenno alla posizione dell’albero solare e del mercurio ignificato, della localizzazione orientale – o piuttosto nord-orientale – della terra solare primigenia.

Potremmo allora avanzare l’ipotesi che la parte nordorientale dell’umanità abbia, in qualche modo, incarnato l’ “Adamo” sul piano corporeizzato e, pur nell’ambito di una certa eterogeneità antropologica di partenza (la razza rossa iniziale), rappresentato tuttavia una componente più stabile e maggiormente vicina al principio superiore; ciò tramite il centro solare (in Beringia ?) e le relative presenze sottili alle quali corrispose su di un livello più basso.

 

 
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EVA NORDATLANTICA ?

Post n°42 pubblicato il 25 Luglio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 


Nel post precedente ricordavamo come Julius Evola operi un chiaro avvicinamento tra il sorgere della terra di Atlantide e quello della figura femminile nel suo differenziarsi dal precedente stato di unità androginica; il riferimento ad Eva, che nasce durante il Satya Yuga, ci sembra quindi piuttosto palese, come anche la corrispondenza di questo centro “occidentale” con l’albero della Luna, sito in posizione diversa da quello di matrice solare ed ancorato all’Oriente.

Pur non dimenticando l’importante segnalazione di Renè Guenon, secondo il quale “la stessa Atlantide settentrionale non aveva nulla di iperboreo”, è comunque stato rilevato che la terra nordica primordiale, intesa in senso ampio, dovette essere molto estesa sia in latitudine (dal Polo Nord a quello che, dopo l’avvento delle stagioni, sarebbe stato il Circolo Polare Artico) sia in longitudine (dalla Groenlandia a tutta la porzione settentrionale dell’Eurasia, arrivando quindi fino alla Beringia); probabilmente coprì un territorio nemmeno in continuità geografica, identificandosi forse con un arcipelago costituito dalle “quattro isole a Nord del mondo” più una quinta terra posta al centro, ovvero la Tula iperborea.    

Non è da escludere che possa essere messa in rapporto a tale situazione anche la nota di Ugo Bianchi, secondo la quale Adamo ed Eva vivevano in due parti distinte del Paradiso Terrestre.

Ricordiamo, oltretutto, che nella mitologia indù vengono segnalati i due antichi continenti Ilavrita (polare-artico e sicuramente primordiale) ed il successivo Uttarakuru (una “terra settentrionale” che però è semplicemente boreale, legata piuttosto al nord-ovest) le cui caratteristiche, nel corso del tempo, furono oggetto di numerose reciproche sovrapposizioni; se Ilavrita sembra essere collegato soprattutto al primo grande anno del Manvantara, riteniamo probabile che possa essersi verificata, nel secondo grande anno, una fase intermedia “circumpolare” e di coesistenza Ilavrita-Uttarakuru poi seguita, dopo la fine del Satya Yuga, da un periodo contraddistinto dall’esistenza solo di quest’ultimo.  

Quindi un “passaggio” dall’una all’altra terra che potrebbe forse spiegare, nei ricordi atavici (e forse anche, in una certa misura, nell’interpretazione evoliana), la frequentissima sovrapposizione operata tra le due.                

D’altro canto, l’ipotesi di una corrispondenza tra Uttarakuru e l’Atlantide classica, potrebbe probabilmente trovare una conferma nella nota in cui Julius Evola accenna al fatto che l’arrivo delle popolazioni iperboree nel mitico continente occidentale non avvenne subito, all’atto della prima migrazione da Nord, ma dopo qualche tempo; nel suo quadro cronologico, non è chiaro se l’evento vada collocato prima o dopo della fine dell’età aurea, dato che in alcuni accenni Evola pare collegare tale popolamento al momento della “solarizzazione” di Adamo – successivo a quello uranico/androginico della fase precedente – e quindi, nella nostra interpretazione, ponendolo indirettamente ancora nel Krita Yuga. In qualche altro sporadico passaggio, il pensatore romano, oltretutto, accenna ad un “secondo ciclo” della stessa età aurea, nella quale evidenzia l’enuclearsi di due diverse componenti spirituali-antropologiche, una boreale ed una atlantica. E’, questo, un punto che ci sembra significativamente concordare anche con l’ipotesi, formulata da Gaston Georgel, di un “polo” sorto in zona Nordatlantico-Groenlandia meridionale già a partire da circa 43.000 anni fa e che potrebbe testimoniare il concentrarsi in quell’area di popolazioni correlabili alla figura di Eva già a partire dalla seconda metà del secondo grande anno (ovvero, nell’ultimo quarto del Satya Yuga).    

All’incirca in quel periodo, dal punto di vista paleoclimatologico, avevamo già in precedenza accennato alla fase di Peyrards, posta tra 44.000 e 42.000 anni fa, la quale sembra corrispondere all’oscillazione termica di Laufen e che potrebbe aver favorito la circolazione di popolazioni appartenenti ad un ceppo boreale unitario in aree ancora emerse (perché ci troviamo sempre nel Wurm, e quindi in presenza di vaste calotte polari che tenevano basso il livello marino) ma probabilmente non più glacializzate (perché in un interstadio relativamente temperato); un macro-gruppo di genti – forse corrispondenti alla razza “paleoartica” ipotizzata da Wiklund e nella quale sarebbero stati presenti sia caratteri paleoasiatici che paleoeuropei (oggi quasi del tutto estinta e rappresentata solo da popolazioni residuali quali i Lapponi) – rimaste alle alte latitudini dopo lo sviluppo della primissima migrazione verso sud e che ora, da una zona nucleare nordorientale (probabilmente la Beringia) iniziò ad estendere alcune sue propaggini verso aree più occidentali del pianeta (Europa settentrionale ? Nord-Atlantide ?).  

Questa Eva atlantica, quindi, sembra porsi in una posizione in qualche modo “mediana” tra l’Adamo nordorientale e le popolazioni più australi staccatesi dal tronco comune alcuni millenni prima (e sulle quali torneremo più avanti), simboleggiando la formazione di un raggruppamento etnico che potrebbe essere stato molto esteso in senso trasversale Est-Ovest: quasi una “costola” fuoriuscita dallo stesso Adamo. La nostra interpretazione è che tale fascia, oggi, sia rappresentata dai residui frammentati della superfamiglia linguistica “sino-denè-caucasica” citata da Merritt Ruhlen (la quale, tra l’altro, comprende anche l’enigmatico idioma basco e che anche per Cavalli Sforza si sarebbe originata nell’oriente eurasiatico), superfamiglia che, negli alberi filogenetici proposti dal glottologo, appare proprio come un ramo staccatosi precocemente da quell’ampio raggruppamento di quasi tutte le altre lingue eurasiatiche ed amerindie (“Adamo boreale”) definito da altri linguisti con il termine di “Nostratico”, sul quale torneremo più avanti; comunque la superfamiglia “sino-denè-caucasica” si diffuse in Eurasia ed in America, rappresentando una componente importante nel popolamento sia del “Vecchio” che del “Nuovo” Mondo.

In quest’ottica, le genti nordatlantiche sembrano quindi aver assunto una funzione di interposizione / mediazione tra il Nord ed il Sud del mondo: ciò a causa della loro relativa vicinanza antropologica ai gruppi più settentrionali (per essersene separate in tempi meno remoti rispetto a quelli meridionali) e, contemporaneamente, del comune terreno spirituale con le popolazioni australi assieme alle quali, come vedremo, venne condivisa, seppure in gradi diversi, una comune matrice prevalentemente lunare di riferimento “sottile”.

Non è infatti un caso che il titano Atlante venga ricordato come colui che “tenne separati il cielo e la terra”: “cielo” e “terra” che, in un’interpretazione di carattere più geografico-antropologico che cosmologico (ma, come sappiamo, le due chiavi di lettura possono benissimo coesistere), a nostro avviso, potrebbero stare a simboleggiare il Nord ed il Sud del Mondo e dell’Umanità.  

 

 

 
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LA LUNA E LILITH

Post n°43 pubblicato il 10 Agosto 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Sappiamo che Atlante più tardi guiderà la fazione titanica nella guerra contro Zeus (il famoso episodio della titanomachia), ma per adesso ci basti soffermare la nostra attenzione sugli eventi relativi all’enuclearsi del centro nordoccidentale, probabilmente simboleggiato dal monte Otri che fa da contraltare al monte Olimpo (come abbiamo visto, dalle caratteristiche adamico-maschili, nordorientali e solari).

