Una "fiera delle pelli" si tiene fin dal 1500 a Rimini tra Borgo San Giuliano e le Celle, per la ricorrenza di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno, dal ponte di Tiberio o della Marecchia (con le botteghe di legno) sino al torrione del monastero del Monte della Croce alle Celle, posto lungo la strada per Cesena (lato a monte) poco dopo il bivio con la via per Ravenna.
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Rivedendo il film di Fellini mezzo secolo dopo
"il Ponte", 23.01.2022, n. 3: "50 anni di Amarcord"
Il 28 dicembre scorso la Rai ha riproposto sul primo canale il capolavoro felliniano di "Amarcord", uscito nel 1973. Rivederlo a quasi mezzo secolo di distanza, significa tante cose che ci fanno misurare la nostra capacità di registrare emozioni diverse. Allora cercavamo il riflesso nazionale di fatti locali, grazie alla genialità di un grande regista che raccontava la sua Rimini. Che era anche la città in cui vivevamo noi, e di cui conoscevamo per via famigliare tanti personaggi od episodi inseriti nella pellicola. Il film era il trionfo di un mito, la glorificazione di un personaggio. Ovvero del regista Fellini. E ciò ci rendeva felici ed orgogliosi.
Adesso, quasi 50 anni dopo, una rilettura attenta di quelle immagini ci obbliga a ripiegarci su noi stessi, sulle cose narrate od ascoltate, su certi accenni fatti nella vita di ogni giorno in cui le immagini del film rivivono talora con lo stesso sorriso dei personaggi che esse raccontano, e talora come richiamo all'autobiografia vera di quanti allora c'erano e poi hanno vissuto drammi, illusioni, speranze e delusioni nel corso del tempo.
Se nel 1973 tutto sembrava far sorridere o ridere anche nei momenti di maggior tensione o drammaticità, adesso certe scene ci aiutano a capire meglio il percorso della società italiana o certe vicende personali vissute da giovani come ribellione.
Il ricordo personale va a quel 1961, con il centenario dell'unità italiana vissuto a scuola, nelle Magistrali comunali che dovettero partecipare alle celebrazioni dello stesso centenario, organizzate dal Comune di Rimini, con una delega speciale al Maestro Antonio Di Jorio (1890-1981) che insegnava allora Musica nella nostra classe quarta e che doveva farci esibire davanti al pubblico ed alle autorità con il celebre "Va pensiero" verdiano.
Non avevo nessuna voglia di apparire come cantante o corista, e di rubare tempo allo studio per un esame finale di abilitazione, che si prevedeva complesso e difficile. Poi, sinceramente, ricordando i discorsi che si sentivano in casa od in giro, circa quello spirito patriottico che a forza di canti e sfilate era sfociato nella guerra di cui conservavamo in ogni casa continui dolori e richiami, non mi piaceva per nulla fare la bella statuita per obbedire agli indirizzi politici che, per quanto opposti a quelli che ci avevano portato sotto le bombe, erano sempre atti supremi ed indiscutibili del cosiddetto "Potere".
Durante la prova alzai non so se dire il tono o la nota, ma di sicuro feci una bellissima stecca, con quel passaggio delle ali dorate. Il maestro Di Iorio si fermò, mi guardò. Mi conosceva bene. Lui e mio padre avevano organizzato al Kursaal di Rimini per il ferragosto del 1936 quel Festival della canzone italiana che poi fu ricopiato da San Remo. Poi aprì dolcemente le labbra, per dirmi: "Montanari, vai fuori". Io ancor più dolcemente lo ringraziai. Avevo raggiunto il mio traguardo.
Con tutta la classe dovetti partecipare alla manifestazione comunale nel salone dell'Arengo, davanti a Sindaco, Consiglio comunale e pubblico. Le ragazze, quando ci fecero entrare in un salone prima di accedere all'Arengo, scoprirono che per accoglierci con spirito patriottico, erano stati preparati vari cabaret traboccanti di cioccolatini. Per dimostrare la loro soddisfazione politica, velocemente se li misero tutti nelle grandi tasche dei loro grembiuli neri.
Si preparò il corteo per andare davanti al pubblico. Tra i maschi il più alto ero io: il maestro Di Iorio mi chiamò per reggere la bandiera tricolore durante tutto il concerto.
La Patria era colei che faceva obbedire. Quelli della generazione precedente li aveva fatti anche combattere e lasciarci le penne. Questo non mi piaceva, e mi faceva stare lontano da chi voleva un potere forte che già in passato aveva guastato tutto.
