Creato da: MICHELEALESSANDRO il 15/07/2012
PREISTORIA UMANA E TRADIZIONALISMO INTEGRALE

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CRITICA DELLE TEORIE AFROCENTRICHE: ASPETTI GENETICI – PARTE 1

Post n°9 pubblicato il 29 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Come dicevamo, la teoria “Out of Africa” sostiene che l’intero popolamento del pianeta da parte dell’uomo anatomicamente moderno sarebbe di iniziale provenienza africana e quindi ipotizza, come primo punto, una maggior antichità degli Homo Sapiens Sapiens ivi stanziati rispetto a quelli di tutto il resto del mondo; i gruppi rimasti in Africa avrebbero poi sviluppato delle varianti genetiche non riscontrabili al di fuori del continente, mentre quelli partiti – secondo la teoria, un ridotto sottoinsieme di tutti i protoafricani iniziali – avrebbero generato tutte le popolazioni extra-africane, che oggi risulterebbero tra loro relativamente più vicine per il fatto di essere discendenti di un nucleo di migranti che possedeva lo stesso pool genetico.

La teoria in discussione prevede quindi che l’area africana possieda la maggior eterogeneità genetica interna del mondo e che tale elemento non sia spiegabile con ipotesi diverse da quella di essere stata un iniziale punto di origine. Ma, intanto, l’assunto che la zona in questione sia il più probabile settore di partenza delle popolazioni mondiali dovrebbe almeno sottostare alla condizione di un continuo ed ininterrotto popolamento dal momento della prima comparsa di Homo Sapiens Sapiens, che secondo l’ipotesi “Out of Africa” sarebbe databile almeno 100.000 anni fa; possiamo però subito ricordare quanto già segnalato in precedenza, ovvero come il continente africano sembri aver evidenziato delle forti, e molto durature, discontinuità di occupazione nei tempi più antichi, probabilmente passando ad un ripopolamento massiccio in un momento più recente. E poi, la maggior diversità genetica interna delle popolazioni africane a livello di DNA mitocondrale (il codice genetico dei mitocondri, corpuscoli intracellulari che si trasmettono per via materna) non trova necessariamente risposta nella sola ipotesi di aver rappresentato un gruppo originario, perché la cosa potrebbe piuttosto dipendere dal fatto che il continente abbia visto, come dicevamo in tempi a nostro avviso relativamente più recenti, una maggior occupazione umana rispetto altre aree del pianeta: con un maggior numero di individui le diverse caratteristiche genetiche in sito erano più numerose rispetto ad altre parti del mondo e quindi, per un solo fatto statistico, linee che con il tempo altrove sono scomparse, in Africa invece non si sono perse.

Come dicevamo all’inizio, inoltre, la teoria “Out of Africa” vorrebbe che tutte le linee genetiche umane siano di provenienza africana e che non ve ne sia nessuna riscontrabile unicamente in altri continenti. Di recente però, sono emersi alcuni elementi che non sembrerebbero andare in questa direzione. Dall’analisi di un reperto australiano del Lago Mungo (inizialmente datato a 60.000 anni fa, ma successivamente ridimensionato a 42.000 anni) si sarebbe infatti evidenziata una sequenza di DNA mitocondriale più divergente di qualsiasi altra finora conosciuta, comprese le lineee africane; evidenze simili sono arrivate anche alcune popolazioni melanesiane, depositarie di un pool genetico particolarmente diversificato con peculiarità fra le maggiori del pianeta e molte varianti altrove ignote.  Inoltre, dall’analisi specifica su un gene coinvolto nel metabolismo dello zucchero, sono state scoperte due linee ritenute più antiche, riconducibili una ad un’africano e l’altra, cosa che ha destato scalpore, ad un’asiatico. La notizia ha, peraltro, rallegrato non poco il “multiregionalista” Milford Wolpoff, che si oppone alla teoria “Out of Africa” ma da un punto di vista diverso dal nostro, in quanto ipotizza una evoluzione plurima dei vari Homo Erectus, o simili, a suo tempo sparsi nel mondo in altrettanti Homo Sapiens locali, negando quindi una sostituzione integrale delle varie popolazioni arcaiche dei vari continenti da parte degli ipotetici immigrati sapiens africani (l’ipotesi multiregionale di Wolpoff è quindi pluri-evoluzionista e di conseguenza, partendo invece noi da un approccio opposto ed involutivo, ai nostri fini non è di particolare interesse).

Un altro degli assunti della teoria “Out of Africa” potrebbe, inoltre, trovare un’interpretazione diversa da quella della provenienza africana: quello che pone in rilievo la separazione genetica tra popolazioni africane e del resto del mondo spiegandola con l’ipotesi che, come dicevamo all’inizio, essendo quest’ultime originate tutte da un presunto gruppo iniziale di migranti aventi lo stesso pool genetico, oggi le popolazioni extra africane risulterebbero – appunto per questo motivo – relativamente più vicine tra loro.