Nella memoria greca si sottolinea la sovranità che venne attribuita al titano Atlante, delle sette potenze planetarie, proprio su quella lunare. Ma anche a prescindere dalla figura specifica di Atlante, tra la Luna ed i Titani è stata notata una certa connessione generale, quale, ad esempio, il loro volto bianchissimo, “lunare”, quando nel mito ellenico dilaniano il fanciullo divino.

In termini generali, come ci ricorda Burckhardt, le forze lunari rappresentano l’elemento vitale più a contatto con il corpo (quello soprattutto “involontario” e legato ai meccanismi automatici del fisico, pertanto più “esistenziale” che “intellettuale”), relazionandosi quindi a potenze che, pur appartenendo alla manifestazione intermedia, si trovano ad interagire strettamente con il piano fisico; corporeità che peraltro, da un’opposta visuale, può anche essere vista come un magnete che richiama, ed in parte condiziona, le energie sottili più prossime.          

La luna, inoltre, viene tradizionalmente connessa all’elemento acqueo, come il sole a quello igneo: sembra quindi essere una diretta conseguenza di quanto avvenuto sul piano sottile e ricordato più sopra (cioè, la bipolarizzazione del mercurio e la nascita dell’albero orientale e di quello occidentale), l’analoga separazione che, come ricordato da Guenon, ora inizia a manifestarsi, anche a livello materiale, tra i due elementi Acqua e Fuoco che si dipartono dall’Aria. La corrispondenza di quest’ultima all’umanità primordiale ed unitaria di razza rossa, ci induce analogamente ad ipotizzare che, in rapporto ai due nuovi elementi venuti alla luce, adesso possano iniziare a specificarsi alcune caratteristiche razziali più precise, o almeno degli ambiti estesi entro i quali queste, da un livello embrionale, avranno modo più tardi di svilupparsi e di acquisire una certa predominanza (come vedemo in seguito). Oltretutto, da un punto di vista cosmologico, la nascita dell’elemento Acqua potrebbe, a nostro avviso, essere messa in relazione anche con il superamento dell’equatore terrestre da parte delle popolazioni più meridionali, per il fatto che ora, sul piano dei gunas, l’azione di Tamas inizia ad affiancarsi a quella di Rajas, che fino a quel momento era stata nettamente prevalente.      

La luna, inoltre, impersona la femmina anche e soprattutto nella sua mutevolezza, e ciò è attestato in varie aree del mondo (America, Pacifico, Asia meridionale, Mediterraneo, Africa) nell’idea che la stessa rappresenti un simbolo centrale del procedere, del divenire. Di ciò, la manifestazione più evidente è infatti il continuo alternarsi delle fasi lunari con il movimento incessante dalla Luna nera alla Luna piena: quindi un appalesarsi tangibile del fattore-tempo, cosa che peraltro si accompagna al contemporaneo ingresso in campo della figura di Kronos. Se la luna nera nel mito è notoriamente accostata a Lilith, d’altro lato sembra naturale porre Eva in relazione alla luna piena, fase che evidenzia uno stato, almeno iniziale, di accordo con Adamo, dal quale infatti riceve e riflette la luce solare nella sua misura massima; da qui la possibilità che le due donne possano apparire anche secondo una modalità che le sequenzia cronologicamente, elemento che probabilmente traspare quando si ricorda Lilith come prima moglie di Adamo, precedente ad Eva stessa. Peraltro ci pare interessante notare il fatto che, nella mitologia iranica, l’Uomo Primordiale Gayomart sposi proprio due regine dalle caratteristiche opposte, una Bianca ed una Nera; nel quadro di una possibile interpretazione plurima dei simboli tradizionali (già sottolineata in precedenza), a nostro avviso, tutto dipende dal significato che attribuiamo all’Uomo Primordiale, dal quale conseguirà quello da assegnare alla regina Bianca (Eva) ed alla regina Nera (Lilith).

In particolare quest’ultima potrà rappresentare, come abbiamo già visto, il concetto più ampio della corporeizzazione umana; ma, riteniamo, anche simboleggiare più specificatamente una sola sua parte, ovvero quella meridionale (fino ad arrivare, come vedremo, ad un particolare ramo di questa).        

In merito al significato “australe” di Lilith, infatti, ci sembrano piuttosto eloquenti alcuni accenni mitici, quali, ad esempio, l’accostamento che ne è stato fatto con la figura delle Arpie, le quali – dettaglio importante – nel corpus greco vengono cacciate proprio dai figli di Borea. Ma anche nella tradizione ebraica Lilith entra fin da subito in contrasto con Adamo, pronuncia il nome di Dio ed ottiene un paio d’ali con le quali vola via dall’Eden, dirigendosi verso le sponde del mar Rosso; altri punti del mito arrivano a porla fino nell'Africa nera. Un ulteriore elemento arabo-giudaico associa direttamente Lilith alla Regina di Saba, figura che peraltro, secondo alcune tradizioni, apparterrebbe alla stirpe dei “jinn”; è comunque notevole il fatto che la Regina di Saba spesso sia stata considerata proprio come un simbolo dell’estremo Sud e denominata “regina dell’Austro”. Inoltre, non ci sembra azzardato accostare Lilith anche alla figura dell’orsa nella misura in cui, in diversi miti, questa appare, nella sua versione feroce, come la trasformazione animalesca di una donna che un tempo aveva rifiutato il proprio ruolo respingendo tutti i pretendenti; il comportamento dell'orsa presenta delle notevoli analogie  con quello di Lilith, che nel mito giudaico non accetta il ruolo di subalternità nei confronti di Adamo, quasi a simboleggiare la ribellione di una primissima frangia di kshatriya verso la superiore autorità sacerdotale, venendo quindi allontanata dalla sede primordiale.

Riteniamo infine che la parte di umanità avvicinabile alla figura di Lilith possa anche essere accostata alla vicenda di Hefestos, il dio greco che fu cacciato dal cielo ma che viene considerato, pur essendo zoppo e deforme, anche civilizzatore dell’umanità, quasi a significare l’intervento di una primissima stratificazione culturale. Hefestos viene ritenuto dotato di poteri di carattere demiurgico e vari elementi vi evidenzierebbero tracce riconducenti ad arcaiche forme di sciamanesimo estatico; ma l’aspetto che ci sembra particolarmente significativo, è che il dio viene spesso indicato come nano, ed anche che alcune versioni del mito sembrano alludere alle sue deformità come causate proprio dalla caduta dall’Olimpo.

Questi ultimi punti potrebbero riferirsi, a nostro avviso, all’enuclearsi di quel particolare ramo dell’umanità genericamente definibile “equatoriale” ed anche, più specificatamente, al subentrare di caratteristiche fisiche di tipo “pigmoide”; caratteristiche le quali, come vedremo, da diversi antropologi vengono considerate della massima antichità tra le varie forme umane e che quindi potrebbero apparire coerenti proprio con quell’aspetto mitico nel quale sembra evidenziarsi una certa “anteriorità” di Lilith rispetto ad Eva.

 

 

 
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I PIGMOIDI NEL MONDO

Post n°44 pubblicato il 27 Agosto 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Vari antropologi ipotizzano che le forme umane probabilmente considerabili come le diramazioni più antiche separatesi dal tronco comune, siano oggi rappresentate dalle popolazioni pigmoidi, boscimanoidi e proto-australoidi, anche se va detto che non sono del tutto chiari i rapporti intercorrenti tra questi gruppi: ad esempio, diversi autori considerano i Boscimani a loro volta come un sottoinsieme dei pigmoidi, mentre secondo Coon tutti i pigmoidi conterrebbero, essi stessi, dei significativi elementi australoidi.

In ogni caso, è alle genti pigmoidi che viene spesso attribuito il primo popolamento di vaste aree del pianeta, come il continente africano, la zona indonesiana e quella australiana, in queste ultime forse associabile a popolazioni simili agli attuali Tapiro della Nuova Guinea; successivamente sarebbero subentrati i caratteri più marcatamente australoidi osservabili oggi, giunti dall’Asia orientale con popolazioni di tipo veddoide. I veddoidi, peraltro, da alcuni autori vengono considerati come una parte del gruppo pigmoide o ad esso strettamente connesso; Coon, e qualche altro studioso, li considera piccoli e primitivi caucasoidi, mentre altri li inquadrano piuttosto come dei proto-australoidi. In ogni caso, mentre oggi i veddoidi si trovano concentrati soprattutto nell’isola di Ceylon, è probabile che in tempi antichi abbiano occupato anche aree più lontane, come l’Arabia sud-orientale, la zona mesopotamica, fino all’Africa sud-orientale.     