Vedere "Amarcord" nel 1973, significava leggere il nostro presente uscito dalle tragedie volute dal fascismo, come una tranquilla situazione priva di ogni pericolo; e poter rileggere quel passato in chiave comica come le sfilate o certi riti politici presenti nel film.
Adesso rivedere quel film è qualcosa di diverso. Ci chiediamo più cose, non ci chiamiamo fuori come spettatori venuti da lontano, ci sentiamo coinvolti più direttamente, anche se nessuno in casa o in famiglia ha fatto mai nulla di male. Ci chiediamo quale peso può avere avuto il senso della sopravvivenza in tutta la famiglia, con quella camicia nera di mio padre divenuta poi grembiule del sottoscritto in prima elementare, per non spendere soldi che non c'erano.
I ricordi di quella camicia furono oscurati da altri fatti. Avevo pochi mesi quando all'inizio del 1943 il fratello di mia madre, Guido Nozzoli, fu arrestato a Bologna per attività sovversiva mediante distribuzione di volantini intitolati "Non credere, non obbedire, non combattere", e possesso di libri proibiti dal regime tra cui il "Tallone di ferro" di London o "La madre" di Gor'kij, peraltro venduti anche sulle bancarelle. Mia madre ricordava la perquisizione fatta dalla polizia in casa nostra, nel palazzo Lettimi di via Tempio Malatestiano.
Guido Nozzoli racconterà di essere stato "venduto" da un conoscente laureato in legge, "che si dichiarava fervente antifascista ed era, invece, uno dei tanti informatori dell'O.V.R.A., l'insidiosissima polizia segreta "inventata" dal prefetto Arturo Bocchini. Io non ho mai denunciato il provocatore che poté concludere tranquillamente la sua carriera. Dopo la liberazione, tra i documenti recuperati all'Ufficio Politico della Questura dai partigiani forlivesi, c'era anche la ricevuta del compenso intascato dal nostro delatore; la duplice spiata gli aveva fruttato 300 lire. A peso, eravamo stati valutati a un prezzo di molto inferiore a quello della carne da brodo".
Antonio Montanari
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A proposito del festival di San Remo.
A Rimini, per il ferragosto del 1936, quello delle picconate di Mussolini all'arco d'Augusto, si organizza al Kursaal il festival della canzone italiana diretto dal maestro Antonio Di Jorio (1890-1981). Un testo dice: «Vorrei toccare le tue coscette fresche…». Non piace, è poco virile, per niente militarista.
Valfredo Montanari raccontò a Gianni Bezzi («il Resto del Carlino», 13.2.1962): «Il vero successo si ottenne l'anno successivo. Il 5 agosto 1937, cinquemila persone affollarono il parco del Kursaal» che non era soltanto «il più raffinato edificio della città» ma anche uno dei 'personaggi' che «diedero la loro impronta, la loro voce, il loro spirito alla storia di una marina che accolse gente di ogni Paese».
Come ogni bella idea riminese, non va avanti. Per il festival, nel dopoguerra ad imitarci ci pensa Sanremo. Dove (1951) si sente un “Grazie dei fior”. Rivolto a Rimini?
A proposito del Kursaal. La storia della ricostruzione nel dopoguerra, a Rimini comincia con una demolizione. Sembra paradossale, ma è la semplice verità. Il Kursaal fu la vittima designata e quasi sacrificale del nuovo corso politico che si voleva dare alla nostra città.
La demolizione del Kursaal è decisa il 13 marzo 1948, dal Consiglio comunale riunito in convocazione straordinaria ed urgente. Il sindaco ing. Cesare Bianchini (pci) dirige i lavori, a cui assistono 28 dei 40 consiglieri eletti. Soltanto pci e psi sono favorevoli, esprimendo i 18 voti con cui passa la delibera: i due gruppi in Consiglio contano però 27 componenti. Quindi, nove di loro non sono presenti alla seduta. Tutto cià risulta da una ricerca compiuta dall'arch. Oscar Mussoni, come leggo in un mio articolo apparso sul "Ponte" n. 1 del 1992.
