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Un blog creato da biondaefelide il 30/09/2006

Libri a merenda

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8 MARZO 2008: ECCO A VOI IL VERMEDELLIBRO!

Ce l'ha fatta, il piccolo vermiciattolo verde, è arrivato – un po' col fiatone in verità, un po' emozionato nel vedere tanti bambini riuniti ad ascoltarlo nella bibliotaca comunale di Civitanova – è arrivato finalmente in libreria.
Tutti ora possono averlo, tutti possono seguire col dito le sue parole scritte in un libro...un LIBRO VERO!
Lui ama poco farsi vedere, in verità. Preferisce suggerire storie e fiabe con la sua vocina sottile sottile, nascondendosi tra le righe, ma ora che si è presentato non può più tirarsi indietro, anzi! Invita tutti ad andarlo a trovare, tra gli scaffali di libri per ragazzi o sul sito del suo editore: firenzelibri.com.
A presto e...buona lettura!

 

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PICCOLI MOTIVI PER LEGGERE

Caterina in punta di piedi tra gli scaffali, per sfuggire al suo temporale: gocce di pioggia che assomigliano alle sue lacrime, un fiume inarrestabile di piccola solitudine. Un libro, poi un altro e un altro ancora, lasciati lì, vocine inascoltate. Ma poi gli occhietti birichini si illuminano, non può aspettare di arrivare a casa, si accoccola, una seggiolina nella libreria semideserta, comincia a leggere…Brrr! Che paura! Anche il vero temporale, là fuori, ascolta stregato. Non una lacrima scende alla fine della storia. Esce Caterina con un sorriso e un sacchetto pieno stretto nella mano, il miglior antidoto contro la tristezza.
 

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Alain de Botton, Architettura e felicità, Guanda

Post n°9 pubblicato il 09 Novembre 2006 da biondaefelide
 

Un saggio filosofico che ha il sapore di una chiacchierata tra amici. Alain de Botton ci ha abituati a questo stile colloquiale, in cui i grandi temi dell’esistenza sembrano meno lontani, e anzi appartengono alla nostra vita quotidiana. L’architettura, ad esempio, che generalmente viene considerata “per addetti ai lavori”, non è che il nostro personalissimo modo di vedere il mondo, con le stesse caratteristiche di bellezza, forza, gentilezza, calore, che vorremmo appartenessero a noi stessi.
Allora è vero che gli edifici ci parlano, le piazze, le vie, gli oggetti che scegliamo per la nostra casa possono raccontarci mille storie oppure parlare agli altri di noi stessi. Una città nata in una determinata epoca, governata da un re o da un parlamento, potrà esprimere attraverso i suoi monumenti i valori in cui crede o, all’opposto, mostrare al mondo la forza e la tenacia con la quale desidera che quegli stessi valori facciano parte della sua cultura.

La bellezza è tante cose: la possiamo trovare in un ponte sospeso, che testimonia la nostra ammirazione per il coraggio nello sfidare con leggerezza ed eleganza le acque torbide di un fiume; nell’aspro orgoglio di un grattacielo capace di esprimere potenza ed esultanza o nella gioia silenziosa di una casa giapponese, priva del superfluo e capace di riportarci all’essenza della natura. Per dirla con un termine zen, vecchio di seicento anni e di cui manca il corrispondente diretto nelle lingue occidentali, la bellezza è ‘wabi’, ciò che è modesto, incompiuto, transitorio ed imperfetto. È wabi una pietra consumata dalle intemperie, è wabi un cielo autunnale, il legno grezzo e un muro antico ricoperto di muschio.
La natura, i campi, la terra vergine che accoglie gli alberi, rappresentano una promessa di felicità, che si potrà realizzare solo se gli architetti con i loro bulldozer riusciranno a ripetere nelle loro nuove costruzioni la stessa identica originaria bellezza.
Un libro che mi ha affascinato e che mi ha permesso di visitare luoghi unici al mondo con un compagno di viaggio capace di rendermi sensibile alle vere qualità di stili, materiali e forme: un particolarissimo percorso di educazione estetica.

“Se il nostro interesse per edifici e oggetti è davvero determinato tanto da quello che ci dicono quanto da come svolgono le loro funzioni materiali, allora vale la pena di riflettere sul curioso processo con cui la disposizione della pietra, dell’acciaio, del cemento, del legno e del vetro sembra esprimere qualcosa, dandoci in rare occasioni l’impressione di parlarci di cose importanti ed emozionanti.”

 
 
 

Bombe di pasta incantate

Post n°8 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da biondaefelide
 
Foto di biondaefelide

Il viale è lungo lungo, sembra non finire mai. Mentre la macchina avanza silenziosamente, vedo dal finestrino scorrere gli alberi, tutti uguali. Come la sagoma degli stampini da cui nascono le mie foreste di carta, abitate da tutti i personaggi che mi fanno compagnia quando fuori piove e fa freddo. È bello ritagliare gli animali feroci, i leoni, le tigri, con le zampe pronte a scattare, i dentoni affilati bene in vista, ma sempre fermi e immobili, buoni come gattini, che si lasciano sistemare dove vuoi tu.
La casa di nonna Sara ormai si vede bene sopra la collina. È una villa grande, con i muri in pietra, un immenso tetto rosso che prima scende spiovente e poi si rialza, come il picco di una montagna. Dal comignolo esce un grosso sbuffo di fumo, come se la casa brontolasse ma nessuno prestasse attenzione alle sue lamentele di vecchia signora. Davanti c’è un giardino, ma in questa brutta stagione non ci sono fiori, soltanto steli di piante e un manto di foglie secche. Papà ferma la macchina e la mamma ed io scendiamo per prime, mentre lui parcheggia sul retro ed io vengo sommersa da cappotto, sciarpa, cappello, tanto da non riuscire a vedere dove metto i piedi. Si sente un brusio indistinto proveniente dall’interno della casa, tutti devono essere già arrivati, e allora sento un piccolo morso allo stomaco, una piccola emozione.