Comunque, l’attribuzione di questo ramo “equatoriale”, o della sua parte più importante, al tipo pigmoide trova diversi riscontri nella letteratura antropologica, che di frequente riporta le ipotesi dell’ologenista Montandon, secondo il quale l’umanità si sarebbe differenziata per successive dicotomie; la prima fissione, appunto, avrebbe precocemente separato i pigmoidi dal ceppo comune, progenitore di tutte le altre razze. Nella sua ricostruzione, Montandon riunisce infatti tutti i pigmei africani, asiatici e steatopigidi in una unica grande razza a sé stante, che tiene ben separata da quella negroide propriamente detta. In effetti, gruppi pigmoidi risultano oggi dispersi lungo un’area piuttosto estesa: per citare qualche esempio, sono rappresentati da popolazioni come gli Yali dell’Indonesia, i Barrineans australiani (del Queensland settentrionale e sensibilmente assomiglianti anche ai Tasmaniani), i Semang malesi, gli Aeta delle Filippine, gli Andamanesi. Più o meno tutti questi “negrilli” evidenziano un buon grado di affinità razziale con i Pigmei africani (gli abitanti delle isole Andamane, in particolare, anche per l’aspetto della steatopigia) piuttosto che con i negroidi “classici”. In quest’ottica, quindi, sembrerebbe rafforzarsi l’idea che tutti i pigmoidi del mondo costituiscano la sopravvivenza residuale di quello che anticamente fu un gruppo originariamente unitario, esteso in continuità territoriale tra Africa e Mediterraneo fino all'India e all'Oceano Pacifico; un’ipotesi forse più verosimile rispetto a quella, alternativa, che li interpreta come il risultato di risposte adattative sviluppate da stirpi diverse di statura normale, in tempi più recenti ed in via separata l’una dall’altra (quindi, improbabilmente, in più di una occasione e con esiti simili) sotto sollecitazioni di particolari condizioni ambientali.        

Oltre che dal punto di vista razziale, altri autori hanno evidenzito il fatto che tutti i pigmoidi del mondo presenterebbero anche dei tratti culturali tra loro analoghi; in particolare Alain Daniélou evidenzia sorprendenti somiglianze tra la cultura dei Munda dell'India nord-occidentale e quella dei Pigmei africani. D’altro canto, tutto ciò non toglie che queste popolazioni – in un’ottica monogenista, come da assunto iniziale – pur essendo uscite molto precocemente dall’Eden boreale, non conservino ancora degli elementi ancestrali particolarmente significativi. Mircea Eliade, ad esempio, segnala come lo stesso simbolismo primordiale dell’asse del mondo si ritrovi tra le popolazioni pigmoidi, citando nello specifico i pigmei Semang della penisola di Malacca, i quali tramandano il ricordo che al centro del mondo, in tempi mitici, si trovava una immensa roccia: a tal proposito, anche Renè Guenon conferma che il simbolo litico può senz’altro essere interpretato come una chiara immagine dell’axis mundi. Diversi altri aspetti della vita spirituale delle popolazioni pigmoidi non appaiono assolutamente così poveri ed elementari come – secondo una riduttiva ottica evoluzionista – si potrebbe erroneamente desumere: ad esempio i Pigmei d’Africa sono monoteisti, elemento che, come rileva Frithjof Schuon, è sicuramente primordiale ed originario – nel senso di meno degenerato – rispetto ad altre forme, ad esempio il più tardo politeismo.  

Anche le espressioni culturali più esteriori – dagli aspetti artistici a quelli più legati alle tecniche materiali – possono nei pigmoidi apparire molto scarne ed essenziali, ma ciò non implica necessariamente una rozzezza trasposta anche sul piano spirituale. Al contrario, è stato rilevato l’errore generalmente commesso da certa antropologia classica, che interpreta la scarsa complessità degli elementi culturali come sinonimo di arretratezza e di “attardamento evolutivo”; non viene invece considerata proprio l’opposta possibilità, ovvero l’idea che quanto più spoglio appare il simbolo materiale, tanto più pura, originaria e complessa debba essere l’idea alla quale esso rimanda. Sulla stessa linea di pensiero si colloca anche l’etnologo Leo Frobenius per il quale “spirito ed occhio sono sempre complementari”: ovvero, dove le forme espressive tendono a moltiplicarsi ed arricchirsi, lo spirito necessariamente si impoverisce. Infatti, i popoli quasi totalmente sprovvisti di tecniche materiali, come appunto i Pigmei, possiedono al contrario un retroterra di strutture religiose molto complesse e precise, che non sono per nulla rozze e “primitive”: quindi assolutamente inservibili come esempio di una inesistente evoluzione umana in direzione ascendente, dai primi balbetii definiti “pre-logici” di una ragione ancora infantile e malferma, alle più complesse metafisiche delle grandi, ed “adulte”, civiltà umane.

Rileva significativamente, come concetto generale, lo stesso A.K. Coomaraswamy che l’arte “primitiva” o “geometrica” di certe popolazioni che oggi ancora sopravvivono è formalmente astratta, proprio perché deve essenzialmente esprimere dei significati astratti.

 

 

 
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I PIGMEI AFRICANI

Post n°45 pubblicato il 28 Settembre 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

Anche per quanto, più nello specifico, riguarda l’Africa, ci pare qui utile ricordare gli studi, già segnalati in precedenza, dell’etnologo Leo Frobenius, che individuò elementi culturali tali ipotizzare un’antichissima migrazione proveniente dall’Islanda e dalla Groenlandia fino al confine meridionale della terra abitata; civiltà iperborea alla quale per Frobenius si ricollegarono in particolare i Boscimani ma anche i Pigmei stessi e le cui tracce sarebbero riscontrabili nella stretta connessione che gli parve di scorgere tra le ritualità, più boreali, del paleolitico superiore europeo e quello africano.  

Ma oltre a ciò, seguendo la linea già accennata nel post sopra, vi sono diversi ricercatori che, in termini più generali, hanno postulato nel continente nero una certa anteriorità di popolamento delle popolazioni pigmoidi rispetto a tutte le altre.   

Contro una visuale che interpreta i pigmoidi come una mera “specializzazione” recente (ed indipendente, sorta in varie aree del mondo) di altre popolazioni a statura normale, possono essere citati autori quali, tra gli altri, Carleton Coon, che formulò l’idea articolata, ma interessante, dei Pigmei africani come parziali progenitori dei Negridi moderni per effetto del loro re-incrocio con i residui dello stesso tronco ancestrale dal quale si sarebbero originati per differenziazione; di questo tronco ancestrale i Pigmei attualmente rappresenterebbero la sopravvivenza più arcaica, al contrario dei più recenti Negridi. Questi ultimi, secondo altri antropologi, sarebbero invece il risultato di un’ibridazione diretta dei Pigmei con popolazioni già chiaramente differenziate in senso europoide. In ogni caso ne consegue che i Negridi sub sahariani, a prescindere dalle varie teorie sulle modalità della loro formazione, in generale dovrebbero essere interpretati come complessivamente più recenti rispetto alle popolazioni pigmoidi. In questa direzione, vi sono infatti molti studiosi che ritengono i Pigmei africani essere stati un tempo anche geograficamente molto più diffusi rispetto ad oggi e che abbiano costituito un’ampio substrato preistorico africano – esteso tra Sahara, altipiani orientali ed Oceano Atlantico ad occidente – substrato precedente al sorgere del classico tipo Negride (con il quale si poterono comunque verificare anche dei successivi ed ulteriori re-incroci parziali); l’ipotesi pare confermata anche da analisi genetiche più recenti secondo le quali, nel dettaglio, i Pigmei sembrano presentare linee mitocondriali e del cromosoma Y estremamente antiche, tipiche di uno dei primi gruppi africani, e comunque sicuramente più arcaiche di quelle dei Negridi classici. Lo stesso Cavalli Sforza segnala tra i Pigmei la frequenza molto elevata di numerosi marcatori tipicamente africani, tale da candidarli come il più diretto residuo odierno dei “Protoafricani” originari ed ammettendo anch’egli, in tempi remoti, una probabile maggior diffusione territoriale di questi rispetto ad oggi; altri studi genetici sembrerebbero rilevare che tre dei popoli più antichi del mondo sarebbero oggi i Pigmei Biaka della Repubblica Centrafricana, i Pigmei Mbuti del Congo e i !Kung San.