In merito a questo punto possiamo seguire le considerazioni di Luigi Luca Cavalli Sforza, genetista tra i maggiori esperti mondiali del settore, che nelle sue analisi utilizza frequentemente, come rappresentazione grafica, sia alberi filogenetici (con la storia delle varie fissioni dell’umanità) che le cosiddette “Componenti Principali” (un altro modo di rappresentare le varie grandezze che compongono la variabilità umana nonché la sua distribuzione geografica). In “Storia e geografia dei geni umani” Cavalli Sforza segnala comunque come la prima componente principale del mondo (ovvero quella che dovrebbe evidenziare, se non tutti, almeno i valori più evidenti nella distribuzione genetica su scala planetaria) non mostra così nettamente la presupposta separazione primaria tra popolazioni africane e non, tendendo piuttosto ad indicare, genericamente, un ipotetico spostamento di uomini anatomicamente moderni da occidente a oriente. L’autore comunque sottolinea come il quadro mostrato dalle CP sia sempre statico, mentre siamo noi con le nostra interpretazioni ad aggiungere il movimento migratorio in una direzione o nell’altra, e questo – elemento molto importante, sul quale avremo modo di tornare – avviene sulla base di informazioni esterne ai meri dati genetici.  Rispetto alla prima CP mondiale, una divisione più netta tra popolazioni africane ed extra africane viene invece mostrata dall’albero evolutivo di Cavalli Sforza, cosa che dovrebbe indicare che la differenza più importante all’interno del patrimonio genetico umano si trovi tra questi due insiemi, portando quindi alla conclusione che la separazione africani / resto del mondo sia stata la prima ad intervenire nella storia dell’umanità; ma è importante notare che, per come sono stati impostati i criteri di elaborazone dell’albero, tale conclusione è comunque soggetta ad un’ipotesi di partenza che per il momento risulta ancora da dimostrare, ovvero quella che il genoma di tutte le popolazioni mondiali si sia modificato ad uno stesso e costante tasso evolutivo (in pratica, il ritmo al quale si fissano nel DNA umano le varie mutazioni genetiche che poi vengono analizzate con i metodi statistici; sull’argomento torneremo in seguito); ma anche ammesso che sia accertata la prima dicotomia africani / resto del mondo delineata dall’albero filogenetico, molto opportunamente Cavalli Sforza comunque ci ricorda ancora, come già aveva fatto per l’interpretazione delle CP, che il “movimento” lo aggiungiamo sempre noi, perché l’albero non dice necessariamente se i primi uomini erano africani e si diffusero verso l’Asia, o… viceversa !

Ed, in ogni caso, è stato notato che anche se fosse certa ed effettivamente confermata la divisione umana in due grandi blocchi genetici, africano ed euro-asiatico, tale evidenza, comunque, non sarebbe ancora spiegabile solamente con l’ipotesi di un’origine africana di Homo Sapiens Sapiens, ma ad esempio anche con quella di un maggior flusso genico (mescolamento) avvenuto nel corso del tempo tra europei ed asiatici rispetto invece a quello intercorso tra africani e tutte le altre popolazioni mondiali (cosa peraltro non impossibile da immaginare, vista la continuità geografica eurasiatica ed il relativo isolamento dell’Africa).

Continueremo nei prossimi post ad analizzare gli aspetti genetici, partendo dai criteri utilizzati per la costruzione degli alberi evolutivi ed a vari elementi connessi, come ad esempio la questione attorno al tasso di mutazione delle popolazioni mondiali (il cosiddetto “orologio molecolare”).

 

 

 
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CRITICA DELLE TEORIE AFROCENTRICHE: ASPETTI GENETICI – PARTE 2

Post n°10 pubblicato il 29 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Su quali basi, quindi, vengono creati gli alberi filogenetici ?

A nostro avviso, il vizio fondamentale sta nel fatto che i dati genetici da soli dicono relativamente poco e tutti gli alberi devono comunque sottostare ad elementi aprioristici ed esterni di partenza.