Da tempo non vedo la nonna, perché noi abitiamo in un’altra città e papà e mamma sono sempre impegnati. Però ci telefoniamo spesso e io le racconto della scuola, degli amici, dei compiti, ma soprattutto le nuove storie, le fiabe che lei mi spedisce per posta, nutrendo la mia fame di avventura. Mia madre giura che quand’ero piccola imparavo perfettamente a memoria le parole di quelle storie, che ormai sono diventate mie. Solo più tardi ho saputo che a comprarle per me era soprattutto la nonna. E ancora ci lega questo filo fatto di racconti, anche adesso che sono più grande e frequento già la quinta elementare.
È una vera riunione di famiglia. Ci sono proprio tutti, anche i parenti che vengono dall’America e che io non ho mai conosciuto. Appena varco l’uscio del grande salone tutti gli sguardi sono puntati su di me e quasi istantaneamente dal mio stomaco si sprigiona un forte calore che arriva dritto dritto sulle guance. Abbasso gli occhi e resto a guardarmi la punta delle scarpe, mentre un coro di voci si avvicina pericolosamente alle mie orecchie, gridando di meraviglia nel vedermi così cresciuta, coprendo di complimenti mia madre per i miei lunghi capelli biondi e i miei occhioni azzurri.

Sento che sto per soffocare quando tutti si sentono in dovere di pizzicarmi le guance, baciarmi e abbracciarmi, quasi debbano rifarsi del tempo trascorso senza preoccuparsi della mia esistenza. A fatica riesco a togliere sciarpa e cappello ed è allora che vedo la nonna, che se ne sta un po’ in disparte e mi sorride comprensiva. Le sorrido anch’io e faccio per andarle incontro, quando la mamma mi trattiene per il bavero del cappotto. “Cara, saluta lo zio Enrico. È venuto dall’Argentina, sai, ha fatto un lungo viaggio per vederci.”
Non avevo visto quel signore prima. Se ne sta seduto su una grossa poltrona imbottita, le braccia conserte e una mano pelosa avvinghiata al pomo di un nodoso bastone. Non si è alzato come gli altri al nostro arrivo, anzi, sembra quasi contrariato. Non mi sorride quando mi avvicino, la sua lunga barba nera tutt’uno con i suoi capelli non si muove. Neanche gli occhi, cupi e scuri, mostrano una qualche emozione. Mi vengono i brividi, perché ho un po’ di paura. “Qualcuno ti ha tagliato la lingua signorina?” – la sua voce secca, severa, senza un briciolo di dolcezza, non ha bisogno di risposta. Mi richiudo nelle spalle con un gesto che assomiglia a quello di una tartaruga quando si ritira nel suo guscio.

Per fortuna nonna Sara viene in mio soccorso e, prendendomi sottobraccio, mi porta via con sé. Come da piccola, è la cucina il nostro rifugio preferito. Tutto è come lo ricordavo. La pentola scoppiettante sul fuoco, il grande tavolo dalle gambe massicce come quelle di un gigante, occupato dall’impasto morbido dei biscotti, rotondi bianchi tutti in fila come grassi soldatini di pastafrolla. Dal forno, un invitante profumo di torta di mele. Guardo il viso elegante e dolce della nonna, gli occhi azzurri identici ai miei e la sua pelle bianca e penso che è bellissima. Specialmente quando sorride indulgente e, aprendo la dispensa, tira fuori per me l’incarto profumato dei confetti. Ho sempre amato questa stanza, più intima e raccolta del salone delle feste. Qui correvo piangendo quando mio cugino Lorenzo mi faceva i dispetti e la nonna mi consolava, asciugandomi le lacrime col suo grembiule. Qui mi divertivo a pasticciare con uova e farina, in piedi sulla sedia impagliata, mentre nonna Sara mi impartiva lezioni di cucina.
Ora siamo tutti intorno al lungo tavolo da pranzo, ciascuno di fronte al suo piatto pieno di squisitezze. Mangio veloce e di gusto, divorando antipasto, lasagne, tagliatelle fino a sentirmi piena da scoppiare. È sempre così, il mio stomaco non arriva mai agli arrosti. Mi appoggio allo schienale della sedia, ora mi sento più tranquilla tra mamma e papà, ma di fronte a me, quasi a farlo apposta, c’è la faccia terribile dello zio Enrico che mi squadra implacabile. Gli adulti parlano di cose incomprensibili, aumento dei prezzi, tasse, politica, e a me viene un gran sonno, tanto più che fuori comincia a piovere, un ticchettio sommesso e sempre uguale. Chiudo gli occhi.