Ma, oltre ai dati genetici, sussisterebbero anche alcuni elementi linguistico-culturali che potrebbero essere letti nella medesima direzione: secondo alcune teorie glottologiche, la parlata originaria dei Pigmei dell’Africa equatoriale (oggi praticamente scomparsa, con l’adozione dei linguaggi delle popolazioni circumvicine) avrebbe costituito il substrato linguistico fondamentale dal quale sarebbero poi sorte soprattutto le lingue bantu e quelle sudanesi. Per quanto riguarda invece il mondo mitico, avevamo in precedenza già accennato al fatto che gli attuali Negridi spesso fanno riferimento a degli enigmatici “Uomini Rossi” – non senza una qualche relazione diretta con gli attuali Pigmei – che furono un popolo a loro preesistente e caratterizzato dalla piccola statura; è interessante notare come anche Mircea Eliade citi un simile mito presente tra i Dogon del Mali, secondo i quali i primi leggendari abitanti della loro regione furono i Negrillos – piccoli negri – infaticabili fabbri ora scomparsi sotto terra e trasformati in geni (concetto sul quale torneremo più avanti).

In altri casi il rapporto Pigmei – Negridi, pur estrinsecandosi in modo diverso, tenderebbe sempre ad inquadrare quest’ultimo come elemento culturalmente superiore e temporalmente più recente: molte sarebbero infatti le usanze e le consuetudini che le popolazioni pigmee avrebbero ricevuto dai vicini Negridi, e lo stesso legame economico-funzionale stabilito con essi (ad esempio, il proporsi dei Pigmei come “casta” inferiore, al servizio dei vicini agricoltori) potrebbe essere un’ulteriore elemento indicante una certa anteriorità dei Pigmei rispetto ai Negridi, dal momento che normalmente sono le popolazioni autoctone “assoggettate” dai nuovi arrivati quelle che vengono impiegate per le occupazioni più umili.   

Al contrario, il rapporto dal punto di vista genetico sembrerebbe nettamente invertito. Infatti sia Coon che Cavalli Sforza segnalano come le modalità dell’incrocio tra i due elementi sia tale che il flusso appare sempre diretto dai Pigmei verso i Negridi e praticamente mai viceversa; ciò è la risultante del fatto che sono sempre i maschi negridi ad unirsi a donne pigmee, mentre non si verifica praticamente mai il caso opposto, e la prole poi viene sempre accudita nell’ambito culturale più elevato (cioè quello agricolo). Di conseguenza, le tribù pigmee rimangono geneticamente intatte ed al livello culturale di base (caccia-raccolta), mentre il DNA mitocondriale, che si trasmette esclusivamente per via femminile ed è di origine pigmea, scorre invariabilmente verso le popolazioni degli agricoltori.  

 

 
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UN’IMPRONTA DECISIVA

Post n°46 pubblicato il 05 Ottobre 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

Tutti i summenzionati elementi raccolti sulle popolazioni pigmoidi potrebbero sostenere, a nostro avviso, un’ulteriore ipotesi finale: pur appartenendo indubbiamente alla medesima specie Homo Sapiens, come tutti noi, la particolare posizione filetica di queste genti in rapporto alle altre – conseguenza del precoce allontanamento dal nucleo centrale dell’umanità – potrebbe aver ridotto notevolmente i margini di consolidamento delle caratteristiche biologico-culturali raggiunte, facendone un gruppo particolarmente esposto a pericoli involutivi di ogni tipo.

E’ infatti significativo come, pur da un’ottica evoluzionista, sia stata avanzata l’ipotesi che i pigmoidi attuali possano essere i discendenti di quegli uomini che, appena giunti alla stazione eretta, decisero poi di “ritornare nella foresta” per riadattarvisi (mentre invece i Boscimani rappresenterebbero quei pigmoidi poi nuovamente usciti dalla boscaglia per habitat più aperti); significativa ci sembra anche l’osservazione che, nei pochi gruppi umani che ancora oggi non possiedono le tecniche di accensione e di controllo del fuoco (per esempio, i pigmoidi Andamanesi ed alcune popolazioni africane), tale carenza possa essere dovuta non tanto a delle metodiche mai possedute, ma piuttosto ad una sopravvenuta rinuncia ad utilizzarle, o alla perdita accidentale di tali conoscenze che un tempo erano invece normalmente padroneggiate.    

Una regressione, quindi, verificatasi in alcuni casi al solo livello culturale, e qui al momento arrestatasi, ma che in certi altri – forse più gravi o prolungati – non si può escludere abbia interessato anche il piano biologico.

Non si tratterebbe di un’idea inconsueta o antiscientifica, se è vero che, ad esempio, per i controversi reperti rumeni di Pestera Cu Oase (datati circa 35.000 anni fa, ed il cui cranio stranamente presenterebbe sia tratti morfologici di Homo Sapiens che di Homo Neanderthalensis) la stessa equipe di ricerca avrebbe significativamente avanzato, tra le varie ipotesi, anche quella di un’involuzione biologica con la riemersione di caratteri ritenuti più arcaici; ovviamente, seguendo noi una prospettiva “non evoluzionistica”, il caso in questione, più che rimanifestare elementi di maggior antichità (quasi fossero dovuti ad una sorta di “cammino all’indietro” con la riproposizione di inesistenti tappe morfologico-evolutive precedenti), a nostro avviso denoterebbe piuttosto lo sviluppo di incipienti caratteristiche “subumane” avviate in particolare verso quella specifica forma “di nicchia” che fu Homo Neanderthalensis e che, ben prima dei reperti rumeni, avevano già da tempo completamete travolto molti altri gruppi dell’Eurasia occidentale, cristallizzandosi come razza a sé stante in un arco di almeno 100-150.000 anni (quindi in gran parte provenendo, in forma già decaduta, addirittura da Manvantara precedenti al nostro).     

Sotto un’analoga ottica involutiva si potrebbero interpretare, sebbene in una direzione geno-fenotipicamente molto diversa rispetto ai Neandertal, anche i reperti rinvenuti nell’isola di Flores in Indonesia (ribattezzati “Hobbit” per la piccola statura evidenziata ed antropologicamente denominati Homo Floresiensis), saliti alla ribalta da qualche anno, ma di età così “sorprendentemente” recente in relazione alle caratteristiche mostrate – solo qualche decina di migliaia di anni – da mettere in seria crisi il quadro evoluzionistico consolidato (¼per così dire). In tali casi, l’ipotetica involuzione degli “Hobbit” potrebbe, paradossalmente, essere intervenuta al solo livello biologico e non culturale, perché ad essi sembrerebbero essere associati manufatti il cui livello, altrove, è attribuito solamente a Homo Sapiens.

Tutti questi reperti probabilmente possono essere collegati a quelli già citati dallo stesso Coon che riferisce del ritrovamento in Indonesia di due scheletri di piccola statura, forse “negriti” e risalenti a circa 30-40.000 anni fa. Coon, inoltre, ipotizza in questa sede possibili migrazioni pigmoidi dall’Africa all’Asia sudorientale o viceversa: alla luce degli ultimi elementi sopra esposti, potrebbe forse risultare maggiormente verosimile una direttrice di avanzamento diretta piuttosto verso l’Africa, che avrebbe “lasciato indietro” i pigmoidi o culturalmente o biologicamente meno dinamici (con i reperti asiatici di Flores a testimonianza della regressione intervenuta) e portato nel continente nero soltanto gli elementi più vitali: elementi che così avrebbero avuto la forza di improntare le attuali popolazioni africane – o anche qualcun’altra dell’emisfero australe – di quelle peculiari caratteristiche, geneticamene eterogenee e statisticamente “aberranti”, che oggi vengono invece interpretate in un’ottica del tutto opposta, cioè il più delle volte in chiave afrocentrica secondo le linee della già accennata teoria “Out of Africa”.

Va comunque segnalato che, anche nell’ambito di quest’ultima visuale, sempre più spesso viene ammessa l’ipotesi non soltando di migrazioni in uscita, ma anche di consistenti “riflussi” in direzione dell’Africa; in coerenza con tale possibilità sembrano essere gli svariati accenni, già precedentemente evidenziati, nel folklore di diverse popolazioni sub-sahariane che segnalano l’arrivo di antichi antenati dalla direzione di nord-est, come anche le deduzioni di alcuni antropologi che ipotizzano il ceppo originario delle popolazioni di razza nera essersi enucleato in aree iraniche ed indiane per poi migrare sia verso l’Africa sia verso verso l’Insulindia e l’Oceania. Secondo una linea simile pare muoversi il già incontrato glottologo Alfredo Trombetti, per il quale i progenitori dei negroidi africani (si riferisce sopratutto ai Bantu, ma non solo) sarebbero anticamente giunti dalle regioni indiane abitate dai Munda, che nel post precedente sono state ricordate anche da Alain Daniélou per le sorprendenti somiglianze culturali evidenziate proprio nei confronti dei Pigmei africani.