Sul tema rimando a quest'altra pagina, apparsa sul "Ponte" il 26.03.1989:
1936. Non eran solo canzonette.
Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
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Sigismondo, dica «33»
Le malattie dei Malatesti
Stefano De Carolis nell'Annuario 2001 dell'Ordine dei Medici (Bollettino n. 2, anno III) racconta «Le malattie dei Malatesti». Si comincia con Paolo e Francesca, i cognati di cui si sa soltanto (da Dante) che furono uccisi: «Ma i cadaveri dove sono finiti?» si chiede De Carolis citando un testo del 1581 che li vuole sepolti in sant'Agostino e ricoperti di abiti di seta (resistenti al trascorrere del tempo: una specie di spot pubblicitario adatto all'argomento del testo: «Il vermicello della seta» di Giovanni Andrea Corsucci di Sassocorvaro).
Segue il padre di Sigismondo, Pandolfo III, morto dopo aver sposato la terza moglie: malandato in salute un po' per il continuo uso delle armi e un po' per le cattive abitudini alimentari (carni rosse e formaggi).
Il beato Galeotto Roberto, figlio naturale di Pandolfo III, e fratello di Sigismondo, condusse una vita di penitenza, dopo essersi sposato controvoglia («pare») con Margherita d'Este. Sigismondo aveva una bella testa grande («capacità superiore alla media», naso aquilino e mento sporgente). Negli ultimi anni di sua vita soffrì di febbri malariche, contratte in guerra, e di una «disperata malinconia».
Sua moglie Polissena Sforza morì durante una pestilenza. Vuole la leggenda che sia stato lo stesso Sigismondo ad ucciderla o a farla eliminare (De Carolis racconta anche le relative polemiche relative al fatto, che proseguono tuttora).
Di Isotta sono sappiamo praticamente nulla: il mistero dell'Amore prende il sopravvento sulle indagini scientifiche, una volta tanto. Nel 1756 il suo corpo apparve privo di vesti, durante la prima delle quattro ricognizioni effettuate nelle tombe malatestiane (chissà perché, poi, non si lasciano in pace i morti: che cosa cambi, nel mondo, non sappiamo, con tutti questi esami su poveri resti, che tali restano anche se di persone illustri).
Ultimo compare Roberto, figlio di Sigismondo e di Vannetta de' Toschi, ucciso da una febbre terzana doppia (con fortissima diarrea), contratta mentre combatteva in una zona paludosa laziale.
Antonio Montanari
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Fuorisacco, 06.02.2017. Contro Trump, giovani a Bologna
Foto dal sito dell'Agenzia Ansa.
Il testo della traduzione lo abbiamo aggiunto noi.
Antonio Montanari
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Anni Sessanta, al Magistero di Bologna.
Gli annunci pubblicati stamani su "Repubblica" in edizione nazionale, mi avevano avvertito della scomparsa del prof. Renzo Canestrari. La prima notizia web è dell'Ansa, pochi minuti fa (15:38), nella pagina bolognese sul web.
Nella mia personale memoria di studente del Magistero bolognese degli anni Sessanta, è sempre rimasta impressa la sua grande figura.
Parlando di Ezio Raimondi, citavo nelle pagine de "il Rimino" Renzo Canestrari e gli altri importanti maestri del Magistero di quel tempo, come Luciano Anceschi, Achille Ardigò, Giovanni Maria Bertin, Gina Fasoli, Enzo Melandri e Paolo Rossi.
Personalmente, debbo a Canestrari l'apertura mentale che portava ad unire allo studio filosofico anche quello della sua materia, la Psicologia, che usciva dall'altissimo cielo della Facoltà di Medicina, per affiancarsi a noi poveri Maestri elementari alla ricerca di qualcosa di nuovo e di importante, per uscire dalle secche di una tradizione che si riuniva attorno a poche parole ben fisse nelle menti di tutti, per portarci a discutere il nuovo di una cultura europea che in quel Magistero bolognese s'affacciava con le incertezze intellettuali del domani, sanate nella santità del dubbio, e con le vuote certezze di molti assistenti carogne che cercavano di intimidirci con tranelli e prepotenze.
Grazie prof. Canestrari di averci aperto le porte di una disciplina per la quale poi, anche finiti gli studi per l'esame suo, continuai ad avere interesse verso i libri che di quella disciplina trattavano.
Archivio Ezio Raimondi 2014.
Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
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2008, Bravi scolari di una volta
La scomparsa del prof. Paolo Prodi, avvenuta ieri sera 16 dicembre 2016 a Bologna, mi rimanda a lontani ricordi universitari, dei quali parlai sul blog della Stampa il 13 settembre 2008 in una pagina che riproduco di seguito.