Quando li riapro il terribile zio Enrico è sempre al suo posto, ma sta succedendo qualcosa di strano. La vecchia zia Agata, che gli siede accanto, improvvisamente strabuzza gli occhi e si accascia su un fianco. Guardo lo zio e per la prima volta sul suo viso compare un ghigno minaccioso. Una striscia gelida mi percorre la schiena mentre assisto ad un’altra scena: non appena lui si china per parlare all’orecchio del vecchio signore alla sua sinistra, vedo fuoriuscire dalla sua barba uno strano fumo denso che avvolge il poveretto e lo fa crollare con grande schianto sul bordo del tavolo. Scatto in piedi e comincio a gridare “È stato lui! Ha ucciso la zia Agata, io l’ho visto!” La mamma mi guarda imbronciata, aggrottando le sopracciglia e tirandomi bruscamente a sedere, intimandomi di stare zitta e di non dire sciocchezze.
Mi guardo intorno, atterrita, nessuno sembra essersi accorto del maleficio dello zio Enrico. Ma sarà poi il vero zio Enrico? Lo vedo concentrare lo sguardo su papà, occupato con coltello e forchetta e ignaro di tutto. Ancora una volta, quel fumo nero attraversa la tavola e colpisce il suo bersaglio: papà cade all’indietro stecchito. Stavolta sono davvero terrorizzata, lo zio Enrico vuole ucciderci tutti, ma dov’è la nonna? È sparita, non è più al suo posto. Mi alzo bruscamente per andare a cercarla, lei sì mi crederà.

Lotto furiosamente con la mamma che non vuole mi allontani prima della fine del pranzo. Mi stringe forte il braccio, ma all’improvviso allenta la presa. Anche lei è stata colpita e cade rumorosamente a terra. Con un grido, scappo dal salone e mi dirigo in cucina. La nonna è lì, china sul forno, l’elegante abito nero stranamente più lungo del solito che si distende abbondantemente tutt’intorno. “Nonna! Aiuto! Lo zio Enrico…ha ucciso zia Agata…la mamma….” – sto per piangere mentre riesco a gridare solo parole inarticolate. Lei si volta brusca, il viso stranamente trasfigurato da una luce opalescente. “Nonna, che cosa…” – dò un’occhiata al contenuto della teglia nel forno, non è la torta di mele, ma qualcosa di viscido e gelatinoso. “Piccola, non c’è tempo da perdere. Lo zio Enrico è un mago malvagio. È me che vuole uccidere, per impossessarsi della formula magica di lunga vita che solo noi streghe conosciamo. Dobbiamo preparare un incantesimo, segui le mie istruzioni”.
La nonna, una strega. Non ci posso credere. Ma ho troppa paura di quel mago che tra poco arriverà qui ed eliminerà anche me, l’ultima testimone. Come un automa mi avvicino al forno. Ora questa stanza non ha più quell’aria rassicurante, anche il fuoco nel camino sembra avere i brividi, scosso da una corrente gelida. Ricaccio dentro un nodo che mi impedisce di respirare, mentre prendo un coltello e taglio velocemente il grumo informe appena uscito dal forno. La nonna inaspettatamente prende i biscotti ormai lievitati e li riempie di quel miscuglio che ha un odore nauseabondo, poi li tocca uno ad uno con la punta di una bacchetta che assomiglia al manico di un mestolo, bisbigliando un incantesimo incomprensibile.

È la fine, lo zio Enrico ci ha trovate. Nonna Sara lo affronta lanciandogli sul terribile volto le bombe di pasta incantate, che hanno il prodigioso e disgustoso effetto di squagliare il suo naso, la fronte e parte delle guance, rendendolo ancora più spaventoso. Ma le bombe sono finite e ormai il denso fumo nero sta per soffocare anche me e la nonna…Noooooo!
“Noooo!” – sento me stessa gridare come se fossi già morta e la voce mi giungesse da un altro mondo. Quando riapro gli occhi, respirando affannosamente, scorgo lo sguardo interrogativo e seriamente preoccupato della mamma che mi accarezza affettuosamente i capelli – “Cara, non sta bene addormentarsi a tavola. Lo zio Enrico qui di fronte penserà che sei una bambina maleducata”. A sentir pronunciare quel nome, mi stringo ancor più alla mamma. Ma il signore che vedo non ha più quello sguardo allucinato, mi guarda invece con grande tranquillità, mentre dalla sua pipa esce un lieve filo di fumo. La nonna però non è al suo posto. Mi divincolo dolcemente dalla stretta della mamma e vado a cercarla in cucina. Sorrido, rassicurata, quando la vedo china in terra – “Arrivo, piccola. C’è così tanta sporcizia, qui”. Ma non è semplice unto quello che vedo, sono piccoli reali squarci di pavimento.

 
 
 

Appunti di viaggio

Post n°7 pubblicato il 18 Ottobre 2006 da biondaefelide
 
Tag: Storie

Partire è un po’ come sfidare le leggi del tempo e dello spazio, oltrepassare confini definiti e rubare ore e giorni allo stillicidio della vita quotidiana. Compiere chilometri e chilometri di strada per arrivare al centro di se stessi e fare un giro sopra la propria anima. Mi domando se al ritorno riuscirò a rimettere i panni che ho lasciato sul letto di casa mia e rientrare così nella vita normale.