 
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LA DOPPIA CORPOREITA’ DELL’UOMO

Post n°47 pubblicato il 18 Ottobre 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Dopo la parentesi dedicata alle popolazioni pigmoidi, torniamo ora a svolgere qualche considerazione sugli aspetti connessi alla polarizzazione dell’elemento Aria ed al significato antropologico che vi potrebbe essere implicato.

A nostro avviso non sarebbe da escludere un’interpretazione che avvicini tale polarizzazione al sorgere dei mitici “Figli di Dio” (ovvero, il ramo boreale e “paleoartico” dell’umanità, rimasto a Nord) e delle “figlie degli uomini” (il ramo equatoriale, tendente verso una direzione in prevalenza pigmoide e spostatosi precocemente a Sud), immagine che in effetti qualcuno ha interpretato, sul piano fisico, come l’enuclearsi di due razze distinte; il loro incontro avrebbe più tardi generato i Giganti, ipotesi che potrebbe trovare una certa conferma anche dalla genetica con il particolare fenomeno noto come “vigore degli ibridi”, che si verifica quando la prole discendente dall’unione di persone alte con persone basse, arriva a manifestare una statura perfino superiore a quella del genitore più imponente. In questo contesto – ma abbiamo visto come molteplici possano essere le chiavi di lettura dei dati tradizionali – i Giganti allora potrebbero corrispondere ad una delle razze di Homo Sapiens, magari quella di Cro-Magnon, sulla quale avremo comunque modo, più nello specifico, di ritornare in seguito.     

Qui la “duplicazione/polarizzazione” umana trova quindi una possibile interpretazione su di un piano orizzontale, cioè quello corporeo/materiale.   

Ma, visti tutti gli eventi finora descritti nell’ambito del secondo grande anno, riteniamo che nello stesso tempo esistano, a fianco di un’umanità già materializzata (presente sia a Nord che a Sud) anche delle corrispondenti entità poste su di un livello più sottile.

Una conferma di ciò può venire dall’accenno di Jakob Bohme secondo il quale Adamo viene creato con due corpi, dei quali uno è quello dell’angelo – cioè il corpo celeste – mentre l’altro, almeno virtualmente, è quello dell’uomo terrestre: quest’ultimo, però, non si manifesta subito all’atto della creazione, ma solo in un secondo momento, ed in effetti così avviene anche secondo la nostra ricostruzione, ovvero in relazione alla bipolarizzazione maschio-femmina. Infatti Bohme aggiunge che il corpo terrestre può concepirsi solo nella dualità dei sessi, come pure che il corpo celeste viene perso con la Caduta definitiva e la perdita del Paradiso Terrestre (cioè alla fine del secondo grande anno del Manvantara). Forse un analogo ricordo, qui magari da interpretare nel quadro di una localizzazione più specificatamente boreale, è costituito dall’accenno che descrive ora un Adamo non più “in” Dio ma con lui fianco a fianco mentre cammina nel giardino dell’Eden.     

Riteniamo che accenni simili possano trovarsi anche in Henry Corbin, il quale identifica Prometeo (che, ricordiamo, è un titano) con Phos – archetipo degli “uomini di luce” di certi testi gnostici ed ermetico-alchemici – quale rappresentante dell’uomo spirituale nascosto; a questo si contrappone, come polo opposto, l’Adamo terrestre, uomo esteriore, carnale e che in questo caso, evidentemente, corrisponde alla “femmina” intesa in senso ampio (la quale, come dicevamo più sopra, si esteriorizza ed assume veste materiale). L’Adamo terrestre è assoggettato agli elementi, alle influenze planetarie ed al Destino, è archetipo degli uomini materializzati ed analogo ad Epimeteo (che nel mito greco, non a caso, accetta incautamente la donna, Pandora). Prometeo-Phos viene con l’inganno fatto legare ad Adam-Epimeteo, perdendo così la condizione di innocenza che aveva in Paradiso, episodio chiamente parallelo a quello che, nel mito maggiormente conosciuto, ci tramanda la punizione del titano con l’immagine dell’incatenamento alla roccia, palese simbolo della materialità più densa. Ed ancora in relazione al mito prometeico, anche dalle note di Ugo Bianchi è desumibile come l’umanità collegabile ad Epimeteo possieda ormai quella “individualità agente” della quale invece sembra essere priva la “pre-umanità” indistinta e prototipica che in tempi precedenti si era ritrovata a Mecone con gli dèi.   

Nella stessa direzione di una contemporanea doppia corporeità, a nostro avviso, si potrebbe interpretare anche Esiodo. La prima delle sue cinque razze, ovvero quella aurea, beata ed immortale (che più sopra avevamo posto in analogia alla supercasta unitaria Hamsa del primo grande anno del Manvantara), al termine del suo tempo venne mutata in una compagine di demoni epictonii, entità che però non vanno interpretate nell’accezione esclusivamente negativa veicolataci dal Cristianesimo; furono invece presenze che, divenute invisibili per gli uomini delle ere successive – ma non costrette ad un soggiorno sotterraneo – vengono descritte con tratti sicuramente benigni e, in qualche modo, “protettivi” nei confronti di un’umanità dalle caratteristiche più ordinarie. Julius Evola identifica queste entità ai già incontrati Veglianti, evidentemente anch’essi considerati non nel loro aspetto “infero”, bensì in quello positivo (più sopra accennavamo infatti al collegamento tra il concetto di “veglia” e l’aspetto solare del piano sottile).

Di conseguenza, questi demoni epictonii che nascono alla fine del primo grande anno potrebbero ben rappresentare l’entità incorporea che, ora, si qualifica proprio nella sua relazione con un’umanità nel frattempo manifestatasi anche sul piano materiale: “numi” che non avremmo difficoltà a sovrapporre a quella che nel mito esiodeo è proprio la seconda razza, cioè la generazione argentea. In tal senso, ci sembrano infatti particolarmente significative anche le considerazioni di Vernant che sviluppa un’analisi delle razze esiodee “a coppie”, cioè collegando più strettamente la razza aurea a quella di argento (ed analogamente, come vedremo, quella di bronzo a quella degli eroi): nello specifico, la coppia oro/argento esprimerebbe la funzione della sovranità considerata nel suo duplice aspetto, positivo/oro e negativo/argento. Della razza argentea è infatti stato notato come le caratteristiche da essa presentate non possano comunque essere considerate umane nel senso corporeizzato ed odierno, tanto che al termine del suo ciclo verrà, come i Titani, sospinta sottoterra ed inaugurando così la stirpe dei demoni ipoctonii. Ma la presenza, ad un tempo, di un’umanità materiale e di una schiera di entità poste sul livello sottile sembra desumibile anche dalle note di Mircea Eliade, il quale segnala come sotto il regno di Kronos le due categorie – uomini e “dei” – apparivano ormai chiaramente distinte, tuttavia ricordando anche la definizione esiodea degli dei come coloro che furono “fratelli potenti” degli uomini: una differenza che quindi non sembrerebbe irriducibilmente ontologica, ma piuttosto legata alle diverse modalità di manifestazione di uno stesso impulso antropogenetico, che ora veniva ad estrinsecarsi contemporaneamente su un doppio piano.   

 

 

 

 

 
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LA SECONDA RAZZA ESIODEA

Post n°48 pubblicato il 17 Novembre 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Dagli elementi indicati nel post precedente, emerge come una simile interpretazione in parte modifichi l’attribuzione delle razze esiodee ai vari periodi del nostro Manvantara: la prima razza, quella aurea, non dovrebbe coprire tutto il Krita Yuga, ma solo la sua metà e cioè il primo grande anno, mentre quelle successive, analogamente, potrebbero a nostro avviso essere fatte corrispondere ciascuna ad ognuno dei successivi quattro grandi anni.  

In effetti una certa incongruenza tra età mitiche e razze esiodee è già ravvisabile nel loro numero, dal momento che le età sono quattro (Krita-Treta-Dvapara-Kali), mentre invece le razze sono cinque; Esiodo infatti, tra la razza bronzea e quella di ferro, ne pone una quarta, quella degli eroi (razza che peraltro Graves colloca nel periodo bronzeo e quindi evidenziando una certa incongruenza tra i due concetti).

Possiamo quindi provare a svolgere una serie di considerazioni generali basate su una suddivisione quinaria, ricordando che ad esempio anche Julius Evola ebbe modo di segnalare come le tradizioni azteche, invece che di una suddivisione in quattro età, posero piuttosto l’accento sulla successione di cinque cicli solari.