Noi bravi scolari di una volta..., m'è venuto da pensare ricordando un vecchio insegnante universitario, Achille Ardigò, appena scomparso. Docente di Sociologia alla Facoltà di Magistero (primi anni Sessanta), Ardigò non mi ha lasciato memorie particolari.
Un po' incolore nelle lezioni, moderatamente cortese negli esami, la sua materia allora andava di moda, ma a me non interessava in maniera particolare. Insomma un esame come un altro, se non fosse che di tutte le sue lezioni e di tutte le letture annesse, a mezzo secolo di distanza è sopravvissuto (per mia colpa) ben poco.
Un primo ricordo. In una pagina di un suo testo Ardigò studiava la dislocazione dei vari gruppi di sensali in piazza Maggiore nelle giornate di mercato. Ne parlai una volta con un rappresentante editoriale bolognese che si mise a ridere, dicendomi nel suo dialetto: "Eh, ci voleva Ardigò per scoprire una cosa che sappiamo tutti...".
L'assistente di Ardigò, il dottor Paolo Guidicini, era un giovane elegante e cordiale, anche troppo con le nostre ragazze se ci accompagnavano nel suo studio quando dovevamo "prendere l'esercitazione". Si trattava di una ricerca da portare all'esame, e da svolgere sul campo. "Ah, lei è di Rimini, allora vada al tal centro professionale, e faccia questo lavoro...".
M'inventai tutto, dai nomi e cognomi degli intervistati, alle statistiche relative alle loro risposte al questionario affidatomi da Guidicini. Dopo qualche anno, ho trovato quelle statistiche pubblicate in un bel volume scientifico.
Gli assistenti non sempre erano simpatici come Guidicini. Quello di Italiano era un pignolo dalla vice stridula, Mario Saccenti (di cognome e di fatto). Apriva l'esame con una domanda di letteratura. A me chiese di parlare del Tasso (era il mio primo esame universitario in assoluto, un gesto da kamikaze a detta degli amici di corso più anziani).
Risposi partendo dall'importanza del Tasso nella storia della letteratura italiana, argomento contenuto nell'ultimo paragrafo del capitolo del volume di Natalino Sapegno. Saccenti m'interruppe obbligandomi a ripartire "dall'inizio", ovvero dalla nascita del Tasso, quindi dal primo paragrafo del testo di Sapegno...
La seconda domanda riguardava la "Commedia". Apriva a caso il libro, puntava l'indice sulla pagina. Eravamo all'Inferno, mi chiese la lista dei dannati che precedevano quel determinato personaggio.
Gettai l'occhio sulle note. Con un sospiro di sollievo, feci il mio bravo elenco. Saccenti con il ghigno perfido che teneva stampato fisso sul volto per terrorizzarci, e con quella vocina stridula, emise la sentenza terrificante: "No. Quelli vengono dopo".
Scrisse la sua brava noticina che consegnò al prof. Ezio Raimondi, il cattedratico della materia, con cui passai a chiudere l'esame, trattando del corso monografico diviso in due parti. La prima riguardava la "Vita" dell'Alfieri. La seconda, un testo allora appena tradotto dal Mulino, il celebre ed indigesto "Wellek e Warren" dal nome degli autori (titolo: "Teoria della letteratura"). Un libro per laureati, non certo adatto a noi ragazzotti di provincia che avevamo fatto le Magistrali con molto affanno.
Comunque Raimondi, dopo che ho risposto alla sua prima domanda, si rivolge a Saccenti, scorrendo la noticina che gli aveva passato con l'esito dell'interrogazione fatta a mio danno...: "Marione", gli grida, "ma questo giovane è preparato". Non potei prendere più di 25/30 per colpa del sadismo di Marione.
Un assistente di Latino ignorava che "nulla sapeva delle nostre cose" equivale a "non sapeva nulla...". Per cui segnava errore nello scritto, adducendo spiegazioni folli. Alla fine nella discussione che ebbi fuori esame con lui, dovette ammettere che tutte le cose che aveva segnato come errori invece andavano bene.
Per Storia medievale e moderna, cattedra della grande e temuta Gina Fasoli (che interrogava durante le lezioni tenute nell'emiciclo di Anatomia..., ma molto corretta e cordiale agli esami), c'era come assistente Paolo Prodi, oggi famoso docente a livello europeo. L'ho rivisto qualche anno fa alla presentazione di un volume sui Malatesti, ma non me la sono sentita d'andarlo a salutare.