Partenza.
Mentre scrivo, il rombo dell’aereo disperde i pensieri e richiama tutta l’attenzione al qui e ora, a questa strana sensazione di assenza di peso allo stomaco e di pesantezza alla testa. Sono soggiogata dal decollo, dalla potenza del reattore che riempie l’aria e sembra annullare ciò che è stato prima, dando a tutto un nuovo inizio, come in una rinascita. Sono bambina, sono piena di entusiasmo, curiosa, come se avessi mille cose nuove da scoprire… mi volto e davvero scopro qualcosa, qualcuno, al mio fianco. Sembra assorto tra le pagine di un libro, solo io riesco a leggere nei suoi occhi blu.

Voyage.
Sto volando. Volo. Non ho paura. Piano piano le dita che poco fa si artigliavano al sedile si rilassano e riprendono il loro aspetto normale. Le membra si sciolgono ed io mi abbandono sullo schienale con un lungo sospiro. Ormai il motore è solo un ronzio indistinto, una vibrazione tranquilla e rassicurante. Le nuvole sono un tappeto bianco ed è strano guardarle, un tetto che diventa pavimento, il mondo che si capovolge. Sorrido. È un buon segno, visto che questa sarà la mia casa per altre… dieci, dodici, quindici ore? Pazienza. Sacrificio ripagato: l’Australia calpestata dai miei frenetici piedini, l’Australia sotto il fuoco dei miei occhi avidi e indiscreti e della mia penna coscienziosa, che non lascia indietro nulla che valga la pena essere raccontato. Mi volto. Dov’è andato quel bel ragazzo che mi sedeva accanto, dallo sguardo incredibilmente profondo capace di divorare le pagine di un libro e allo stesso tempo di farmi desiderare di essere quelle pagine? Se ti capita di entrare nella traiettoria dei suoi occhi sei come risucchiata dentro un uragano, un vortice di luce e speri con tutto il cuore di non uscirne mai più. A volte sorride e allora senti tutt’intorno un calore avvolgente, un’oasi di pace, un’infinita dolcezza. Eccolo che ritorna, il passo elastico dello sportivo, i muscoli che si tendono sotto la t-shirt, lo so, sarà mio. Ha trovato la sua fila, fa alzare una signora seduta accanto al corridoio che gli sorride civettuola (potrebbe essere il suo tipo), un movimento rapido ed è a due centimetri da me. Sposta il libro abbandonato sul sedile, si appoggia sul gomito, si avvicina e mi bacia. Sono in paradiso. “Tesoro, sei ancora lì a scrivere? Dormi un po’, il viaggio sarà lungo”. Parole sante.

Città di diamanti.
Quando riapro gli occhi siamo già arrivati. È mezzanotte ora locale e dall’alto Sydney sembra fatta di mille diamanti luccicanti che formano disegni prodigiosi e appagano la vista. Megan, la mia amica australiana, è già ad aspettarci insieme a suo marito per caricare i nostri bagagli e accompagnarci nella loro casa. Non ho sonno e la mia mente registra ogni sensazione, ogni piccola impressione. Mi appare subito una città dalla nightlife meravigliosa, un frizzante brulicare di vita. Sono così sveglia che andrei a ballare, ma non credo che i miei compagni siano dello stesso parere. Arriviamo a casa, un loft al ventesimo piano di un alto grattacielo, dalle cui vetrate si abbraccia tutta Sydney. Non mi sembra vero, Megan è qui con me in carne ed ossa, con il suo sorriso accattivante e l’accento australiano che non ha mai perduto, neanche nei cinque anni trascorsi in Italia. Occupiamo l’unico grande spazio a nostra disposizione, dove due invitanti divani fanno bella mostra di sé. Ma noi ci sediamo a terra, ricordo informale delle chiacchierate interminabili nel nostro appartamento ai tempi dell’università. Mi emoziono mentre le racconto di me e della mia vita, continuando un dialogo fra noi mai spento, ma ravvivato negli anni da continui scambi via e-mail. È strano pensare di trovarsi dall’altra parte del mondo e allo stesso tempo sentirsi a casa. Forse è l’atmosfera che si è creata dentro questa stanza, piena di sussurri e di risate soffocate, di zapping fra una lingua e l’altra, di silenzi pieni di significato, alfabeto morse compreso solo da noi due. Non so come, si materializza accanto a noi una bottiglia di vino bianco, che Megan stappa solennemente in onore alla nostra bellissima amicizia e così i brindisi si moltiplicano mentre la sete viene soddisfatta insieme alla fame di ricordi. Oddio, vedo due bottiglie ora…Chissà Lui dove si è cacciato?

The day after.
Sydney mi dà un buongiorno sfavillante di luce e di vitalità che mi colpisce direttamente gli occhi serrati dal gran sonno. Li apro a fatica e mi sembra di sentire un mal di testa in arrivo. Come mai? Ah, sì, la conosco, si chiama sbronza colossale. La casa immersa nel sole sembra sorridere condiscendente di fronte ad una scena che ha dell’esilarante: io e Megan addormentate sul tappeto con la testa fra le braccia, la bottiglia di vino praticamente vuota che fa bella mostra di sé e delle poche gocce superstiti del suo liquido chiaro scintillante e traditore… Anche lei riemerge dagli abissi dell’alcol e nonostante la nostra brutta cera non riusciamo a trattenerci dal ridere.