Innanzitutto, per meglio definire la posizione della razza argentea e prima di andare ad approfondire le sue specifiche caratteristiche, riteniamo che alcuni contributi interessanti possano esserci forniti dall'analisi e da una più precisa collocazione temporale della successiva razza di bronzo. Ci sembra infatti significativo che, come ricorda Ugo Bianchi, nel mito esiodeo, se le prime due razze – oro ed argento – furono entrambe fatte dagli dei, solo per la terza si dice esplicitamente che fu creata da Zeus, e che questa si pone chiaramente nel periodo del suo pieno dominio; siccome la reggenza di Zeus si instaura solo dopo quella di Kronos (quindi non più nel Krita, ma nel Treta Yuga), potrebbe quindi conseguirne che la razza argentea si collochi ancora nella prima età e non nella seconda.

Inoltre, su quella che dovrebbe corrispondere alla razza di bronzo, anche Julius Evola ebbe modo di fornire qualche spunto interessante. Il pensatore romano segnalò infatti come, dal punto di vista della degenerazione spirituale, nell'alta preistoria vi fu un momento nel quale, al fenomeno della materializzazione del virile corrispose come controparte la femminilizzazione dello spirituale: a nostro avviso, la materializzazione del virile dovrebbe implicare una casta guerriera ormai in aperta discordia con l'elemento sacerdotale, e quindi, per le caratteristiche evidenziate, identificarsi con la razza bronzea di Esiodo. Non ci sembrerebbe appropriato porre tale evento nel Krita Yuga, perché qui le due caste si polarizzano ma non appaiono ancora in aperto conflitto tra loro (come vedremo, lo saranno solo alla fine), mentre il momento “spiritualmente femminile” ricordato da Evola dovrebbe essere chiaramente riconducibile alla seconda età, il Treta Yuga. Questo dato, quindi, potrebbe stabilire un collegamento tra l’avvento della razza bronzea e l’inizio dell’età della Madre.     

Altre indicazioni utili ci arrivano dalla stirpe controversa – e per la quale avevamo già segnalato la possibilità di molteplici chiavi di lettura – dei mitici Giganti. Nati dall'unione tra esseri celesti con donne terrestri, per Evola sorgono nel momento in cui dalla spiritualità delle origini si passò proprio all’età della Madre (quindi, di nuovo, palesemente la seconda): se in questo contesto, come avremo modo di vedere più avanti, sembra possibile stabilire un collegamento tra i Giganti e la razza di bronzo, ne consegue, anche qui, che la precedente razza argentea di Esiodo dovrebbe ricadere ancora nel Krita Yuga.

Dall'altro lato, Ugo Bianchi segnala che Proclo attribuisce al “teologo Orfeo” una rielaborazione del mito esiodeo delle cinque razze umane, nella quale l’umanità aurea, dedita all’intelligibile e precedente a quella argentea, sarebbe vissuta sotto Phanes, dio che nella cosmogonia orfica presenta caratteristiche ermafroditiche: è evidente come tali aspetti colleghino questa entità, e di conseguenza la razza aurea vissuta sotto il suo dominio, al momento androginico primordiale, da noi già precedentemente analizzato nell'ambito del primo grande anno del Manvantara. Proclo prosegue e conferma anch'egli la creazione della terza razza, da parte di Zeus, con i resti inceneriti dei Titani (cioè dopo la conclusione della Titanomachia), ma ciò che ai nostri fini ci sembra particolarmente significativo è che la seconda razza, quella argentea e “dedita al divino”, venga posta in connessione a Kronos.  

E' stato anche notato come sia proprio il tipo di vita “argenteo”, rivolto verso se stesso e quindi egocentrico, che venga ispirato da Kronos; lo stesso metallo, l’argento, nella “Repubblica” di Platone viene associato ai guerrieri, come anche di argento è la chiave simbolicamente posseduta dall'Imperatore (che nel corso del tempo diverrà scettro, quale segno di regalità) e significativamente detta del “Paradiso Terrestre”, testimoniando quindi un suo diretto rapporto con la prima età – almeno con una sua parte – piuttosto che con la seconda, il Treta Yuga. Vi sono poi anche altri autori che hanno avvicinato la razza argentea alla generazione dei Titani, dei quali sappiamo che Kronos è uno dei più eminenti rappresentanti, e ciò anche per la comune dimora sotterranea alla quale vengono destinati alla fine del loro ciclo cosmico.

La destinazione ipoctonia della seconda razza esiodea è, effettivamente, un ulteriore elemento che può fornire utili spunti di riflessione, destinazione in rapporto alla quale Evola ci riporta, dalla mitologia celtica e da quella iranica, due significativi esempi di figure che potrebbero esservi accostate. Nel mito celtico vi sono i Tuatha de Danann (anche queste, figure che, come vedremo, riteniamo possano essere interpretate in contesti diversi), il misterioso popolo che, alla fine del suo tempo, si ritirò in parte nell’isola di Avallon ed in parte in dimore sotterranee; il mito iranico ricorda invece il re Yima, anch’egli costretto ad occultarsi in un rifugio sotterraneo per l’avvento di nuove condizioni cosmiche (ed, oltretutto, è significativo che nel mito Yima rappresenti il re della prima età).

Inoltre, un mito di area ellenica narra come nel periodo dell’aspro conflitto scatenatosi tra Titani ed Olimpi – il già ricordato episodio della Titanomachia – gli uomini del tempo morirono per il terrore causato da quegli scontri epocali: vennero quindi accolti nella terra e divennero demoni benigni, che in effetti è precisamente la sorte attribuita alla razza argentea. Sembra quindi evidente che l’esistenza di questa umanità dovette necessariamente aver luogo durante il Krita Yuga, se la Titanomachia, terminata con la vittoria di Zeus e la famosa punizione riservata ad Atlante, dovette porre fine alla prima età, in quanto la presa di potere di Zeus inaugurò il Treta Yuga e l’avvento delle stagioni.  

La discesa nelle zone ipoctonie delle entità sottili, inoltre, potrebbe anche essere posta in relazione alla perdita del corpo celeste che, secondo Bohme ed in un’ottica cristiana, Adamo avrebbe avuto fin dalla sua creazione, rimanendogli, dopo la Caduta e la fine della prima età, il solo corpo terrestre. Ed, in effetti, è stato notato come, sempre in termini cristiani, il peccato originale, la Caduta dell'Uomo, la perdita del Paradiso Terrestre e la fine della prima età, rappresentino un evento avvicinabile al castigo subito per ”hybris” proprio dalla razza argentea ad opera di Zeus; diversi autori (Bianchi, Vernant, Graves) hanno infatti sottolineato come è in particolare sulla seconda umanità esiodea che, diversamente dalle altre, sembri gravare pesantemente una “colpa” tale da suscitare l'ira divina.

 

 

 

 
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FIGURE AMBIVALENTI

Post n°49 pubblicato il 29 Novembre 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Queste entità “sottili”, corrispondenti alla razza argentea di Esiodo, non tardano ad entrare in stretto rapporto con l'umanità che nel frattempo è venuta ad assumere una veste corporea secondo i percorsi descritti in precedenza, e lo fanno attraverso una modalità che, significativamente, può essere colta in termini ambivalenti; ciò, del resto, pare coerente con la doppia valorizzazione che, come avevamo già visto, è possibile attribuire all’ambito cosmologicamente intermedio al quale esse appartengono.   

L’ambiguità di tali figure si evidenzia nel fatto che possano, di volta in volta e con vari accenti, rivestire fondamentalmente un ruolo doppio, ovvero quello di “reggenti” divine dell'età paradisiaca, ma anche quello di prime civilizzatrici/fondatrici delle culture umane, e spesso anche di uno specifico gruppo etnico.    

Sotto l’aspetto della “reggenza dell'età paradisiaca”, la visuale può apparire più statica, luminosa ed incentrata soprattutto attorno al tema dell’esistenza beata della prima umanità, che in parte si svolge ancora in una dimensione mitica, in quanto a stretto contatto con forze sovrumane colte come benevole e protettrici: prospettiva che pare intuitivo implicare una loro valorizzazione in chiave “solare”.     

D’altro lato, sotto l’aspetto che invece tende a sottolineare il ruolo definito, in termini etnologici, come “Eroe culturale / Antenato mitico”, la prospettiva sembra esprimersi secondo una modalità forse più dinamica ed articolata, attraverso personaggi che forniscono all’umanità, pur se ancora in tempi primordiali, i primi rudimenti di un'esistenza che si sta già allontanando dal piano divino per volgersi a quello terreno, spesso anche dando inizio alla stirpe che li ricorda; è una visuale che sembra prevalentemente connessa alla valorizzazione in chiave “lunare” del piano sottile.      