Apparteneva alla categoria dei Saccenti, quelli che vedevano l'esaminando con l'occhio del cacciatore che imbraccia un fucile carico. Nella nostra elementare classificazione, dividevamo gli insegnanti in buoni o carogne. Eravamo molto rozzi ed incivili, noi. Forse lo erano anche quelli che al di là della cattedra credevano che la cultura fosse la memorizzazione di una sequenza di date, e non la capacità di elaborazione della materia. L'assistente di Pedagogia, Mario Gattullo, un giovane meridionale intelligente e saldo nella sua preparazione (e purtroppo scomparso prematuramente per un incidente stradale), aveva il chiodo fisso della Docimologia. Ovvero la misurazione scientifica della preparazione degli studenti di ogni tipo ed ordine di scuola.
Anche per Pedagogia era obbligatoria un'esercitazione decretata da Gattullo. La svolsi per tre mesi in una classe elementare. Divisa in due gruppi. Il primo, esercitato di continuo, alla fine avrebbe dovuto dimostrare maggiore preparazione del secondo lasciato a riposo.
Per una di quelle situazioni che si verificano nella realtà in contrasto con i presupposti dottrinari per non dire dogmatici, accadde tutto il contrario. Il gruppo sempre esercitato alla fine ebbe risultati peggiori del gruppo inoperoso. Il che fece andare su tutte le furie il dottor Gattullo che, non ligio alla filosofia del pragmatismo statunitense che c'insegnava in teoria, se ne uscì con una sentenza irremovibile: "E' impossibile".
Con questa premessa ed esperienza, accettai il lavoro da svolgere per l'esame di Sociologia, facendo pure ricorso ad una pregiudiziale metodologica degna del miglior empirismo nordamericano: "Questa volta vi frego io".
M'inventai tutto, come ho detto. Quella volta feci centro. E' proprio vero, noi ragazzi di una volta eravamo proprio dei bravi scolari.
Antonio Montanari
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Mettiamo a nudo il vero.
Qualcuno pensa che racconti balle. Ma è tutto vero. Sono storie presenti da tempo su Internet.
Fui capocronaca, e tre righe di notizia post-elettorale dall'Unità, mi costarono il posto. Un vecchio amico dc, anni dopo mi disse: ti volevano rovinare.
Curai cose culturali e storiche, fui espropriato dai teologi ufficiali.
Poi qualcuno, da me aiutato al giornale, mi fece coinvolgere a Milano in una vicenda giudiziaria basata sul nulla.
Sono stato attaccato nel II volume di una certa storia, perché le spie indigene hanno trasmesso al Competente notizie false.
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Dal volume di liriche «Note al testo», in corso di composizione, presentiamo la prima, intitolata:
La pagina bianca
Diceva: adesso cominciamo.
Da dove non sapevamo.
Annunciava impavido:
benissimo si va, se commentiamo.
Niente sotto gli occhi o tra le mani,
batteva il tempo col piede sinistro,
pausa faceva poi con quello destro,
accanto si spostava, e ripeteva
che si stava andando a cominciar.
Senza una carta, un foglio un libro appena,
precedeva la domanda ed avvertiva:
si comincia dal nulla, come quando
il mondo non era che nella mente
del Creatore. Il quale non aveva carte,
libri o congegni vari per misurare,
calcolare, dare, dire, valutare.
E ripeteva: adesso cominciamo
le nostre note al testo,
e se capite e valutate, vedrete
che il testo lo costruirete voi,
che adesso non lo conoscete,
perché non lo avete tra le mani.
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Fuorisacco, 02.08.2016. «Publiphono», dal 1945. Dai ruderi di palazzo Gioia, all'angolo di piazza Cavour, le notizie del giorno scendevano sul centro attraverso gli altoparlanti di «Voci della città». Le commentavano Glauco Cosmi e Sergio Zavoli. Antonio Montanari |
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Nickname: monari
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Sesso: M Età: 82 Prov: RN |
Inviato da: nospacenotime
il 29/09/2008 alle 18:44
Inviato da: amoildeserto
il 13/09/2008 alle 21:44
Inviato da: angeligian
il 03/08/2008 alle 07:53
Inviato da: ninaciminelli
il 21/07/2008 alle 22:44
Inviato da: filtr
il 20/07/2008 alle 21:43