Scatta che ti passa.
Megan e Mark sono una coppia di giovani architetti e conto su di loro per vedere il meglio di Sydney e tornare in redazione con un reportage di viaggio a dir poco strepitoso! Immagini e parole capaci di trasmettere emozioni vive, cambiamenti in farsi, momenti unici ed irripetibili. In barba al fuso orario partiamo tutti nel primo pomeriggio diretti in centro. Ho con me un cappellino a larga tesa, la borsa con penna e bloc-notes e la mia fedele macchina fotografica, già appesa al collo con l’obiettivo puntato verso il mondo. Ho deciso che sarà la città a raccontarmi la sua storia e non io ad imporle la mia. Sarò in sua balìa e in balìa dei sogni che saprà suggerirmi, vorrò vedere solo ciò che lei vorrà mostrarmi. Se è vero che la macchina fotografica è un occhio che può guardare davanti e dietro di sé e l’immagine esterna non fa che restituire la visione dell’anima interna del fotografo, da questo viaggio scoprirò qualcosa di più su me stessa, nuovi desideri, nuove destinazioni, un nuovo corso. La giornata è lucida, netta, di un blu perfetto come gli occhi dell’uomo che accompagna i miei passi e non mi perde di vista nemmeno per un istante. Ops, tranne ieri sera… ma io so che Lui e Mark hanno fatto in modo di lasciarci da sole a liberare i ricordi, senza che nulla disturbasse il nostro viaggio nel passato. Lo adoro per questo. Quando lo guardo mi sorride. Ecco ancora quel vortice. Stavolta mi inchiodo sui miei passi e scatto. Prima foto: Sydney nei suoi occhi. Ottimo inizio.

Se voglio, voglio l’infinito.
I giorni scappano via veloci, ma fermarli e contemplarli fa parte del mio mestiere. Ho già un buon numero di foto e il bloc-notes pieno di geroglifici a penna biro che solo io saprò decifrare. Sydney si è aperta per me come un vaso delle meraviglie. Di giorno il suo skyline dalle audaci forme architettoniche, che lascia senza fiato perché in esso si respira già il futuro, di notte il brivido caldo di una festa perenne, che non conosce fine né risveglio. Un pellegrinaggio fotografico tra visi abbronzati modello Baywatch ed espressioni più risolute di donne che quotidianamente fanno i conti con la realtà metropolitana di una città che non schiaccia, ma impegna. Si respira un’aria di libertà sconfinata che non si scontra con i grattacieli e con il traffico intenso, è una liberazione interiore, una sensazione che immagino provino solo gli uccelli quando si alzano in volo. Ma non mi è bastato vivere la frenesia della notte e riprendere da tutte le angolazioni possibili il possente edificio che si libra come una vela nel cielo, simbolo della città. Ho voluto vedere l’oceano. Ho voluto assaporare l’infinito e vedere se mi piace. La spiaggia fuori città è un piccolo deserto su cui si riversano aggressive le onde del Pacifico. Mille puntini colorati entrano ed escono dall’acqua, come in una danza propiziatoria. Sono i surf che giocano con l’oceano e sfidano le leggi della gravità. Le onde ritornano sui loro passi, ripetutamente e con forza, ma ogni volta con un rumore diverso, un nuovo accento, una nuova intenzione. Che sia questo l’infinito?

Ritorno.
Ho ancora negli occhi le immagini di questo viaggio, ma più ancora risuona nelle mie orecchie il rumore freddo dell’oceano. Non lo dimenticherò tanto presto, anche perché ho capito bene il suo messaggio. L’infinito è proprio qui, vicino a me, con i suoi occhi blu e la sua mano che stringe la mia. Sai, Sydney, ho deciso di dirgli di sì.

 
 
 

Lo sciopero delle scarpine

Post n°6 pubblicato il 12 Ottobre 2006 da biondaefelide
 
Foto di biondaefelide

Qualche volta l’inverno si confonde con l’estate, e invece della pioggia gelida splende un caldissimo sole. Altre volte ti guardi intorno e al posto della tenera erbetta, affondi i piedi in un manto di neve. Ci sono giorni normali, dove ti alzi la mattina, è pronto il caffelatte, i biscotti sono sulla tavola e lo scuolabus ti aspetta fuori della porta, ma ci sono anche giorni dove nulla è al suo posto e le cose ti fanno i dispetti e ti scappano di mano. Quando il cielo fa confusione e scambia le stagioni, quando il mondo gira alla rovescia, allora sì che può capitare la magia.

C’era una volta la piccola Chiara, sguardo furbetto e mani di farfalla, i piedini mai sullo stesso posto per più di due minuti: a scuola ballano sotto al banco e si scatenano all’ora della ricreazione. Gli occhietti marroni vedono il mondo a strisce quando i capelli sottili come fili d’oro si ribellano al fermaglio e scendono dolcemente a disturbare il nasino. Il suo visino assomiglia a una pesca, un po’ rotondo e chiaro, ma con due spruzzate di rosa sulle guance, che diventa rosso quando corre e si scatena. A scuola quando c’è silenzio puoi talvolta sentire un sonoro “PUM!”, tutti si girano a guardare, ma lei è già in piedi, un po’ stordita, che si massaggia il sederino. Non sente male, perché non ne ha il tempo. Se si rovescia, cade a capitombolo, inciampa nei suoi mille pensieri o scivola su una buccia di banana, non fa una lacrima, ma stringe i denti e un po’ si arrabbia…con il povero tavolo che le si è messo tra i piedi, con lo scalino antipatico che si trovava proprio lì dove non doveva, con la sedia cattivissima che si è inclinata a tradimento.