Questo duplice aspetto, per certi versi, può apparire analogo a quello evidenziato dalla figura del Demiurgo e che avevamo già incontrato in precedenza. Ora, però, tale ambivalenza si estrinseca su di un livello diverso da quello precedente, e cioè in relazione ad un’umanità corporeizzata che, dopo essere sorta, viene adesso “plasmata”: ma non più in senso morfologico, bensì in chiave soprattutto culturale, completandola cioè con tutti gli elementi conoscitivi atti a garantirne, su questo piano, una vita degna e lontana dalla bassa animalità.

Si riscontrano quindi figure mitiche che, per opera di questa doppia visuale, possono essere considerate in maniera anche diametralmente opposta, come ad esempio i già citati Tuatha de Danann, che non a caso una fonte celtica definisce ad un tempo “dèi e falsi dèi”, mentre altri testi cristianizzati non esitano a marchiarli addirittura come “demoni”; ma tale valorizzazione, in termini più generali, e scremata da accenti di carattere morale, va analizzata anche alla luce di quanto segnalatoci dallo storico delle religioni Ugo Bianchi, il quale ricorda come colui che, in ambito etnologico, riveste il ruolo di “demiurgo-trickster”, non debba necessariamente essere confuso o ridotto al livello di un’entità meramente distruttrice e diabolica, trattandosi invece, al netto dei vari processi di “demonizzazione” (che di frequente subisce ad opera degli strati culturali successivi), di una figura che, piuttosto, presenta complessi aspetti “prometeico-epimeteici” sui quali avremo modo di tornare più avanti.     

Nel loro aspetto soprattutto solare e positivo (che tuttavia, come dicevamo, non è l’unico possibile), la tradizione bibica, ad esempio, ci tramanda figure quali i “figli di Dio”, o “figli di Elohim”; in questo contesto interpretativo, certa letteratura siriaco-ebraica li identifica anche con gli enigmatici “Veglianti”, che Evola ricollega alla razza argentea, mentre altrove il pensatore romano pone in relazione con coloro che anticamente erano stati “uomini gloriosi”, interpretando tale fase “gloriosa” come quella aurea-androginica e quindi confermandone una discendenza diretta dal momento autenticamente indistinto e primordiale (la prima metà del Satya Yuga). In quest’ottica, nel mito greco, è in particolare la figura di Kronos che spicca nettamente, apparendo nella veste del reggente aureo per eccellenza, divinità indiscussa della serenità e dell’abbondanza.   

Ma, analogamente a quanto accennato sopra in termini più generali, anche per il caso specifico di Kronos è stato rilevato come esso tradisca un problematico rapporto di opposizione-identità con il Sole, e l'incorporazione nella stessa figura del doppio ruolo di reggente aureo e di eroe culturale/civilizzatore (fattore che spesso emerge in vari contesti), costituisca una contraddizione funzionale piuttosto palese: è chiaro che il paradosso appare irrisolvibile solamente se presupponiamo un ruolo che per forza debba escludere l’altro. In quest’ottica è degno di nota il rilievo che individua la comune radice “sat” nelle parole Saturno, Satana e Satya Yuga, ed anche la chiara similitudine che è stata rimarcata fra Kronos ed altre figure “demoniche”, quali il nordico Loki, il greco Prometeo ed il cristiano Lucifero. Ma, opportunamente, Guenon sottolinea come non sia corretto enfatizzare in Kronos gli elementi apparentemente negativi, essendo molto probabile che il suo lato “malefico” sia anche una conseguenza dalla scomparsa del mondo iperboreo, del quale egli era indiscusso sovrano, e ciò in virtù del fenomeno di inversione semantica che in genere tramuta in una “terra dei morti” ogni “terra degli dèi” che le circostanze cosmiche portano all’occultamento; su questa stessa linea, è stato inoltre notato come lo stesso Nord abbia, nel corso del tempo, rappresentato in diverse tradizioni il segno cardinale legato al male ed alla negatività, in quanto luogo dove Lucifero/Satana ebbe a proclamare la sua ribellione a Dio.         

Purtuttavia nell’entità saturnina sono stati riscontrati anche aspetti che, oltre a quelli ignei/solari, lo pongono effettivamente in una certa relazione con la stessa Luna – come Kerenyi evidenziò per il suo utilizzo della falce – arrivando fino a delineare un’analogia con la sua fase più oscura, la “Luna nera” Lilith (che, nella Cabala ebraica, viene fatta corrispondere alla decima, e più bassa, Sephirah, ovvero Malkuth).

 

 

 
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TRICKSTER, ANTENATI MITICI ED EROI CULTURALI

Post n°50 pubblicato il 19 Dicembre 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

Nel post precedente avevamo accennato a quelle particolari figure che, in termini etnologici, possono essere definite come “Antenato mitico” o “Eroe culturale”; in effetti si tratta di entità il cui ricordo è presente nelle culture arcaiche di ogni latitudine e che, come ci segnala Mircea Eliade, il più delle volte appaiono sotto forma di un animale in qualche modo connesso con l’astro lunare.     

E’ stato notato come un po’ ovunque nel mondo la Luna rappresenti il “primo morto”, nel suo aspetto di corpo celeste che vive di mera luce riflessa, rammentando così all’uomo la sua condizione ormai peritura e decaduta. Non è un caso che anche l’orso, simbolo della casta kshatriya, sia considerato un “animale lunare” perché, come ricorda sempre Eliade, periodicamente scompare e riappare secondo il suo ciclo letargico; in particolare nella tradizione celtica, il dio-orso Artaios presenta caratteristiche che lo avvicinano molto ad Hermes, che sappiamo muoversi soprattutto nel mondo intermedio, dove molte delle multiformi influenze ivi liberate sono proprio di carattere selenico. Nei miti greci il titano Prometeo, che qualche studioso ha rilevato avere tratti comuni anche direttamente con Lilith, pur essendo incatenato alla roccia della materialità appare come sospeso tra il cielo e la terra, quasi a simboleggiare la manifestazione di ordine più sottile; è quindi un’entità che, in questo contesto, presenta chiare caratteristiche di tipo lunare, anche perché soggetto, come per le varie fasi del nostro satellite, a continua crescita e consumazione (ricordiamo che il suo fegato è perennemente rigenerato e poi roso dall’aquila), nonché per il fatto di essere continuamente esposto al fuoco dal sole, in una condizione che ne fa riverberare la luce ricevuta. Oltretutto, ci sembra piuttosto significativo il fatto che etimologicamente il nome di Prometeo significhi proprio “colui che riflette”, concetto che potrebbe essere interpretato nella doppia accezione di prudente/preveggente ma anche di colui che non possiede una luminosità autonoma.  

Questo genere di figure, anche se nelle varie tradizioni vi possono essere accenti ed enfasi diverse, concorrono fondamentalmente ad individuare un unico filone funzionale “demiurgo - antenato mitico - eroe culturale - trickster”.   

In diverse mitologie, infatti, come ad esempio in quella magiara, il demiurgo “formatore” assume esplicitamente anche la contemporanea funzione di antenato primordiale ed eroe culturale, mentre quello che per i popoli turchi è soprattutto l’eroe culturale ancestrale, corrisponde con precisione al trickster delle mitologie nordamericane. Un ruolo demiurgico viene ricoperto anche dal “grande corvo” dei miti Coriachi (siberiani orientali) il quale, come è stato notato, sembra essere una figura dalle caratteristiche tipicamente prometeico-saturnine. In effetti, di una certa associazione tra Kronos e Prometeo vi è traccia in diversi elementi sparsi nella mitologia ellenica, come anche in figure similari presenti nei miti di alcune popolazioni amerindie della Columbia Britannica: ma è comunque tutta la stirpe titanica in generale che, come segnala Julius Evola, in numerosi accenni dei testi tradizionali pare svolgere un’azione civilizzatrice nei confronti dell’umanità ordinaria, assumendo quindi un ruolo tipicamente da “eroe culturale”.    