Ad esempio, nel caso della ricostruzione dell’albero mitocondriale, vengono deliberatamente posti a priori dei tipi considerati come ancestrali il che “crea” la radice (ovvero la prima, e più importante, ramificazione) e, ovviamente, le conseguenti conclusioni sull’origine africana. Con altri criteri di scelta, ad esempio se si ritiene opportuno dare maggior importanza alla popolazione con il DNA più simile alla media di tutte le popolazioni mondiali, potrebbe invece essere l’Asia la culla umana più probabile; l’Africa si fa preferire qualora si ipotizzi un tasso costante di mutazione dell’mtDNA (il DNA mitocondriale) in tutte le popolazioni mondiali (criterio discutibile, come vedremo più avanti) e tarando questo “orologio molecolare” attraverso il confronto delle mutazioni dell’mtDNA umano con quelle degli scimpanzè (idem). In pratica, gli alberi che con i soli dati genetici riescono a strutturarsi con la radice di partenza, devono però rispettare delle ancora indimostrate ipotesi iniziali; ad esempio, quando si postula una velocità evolutiva costante per tutti, si programmano fin dall’inizio i vari rami dell’albero, corrispondenti alle popolazioni attuali, ad avere tra loro la stessa lunghezza dal punto di origine alla linea odierna, introducendo così un elemento di decisiva importanza per l’architettura finale del disegno.  

In effetti, come è ben stato riconosciuto, gli unici metodi in definitiva davvero soddisfacenti per posizionare una radice sono di natura esterna rispetto ai dati genetici. E così avviene per gli alberi costruiti con metodi di altro tipo, cioè quelli senza radice, che non hanno la limitazione di una presupposta velocità evolutiva costante per tutte le popolazioni rilevate, ma scontano però l’inconveniente che il loro significato sia evolutivamente meno sicuro, perché chiaramente privi di indicazioni riguardo all’origine iniziale di tutta la struttura. Comunque anche questa tipologia di alberi evolutivi riceve, sotto altra forma, una condizione logica impostata a priori, che spesso è quello di “evoluzione minima”, ipotesi secondo la quale le popolazioni rilevate abbiano fatto, in termini di mutazioni genetiche, il minor percorso possibile dall’origine all’oggi; è l’applicazione pratica del cosiddetto “Rasoio di Occam” principio metodologico che, in sintesi, suggerisce di percorrere, nel tentativo di spiegare un fenomeno in termini razionali, la via più semplice e soggetta al minor numero di fattori. E’ peraltro significativo il fatto che anche Renè Guenon vi accenni nel libro “Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi”, notando che la formulazone del “Rasoio di Occam” appartiene al momento decadente della Scolastica e rappresenta un postulato del tutto gratuito, anche perchè spesso la natura sembra veramente ingegnarsi a moltiplicare gli eventi senza necessità alcuna…

Tornando ai nostri alberi senza la radice, è chiaro che questa debba quindi essere, necessariamente, collocata sulla base di dati esterni di tipo diverso da quello genetico; e siccome gli elementi esterni sono in genere quelli di natura archeologica e paleoantropologica – dei quali abbiamo già avuto modo di analizzare la consistenza – ne consegue che, a nostro avviso, si finisce inevitabilmente con l’introdurre nel disegno totale, per i soliti apriorismi “afrocentrici”, elementi ben poco sicuri. Si arriva quindi ad un vero e proprio “ragionamento circolare”, nel quale varie incertezze si appoggiano e dimostrano a vicenda, tutte però senza una vera solidità intrinseca.

Ricordiamoci quindi, come spesso ed opportunamente è stato sottolineato, che alberi e mappe genetiche fotografano sempre e solo una situazione “statica” e, al limite, possono suggerire dei rapporti di vicinanza più o meno stretti tra gruppi umani diversi, ma non possono mai indicare dinamiche e movimenti migratori: questi li aggiungiamo sempre noi, sulla base di elementi di altro tipo.  Inoltre, la raffigurazione offerta è anche lacunosa in termini storici, dal momento che un ulteriore grosso problema di carattere generale è costituito dal fatto che questi alberi rappresentano la storia delle “fissioni” avvenute nella specie umana, mentre all’opposto non viene tenuto conto delle possibili mescolanze tra popolazioni diverse, che rappresenterebbero delle interconnessioni tra i rami e costituiscono un evento sicuramente non trascurabile nel percorso umano.

In definitiva, anche per Cavalli Sforza gli alberi non sono infallibili, dal momento che metodi diversi possono produrre alberi diversi e che quando l’elaborazione ne  proporrebbe di molteplici, si deve comunque selezionare a priori quello che si adatta in modo ragionevole ai soliti ed immancabili dati esterni. Ad esempio il lavoro, pionieristico, di Alan Wilson dell’università di Berkeley sul DNA mitocondriale, ha portato più di vent’anni fa alla costruzione di un primo importante albero genealogico umano ed alla definizione della cosiddetta “Eva mitocondriale” (sulla quale torneremo nel prossimo post); ma questa struttura, non va dimenticato, è stata scelta fra un’infinità di altre possibili, e secondo lo stesso Cavalli Sforza si sarebbe potuta delineare anche con una radice collocata fuori dall’Africa.

 
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