Non piange Chiara, però sbuffa come una ciminiera se la mamma punta l’indice sulle tessere di puzzle che fanno girotondo sul pavimento, o sui vestiti della bambola che fanno una macchia di colore sul divano del salotto. I suoi piedini, invece, non si fermano proprio mai. Non riesci a vederli durante la corsa, come se volassero e non perdessero tempo a toccare la terra. Anche quando Chiara è ferma, sul banco di scuola o davanti alla televisione, si muovono solo le cinque dita che sembrano parlare tra loro e fare conversazione, proprio come le persone.
Arriva un pomeriggio d’inverno proprio noioso. Fuori fa freddo e non si può neanche giocare a nascondino. Chiara è seduta per terra a guardare i cartoni animati e le scappa una ghirlanda di sbadigli. Non è riuscita a fermarli in tempo con la mano, chissà ora dove andranno a richiamare altri sbadigli come loro. Arriva la mamma di fretta, portandosi dietro una nuvoletta di profumo buono “Ciao, io vado al lavoro e torno più tardi. Mi raccomando, non combinare guai e fai la merenda. E togliti quelle scarpe nuove, le abbiamo comprate sabato e già sembrano vecchie e stanche a furia di correre! Poverine!”

Intanto le ore passano lente come tartarughe, i cartoni sono noiosi, gli occhietti si chiudono, ma i piedini di Chiara come al solito battono la loro cantilena, impazienti…tap tap tap…tap tap tap
“Ehi, ragazzina, noi ci siamo stufate!!”
“Chi ha parlato?” – chiede Chiara, sobbalzando, i piccoli pugni sui fianchi, il naso arricciato come a sentire puzza di bruciato
“Noi abbiamo parlato! Ci siamo stufate di pigiare in terra tutto il santo giorno! Vogliamo fare sciopero!”
Chiara si guarda le scarpe con gli occhioni sgranati e si arruffa i capelli con la mano, mentre vede sbigottita che si slacciano da sole, si divincolano dai suoi piedini e partono in marcia dirette verso la porta.
“Dove andate? Fermatevi, non vi ho mica dato il permesso!”
“Non ci importa niente del tuo permesso! Pestare tutto il giorno in terra ci fa venire il mal di testa, abbiamo bisogno di riposare!”. Chiara, che di solito ha sempre la battuta pronta, questa volta apre la bocca e poi la richiude come il piccolo pesce rosso che nuota nel suo acquario. Non si è mai sentito che un paio di scarpe da tennis nuove nuove se la svignano da sole e lasciano a piedi la sbigottita proprietaria. “Ma la mia mamma vi ha comprato al negozio, non potete andare via!” – grida, rincorrendo quella coppia di scarpe birichine che sta già prendendo la via del giardino.

“La mia mamma vi ha comprato al negozio, la mia mamma vi ha comprato al negozio…” ripetono le scarpine in coro come una cantilena, mentre ondeggiano tra l’erba vezzose, il vento che scompiglia i lacci rosa ormai sciolti e liberi dai nodi. Una si crede la più bella perché ha una fila di strass luccicanti sul fianco e cammina un po’ storta sulla parte interna per farli vedere. L’altra è più decisa, trotta con ritmo ed è sempre un passo più avanti, linguetta in alto e punta in fuori. Chiara non vuole lasciarsele scappare, sono le sue scarpe preferite! Stanno bene con i suoi jeans e con la maglietta rosa fucsia “Dove andate così di corsa? Fuori fa freddo, non vorrete buscarvi un malanno!”
“Siamo fatte di pelle imbottita, mica storie. – risponde stizzita la più vanitosa
“Impermeabili al freddo e alla pioggia, siamo praticamente eterne.” – aggiunge l’altra, che ci tiene a dimostrare il suo valore. Chiara ha già preso sciarpa e giubbino ed è volata via fuori dalla porta d’ingresso, i piedini ora coperti solo da un paio di calzini a righe “Aspettatemi, aspettatemi! Vengo con voi!!”
Chi, passando di lì per caso, provasse ad aguzzare la vista, spalancherebbe gli occhi vedendo lo strano terzetto procedere a ritmo sostenuto: una scarpa rosa fucsia che sembra danzare sulla punta, la linguetta dritta quasi fosse il telescopio di un sottomarino; un po’ più dietro, un’altra scarpa uguale, ma luccicante di strass ad ogni passo, appoggiata di sbieco a mostrare la suola morbida, di gomma. Un punto interrogativo al posto della faccia, ecco Chiara, pallida e scalza, che se la vede la mamma passerà le feste di Natale con un cuscino appoggiato sul sedere. “Cosa devo fare per farvi tornare a casa? – piagnucola, tirando su col naso per commuovere le scarpe fedifraghe – vi prometto che vi luciderò ogni giorno e non vi sporcherò più con la terra del giardino…”

Intanto per la strada si vedono altre paia di scarpe che avanzano come piccole guerriere: scarpe coi tacchi, che esibiscono un cartello con su scritto “ABBASSO I COLLANT!”, scarponi da neve che gridano “Vogliamo andare in settimana bianca!”, ballerine che chiedono la pensione anticipata, stivali con la gobba e persino pantofole annoiate. Le vezzose scarpine rosa si sono già unite al corteo e Chiara sente che chiacchierano con le compagne “Eh no, non si può continuare a lavorare senza una vacanza. Tutto il santo giorno a piegarci, allungare, correre, saltare, cadere, pestare! E qual è la nostra ricompensa? Un paio di calzini puzzolenti, il grasso della bicicletta e i morsi di un cane. Noi meritiamo più rispetto, i piedi faranno a meno di noi!” Ora tutte le scarpe avevano riempito la piazza e agitando i cartelli gridavano insieme “Piedi nudi, mezze calzette! Piedi nudi, mezze calzette!”