Anche Proclo, neoplatonico tardo-antico, accenna all’identità sostanziale tra Demoni, Antenati e Titani, con Kronos che, pure nella sua interpretazione, assume senz’altro una funzione di demiurgo. Rimanendo in area ellenica, ricordiamo che il popolo dei Pelasgi si riteneva lontano discendente di Ofione, detto anche Borea, un mitico serpente gigantesco presente anche con aspetti demiurgici sia nel mito ebraico che in quello egizio (ed altrove considerato della stirpe dei Titani); oltre al nome, dagli evidenti rimandi nordici, ci sembra oltremodo significativo che Borea sia annoverato come capostipite di un popolo che tradizionalmente non viene considerato indoeuropeo ma appartenente al precedente substrato mediterraneo preario (con l’occasione, ricordiamo analogamente anche la popolazione italica autoctona degli “Aborigeni” – per Evola assolutamente non di origine aria – il cui nome però, secondo una, pur discussa, etimologia di Licofrone, deriverebbe invece da “a-boreigonoi” cioè “uomini boreali”, “uomini del Nord”).   

Passando ad altri Aborigeni ma stavolta australiani, Mircea Eliade ne ricorda i miti che narrano di un primordiale Tempo del Sogno – il “Dreamtime” – durante il quale gli Antenati mitici vagavano sulla terra svolgendo una chiara funzione sia civilizzatrice che, come abbiamo già visto, di “plasmazione” umana, ovvero demiurgica; forse in relazione a ciò si può ricordare una tradizione dei Loritja occidentali (Australia centrale) che menziona un tipo superumano e civilizzatore giunto in tempi primordiali da un’indefinito “Settentrione” per insegnare i primi rudimenti culturali. In ogni caso, il più delle volte, queste enigmatiche entità ricordate dai nativi australiani, al termine del loro tempo scomparvero sotto terra, significativamente allo stesso modo dei Titani dopo la sconfitta ad opera di Zeus ed anche della seconda razza, quella argentea, descritta da Esiodo.

In definitiva, ci sembra quindi plausibile considerare Kronos, o le figure interpretabili in modo analogo, contemporaneamente come reggente solare ed “aureo” dei popoli rimasti a Nord, e come eroe culturale dall’aspetto “lunare” delle genti precocemente uscite dall’Eden, cioè di tutta quella parte di umanità che, schematicamente, appare compresa nell’intervallo tra le due fasi seleniche estreme – plenilunio e novilunio – impersonate rispettivamente da Eva e Lilith. Per l’Uomo materializzato venuto alla luce, Saturno è quindi anche il civilizzatore, l’immagine tangibile di quelle forze sovrumane, di quegli “dei”, che ancora appaiono, nel mito greco, come “i fratelli potenti degli uomini”, sebbene ad un inferiore livello di coscienza rispetto a quello androginico-primordiale: coscienza adesso irrimediabilmente legata alla dinamica soggetto-oggetto e nella chiara distinzione dei rispettivi piani e ruoli.    

                            

 
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LA FINE DEL KRITA YUGA – PARTE 1

Post n°51 pubblicato il 08 Febbraio 2014 da MICHELEALESSANDRO
 

Il mutamento di coscienza, accennato nella conclusione del post precedente, può aver rappresentato una tappa intermedia del processo generale di discesa che, dalla fase indistinta ed androginico-primordiale del primo grande anno, ha portato alla “Caduta dell’Uomo” ed alla perdita del Paradiso Terrestre, coincidente con la fine del Krita Yuga.

Da vari dati tradizionali sappiamo che, in termini macrocosmici, il Krita Yuga fu contraddistinto da due elementi ora perduti, ovvero la perpendicolarità dell’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica ed il connesso clima da “eterna primavera” nelle regioni ad elevata atitudine.    

Ovviamente, sul piano fisico, a costituire l’evento primario che decretò la fine della sede iperborea e dell’età primordiale fu il sopraggiungere dell’inclinazione assiale, mentre la recrudescenza del fenomeno wurmiano e l’aggressione delle aree nordiche, fino ad allora rimaste preservate, ne fu l’immediata conseguenza (oltre, ovviamente, all’avvìo del ciclo stagionale). Tale evento dovette essere molto più traumatico dei precedenti cataclismi (forse limitati al solo scorrimento della crosta terrestre rispetto al sottostante mantello ?) che si erano verificati in corrispondenza del passaggio tra il primo ed il secondo grande anno, ma che tuttavia non avevano intaccato la corrispondenza tra equatore terrestre e piano dell’eclittica. Ciò che avveniva ora, invece, era un repentino cambiamento degli stessi poli celesti – ovvero gli immaginari punti della volta uranica verso i quali dirigono i prolungamenti dell’asse – cosa che, a livello astrofisico, dovette rappresentare quasi il riflesso di una “caduta” del Principio, assimilato al Polo di rotazione.

In effetti, Julius Evola sottolinea come, prima ancora del fatto astrofisico, risieda necessariamente in ambito sottile la causa di quanto poi “precipita” al livello materiale, e quindi la perdita della perpendicolarità dell’asse terrestre non potè che rappresentare l’inevitabile conseguenza “grossolana” di un’analoga deviazione precedentemente avvenuta, come vedremo, sul piano spirituale ed antropologico.       

Nei post precedenti, avevamo evidenziato come l’avvento dell’umanità corporeizzata fu soprattutto connessa all’azione del Raja guna, la cui funzione è genericamente quella di promuovere il dinamismo e l’attività, agendo alternativamente sul Tamas guna per reprimere il Sattwa guna, o viceversa. Verso la fine del secondo grande anno, probabilmente il Raja guna iniziò sempre più ad agire sul Tamas con delle conseguenze significative: la riproposizione, analogamente a quanto avvenuto per l’angelo Lucifero dei tempi aurorali – ma ora applicato sull’umanità – di quello che in termini cristiani è il “peccato di orgoglio”, che, come segnala Frithjof Schuon, rappresenta l’ostacolo più importante sulla via spirituale dell’Uomo. L’orgoglio, infatti, è da intendersi come una vera e propria “inversione” dei normali rapporti gerarchici, ovvero la preferenza di sè stessi a Dio, addirittura la contrapposizione a Lui, ed è ben più grave dell’altro ostacolo, la passione (ovvero la preferenza del mondo rispetto a Dio, quella che probabilmente era entrata in campo nella fase del “sonno di Adamo”). Su di un piano più interiore, un’analogia di questo “peccato” potrebbe essere fatta con l’infrazione commessa dall’Anima nei confronti dello Spirito, nel momento in cui essa se ne distingue e vi si oppone nella sua pervicace volontà di affermare la propria esistenza individuata; invece, da un punto di vista più “metastorico”, l’episodio in questione costituisce quel “peccato originale” che comportò la “Caduta dell'Uomo” e l’allontanamento irreversibile della coppia edenica dal Paradiso Terrestre. Notiamo tuttavia come Frithjof Schuon rilevi anche un’interpretazione in parte difforme, presente in altre tradizioni rispetto a quella biblica, sul passaggio dall’innocenza originaria alla “conoscenza del bene e del male” ed alla possibilità della esperienza “centrifuga” rispetto al Principio: non, cioè, come una prima traumatica esperienza peccaminosa e nemmeno come una caduta ontologica di livello, ma piuttosto come un necessario completamento della personalità attraverso un’esperienza che era stata già a priori prevista per l’Uomo.      

D’altro canto, il summenzionato impulso verso l’inversione dei normali rapporti gerarchici può rappresentare anche una spiegazione del mutamento che, verso la fine del Krita Yuga, interessò il rapporto intercorrente tra la prima casta (Brahmana) e la seconda (Kshatriya).  

E’ infatti probabile che, nell'ambito di quest’ultima, i gruppi maggiormente soggetti alle influenze di matrice lunare, iniziarono progressivamente a deviare dal punto di vista spirituale, e che, a nostro avviso, tale allontanamento possa essere sorto inizialmente tra i popoli più australi, riferibili all’ “aspetto Lilith” della Luna; evento forse agevolato anche dal persistere di una certa prossimità con le forme subumane, tamasicamente dominate, provenienti dalla aurorale caduta luciferica di inizio Manvantara. A partire dalle popolazioni legate a Lilith, comunque, l’azione si sarebbe progressivamente estesa, favorita dal comune substrato “sottile” acqueo-selenico, a quelle più settentrionali, che, in una delle ipotesi illustrate nei post precedenti, ritenevamo relazionabili all’ “aspetto Eva” della Luna; una conferma in tal senso potrebbe essere data da una tradizione di ambito cristiano, secondo la quale il Serpente che tentò Eva nel giardino dell'Eden coincideva proprio con Lilith.   

In questo modo le forze più lontane dal Principio, per il tramite di Eva e della casta kshatriya ormai deviata, sarebbero infine giunte sino a corrompere e a far cadere lo stesso Adamo, cioè la parte di umanità rappresentata dalla casta brahmana che invece, nella nostra ottica “orizzontale/correlativa”, era rimasta più legata all'aspetto solare del piano sottile.

 
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