Chiara apre gli occhi di soprassalto, il cuore che le batte forte. È ancora seduta per terra, il telecomando in mano. Un po’ stordita gira intorno lo sguardo e vede il suo salotto con il tavolo, il televisore acceso, il tappeto e il divano alle sue spalle. “È stato solo un sogno” – dice a se stessa, grattandosi la testa confusa, ma poi guarda i suoi piedini che si stirano uno a uno, dall’alluce al mignolino, pronti per una nuova avventura…coperti solo dai calzini a righe.

 
 
 

L'incantesimo della strega Margot

Post n°4 pubblicato il 05 Ottobre 2006 da biondaefelide
 
Foto di biondaefelide

C’era una volta, e c’era, perché mia nonna l’ha visto e me l’ha raccontato, un regno lontano lontano. Il principe di questo regno amava moltissimo cavalcare e un bel giorno sellò il suo cavallo, salì in groppa e partì al galoppo di gran carriera fuori dalle mura del castello. Galoppa che ti galoppa, trotta che ti trotta, il tempo era passato, il fiume pure, e il principe col suo destriero si ritrovò nel bosco che il sole era al tramonto e la strada era persa. “Ohimé – si lamentava – non conosco questo luogo, dove mai sono finito?”
Quando ormai il sole era svanito e le tenebre avvolsero la terra, il principe di quel regno lontano udì un suono, prima leggero leggero, quasi un soffio, poi sempre più distinto, più chiaro alle sue orecchie, una musica, un canto. Avvicinandosi pian piano, vide una bellissima fanciulla dai capelli rossi lunghissimi che si sapeva dove cominciavano e non si sapeva dove finivano. Sedeva su uno scalino in pietra di fronte ad una casina che si trovava proprio lì, in mezzo alla foresta. Il principe, stupito e affascinato, si fermò ad ascoltare e quando la canzone terminò, si schiarì la voce e le rivolse gentilmente la parola: “Scusate, damigella, se interrompo il vostro canto, ma mi sono perduto e ora non ritrovo più la strada per il mio regno. Mi affido al vostro buon cuore per avere indicazioni e passare la notte.”

Mentre il principe parlava la fanciulla non aveva battuto ciglio, non un’espressione di stupore aveva attraversato il suo bel viso, come se sapesse ogni cosa e fosse stata lì seduta ad aspettarlo per tutto il tempo. Sorrise e gli parlò così: “Sei giunto sulla mia strada non a caso, o bel principe, poiché Margot conosce tutti i sentieri della buona e della cattiva sorte. Io ti aiuterò a ritrovare la strada, ma tu in cambio fammi dono della tua presenza e vedrai che non te ne pentirai”– così disse la strega Margot e, offrendo la mano al principe, lo condusse nella sua dimora. Ora, accadde che il principe s’innamorò della bella fattucchiera e restò con lei per tre giorni, ma il quarto giorno si ricordò del suo regno, della sua famiglia, che certamente sarebbe stata in ansia non vedendolo tornare, ed ebbe nostalgia della sua vita al palazzo. Quando lo disse alla strega, questa acconsentì alla sua partenza, anche se le dispiaceva vederlo andar via.
“Non temere, Margot – le disse il principe, vedendo la sua tristezza – torno a casa perché ho nostalgia dei miei cari, ma ti prometto che fra tre giorni ritornerò da te e chiederò la tua mano.” A queste parole lei provò qualcosa che assomiglia alla felicità, lo abbracciò, e con un gesto della mano chiamò a sé gli Spiriti del Tempo e dello Spazio perché riportassero in un lampo il principe al suo castello.

Così accadde ed egli, spronando il cavallo al galoppo, entrò trionfante nella reggia, mentre i servi, gli stallieri, il re e la regina e tutta la corte, dopo giorni di pene e di lunghe e faticose ricerche, lo ricoprirono di ogni genere di onori: fu preparata una grande festa per tutto il regno con canti, balli e litri di buon vino che scorrevano nei calici come torrenti in piena. I sollazzi e i bagordi durarono tre giorni e tre notti, il quarto giorno il principe aveva già dimenticato Margot e la sua promessa e, come se niente fosse, riprese la vita di sempre.
L’amore gioca brutti scherzi, ben lo sapeva la strega Margot, che con le sue pozioni aveva curato tanti cuori infranti e con i suoi incantesimi aveva restituito o tolto per sempre ogni speranza. Qualcosa di simile ad un velo aveva ricoperto il suo giudizio ed oscurato la sua magia, qualcosa che neanche il suo potere di strega aveva saputo prevedere: si era innamorata e la sua voce aveva vibrato più dolce tra gli alberi e i sentieri della foresta; ma ora quel canto si era spezzato. Attese molti giorni e molte notti che il principe tornasse, dapprima con la speranza del sorriso, poi con la tristezza delle lacrime, infine con la potenza della collera. Si recò, dunque, nella foresta e, chiamata a testimone la luna, pronunciò le parole magiche dell’Incantesimo dei Cuori Traditi, che diceva pressappoco così: “O Spiriti del Tempo e dello Spazio, poiché mi prestate ascolto, Vi ringrazio. Conducetemi il suo animo perso nel sonno, affinché gli possa parlare e con questo incantesimo il suo cuore legare.”
Quando sentì che il respiro del principe era giunto sotto forma di alito di vento, disse la formula magica: “Non che alcuna ti giunga vicino, ma che ognuna abbia vita di stella: tre notti per brillar sulla tua mano, tre giorni per andarsene lontano.”

Non appena furono pronunciate queste parole la luna si oscurò, gli alberi si piegarono fino a terra per il forte vento e i lunghissimi capelli della strega si sollevarono e la circondarono finché non scomparve. Il povero principe non si accorse di nulla, ma il suo cuore era ormai perduto nelle maglie dell’incantesimo della strega Margot: se una fanciulla si invaghiva di lui, lo dimenticava allo scoccare della mezzanotte del terzo giorno. Il re e la regina erano assai preoccupati: molte erano le dame e le principesse che avrebbero voluto sposare il loro primogenito, ma com’è come non è, nessuna si tratteneva a palazzo per più di tre giorni, mentre il principe diveniva ogni giorno più triste e più solo.
Un giorno passò di lì una vecchia indovina, che aveva girato tutto il mondo da nord a sud e da est a ovest sulla groppa del suo asinello, e chiese al re ospitalità per quella notte; egli le accordò un giaciglio nella stalla insieme ai cavalli. Ora, dovete sapere che l’asinello dell’indovina era fatato e possedeva il dono di parlare anche la lingua degli umani; fu così che quella notte, chiacchierando del più e del meno col cavallo del principe, venne a sapere della disgrazia del giovane, di come nessuna fanciulla riuscisse ad innamorarsi di lui e di come ciascuna lo abbandonasse allo scoccare della mezzanotte del terzo giorno. L’indomani l’asino raccontò tutto alla sua padrona, la quale pensò bene di rendere un buon servizio al re; si recò, dunque, alla reggia, chiedendo di poter parlare da sola con il principe. Venne così a sapere del suo incontro con la strega Margot e comprese che a legare il cuore del giovane altro non era che l’Incantesimo dei Cuori Traditi.
“Tu hai commesso un grande errore – gli disse in tono grave – hai violato una promessa e per questo sei stato punito, ma io, che sono un’indovina e ho girato tutto il mondo, conosco il modo per rompere l’incantesimo.”

Il principe comprese il male che aveva commesso e fece tutto come gli indicò la vecchia saggia: il mattino dopo partì dal palazzo prima dell’alba, con solo un sacco di vivande, un mantello e una spada e si incamminò per il bosco senza sapere né che fare né che pensare.
Cammina che ti cammina si era fatto giorno e il principe, stanco di vagare senza mèta, cercò riparo dal sole sotto un albero alto e frondoso, ma non appena ebbe posato in terra il mantello e la spada, ecco arrivare da non si sa dove una ferocissima dragonessa in cerca di cibo. Il principe non fece neanche in tempo a dire A, che già si trovava nelle zampe della terribile bestia; stava dicendo addio alla sua vita terrena, quando, com’é come non é, gli venne un’idea: “Ti prometto – le disse – che avrai di che sfamarti abbondantemente se mi risparmi la vita.”– e, così dicendo le gettò il grosso sacco pieno di vivande che aveva portato per il suo lungo viaggio. La dragonessa vide che la promessa era stata mantenuta e subito scomparve. Il principe, rinfrancato, riprese il suo cammino, ma presto cominciò a piovere; aveva appena preso il suo mantello per coprirsi, quando una gigantesca ranocchia con tutto il suo seguito gli sbarrò la strada impedendogli di proseguire. “Se mi lasci passare – le disse il principe – ti prometto che avrai un riparo per te e per tutta la tua famiglia.”– e così dicendo le fece dono del suo mantello; la ranocchia vide che la promessa era stata mantenuta e così scomparve.
Il principe aveva percorso molta strada ed era ormai tutto bagnato e molto affamato; si era appena sdraiato sull’erba quando sentì un sibilo vicino alle sue orecchie, si alzò e vide una lunga serpe che gli si avvicinava strisciando. Subito sguainò la spada e alzò il braccio per colpirla, poi se ne pentì e, gettando via l’arma, disse alla serpe: “Ti prometto di risparmiarti la vita se striscerai lontano da me.” Ma la serpe non se ne andò e, raccolte le sue lunghe spire, si trasformò in una bellissima fanciulla di fronte agli occhi meravigliati del principe, che subito se ne innamorò.
Come avrete capito anche questa volta la promessa era stata mantenuta, l’incantesimo si era ormai spezzato e i due giovani poterono ritornare alla reggia e vivere per sempre felici e contenti. Il re, fuori di sé dalla gioia, ricompensò generosamente l’indovina, la quale fu invitata a restare per sempre a palazzo con il suo asinello fatato.

E la strega Margot? Mia nonna racconta che ben presto dimenticò il principe, anzi, molti altri bei giovani si innamorarono di lei e chissà che uno non riesca a conquistarla!

 
 
 
 

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