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Quotidianamente...

Vita di ufficio... ma quella è un'altra storia...

 

 

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Post n°504 pubblicato il 25 Aprile 2009 da quotidiana_mente
 










Un giornale portoghese, per qualche settimana, chiedeva che fosse spedito materiale, sotto forma di fotografie, racconti o poesie, sulla Rivoluzione dei Garofani che quest’anno festeggerà i suoi 35 anni. Ogni anno, da quando ho questo spazio, dedico un post a tale data. In questi giorni, ho fatto un viaggio nel passato, seppure recente, e dopo il primo post, il primo relativo al 25 aprile, non ho più scritto niente, oltre a dedicare la solita canzone e qualche immagine. Mi sarebbe piaciuto partecipare all’iniziativa del giornale portoghese, ma mi sono accorta che i miei ricordi sono tutti legati a quel post. Potrei raccontare altro, avvenuto prima o dopo, ma mi dispiace che tutti i miei ricordi legati a una data così importante siano racchiusi in così poche righe.

Ricordo, invece, l’anno in cui si diceva che un cugino di mio padre dormiva con il fucile sotto il letto.

Quell’anno, la rivoluzione compiva il suo primo anno di vita. Era la prima volta che tornavamo nel nostro paese natale ed eravamo ospiti di tale cugino. La sua casa era piuttosto piccola ma il terreno intorno era infinito. Era uno sterminato pezzo di terra in cui cresceva ogni bene di Dio, almeno secondo me. C’erano peschi, peri, meli, vigneti, e persino uno spazio dedicato al tiro al piattello. Quel terreno era per il paradiso in terra, non mancando nemmeno i cespugli di rovi dove andare a cogliere le more. Potevamo girare ovunque, e l’unica attenzione che ci era richiesta era alle vipere, incontro che non è mai avvenuto. Un altro ammonimento era di non entrare mai nella stanza del cugino. La quale, però, non era mai chiusa a chiave.

Il cugino era uno scapolo, un "zitellone" incallito, secondo le voci. Si diceva che fosse ricco, forse il più ricco di tutto il villaggio e che sotto il suo letto oltre al fucile ci fosse anche una valigia piena di soldi. Si diceva anche che fosse molto geloso e che non permetteva alla fidanzata, che viveva a Porto, di uscire di casa.. Si diceva che fosse molto bella e che il suo amore fosse solo per via dei soldi. Si dicevano tante cose e tutte su quel cugino. Io dicevo ai miei genitori che non mi piaceva molto, perché era burbero, perché sembrava scocciato di averci tra i piedi. Mia madre rispondeva che forse era così ma diceva anche che finché non avremo avuto una casa nostra, dovevamo essergli grati e portare rispetto. Ho passato parte della mia infanzia (e anche della mia adolescenza) a sentire mia madre dire sempre lo stesso ammonimento: “porta rispetto”.

Ogni muro nel villaggio era tappezzato di manifesti politici e di grafiti, ognuno con le proprie parole d’ordine. Non capivamo niente, noi bambini, e un po’ ci divertiva perché ci sembrava di non essere più sotto il controllo degli adulti, impegnati come erano a discutere di presente, di futuro ma soprattutto di passato. Chi ricordava le parole misurate dette sempre con la massima cautela perché anche le pareti avevano le orecchie, chi ricordava i parenti andati via, tutti di notte, per cercare fortuna altrove, perché lì, in quel paese la fortuna non era stata dalla parte del popolo. Perché c’era la fame e c’era anche la paura. Paura di finire in prigione per aver pronunciato parole di critica, per un lamento, per un nonnulla, talvolta solo per ripicca di un vicino rancoroso. Io di tutto questo, ovviamente, non avevo memoria. Ricordavo sì, che mio padre una mattina non c’era più, era andato via, in viaggio, mi aveva risposto mia madre quando avevo chiesto dov’era. Ricordavo ancora il nostro di viaggio, quando mia madre aveva deciso di raggiungere mio padre, in Francia, mesi e mesi dopo. Ricordavo ancora le peripezie durante quel viaggio, perché il “passatore”, la persona che ci doveva accompagnare fino a destinazione, ci aveva abbandonati al confine con la Spagna per via di un mio zio diventato disertore perché aveva deciso di non andare a combattere in Africa, com’era normale in quegli quando si faceva il soldato di leva. Ma tutto mi sembrava già molto lontano. Volevo godermi il momento. Volevo scoprire se era vero, se quel cugino aveva un fucile sotto il letto.

Ascoltando parlare i miei genitori, avevo capito che il cugino aveva paura dei comunisti. Una paura condivisa da molte altre persone. A leggere i manifesti sui muri, a ascoltare gli adulti parlare, sembrava che i comunisti fossero alle porte con le falce tra i denti e i martelli nelle mani. Persino mio padre, socialista da sempre, sosteneva che i comunisti stessero prendendo troppo potere. Continuavo a pensare che l’importante era che, finalmente, si poteva tornare in ferie a casa e che ognuno potesse esprimere il proprio pensiero senza timore. Secondo mia madre, la gente parlava anche troppo.

Quando chiedevo a mia madre se il cugino aveva un fucile, lei risponda di sì, e anche più di uno perché era un cacciatore ma che non dovevo prestare attenzione alle chiacchiere di paese, perché non avevano nessun valore.

Riuscii, senza nessuna fatica, a convincere due dei miei fratelli a mettere a punto un piano. Si doveva fare un sopralluogo per controllare. Secondo loro non era difficile: il cugino era spesso fuori casa per impegni e tornava sempre molto tardi, per via della bellissima fidanzata che, ho scoperto anni dopo, nessuno aveva mai visto. Era vero, lui era spesso fuori casa, ma mia madre no. Lei invece era sempre lì a controllare che non combinassimo guai in casa altrui.

Una mattina abbiamo preso il coraggio a più mani e ci siamo decisi. Il piano rischiava di naufragare perché io non volevo fare il palo, A. non voleva fare il palo e nemmeno D. lo voleva fare. Dall’alto del mio ruolo di sorella maggiore ho deciso che D. avrebbe fatto il palo di fronte alla porta della camera e A. avrebbe controllato dalla finestra i movimenti, io mi sarei infilata sotto il letto a verificare. A. disse che il mio atteggiamento era autoritario e che ormai si era in democrazia, D. sostenne lo stesso, iniziò una discussione infinita su chi avrebbe fatto il palo. La democrazia si stava impantanando. Ricordai di essere la maggiore e dunque decisi che D. avrebbe fatto il palo e che A. avrebbe controllato la finestra. Non ci fu verso. Ormai la democrazia era in moto e nessuno si voleva più piegare agli ordini impartiti dall’alto. Eravamo in piena discussione quando dal corridoio si sentì la voce di S.: avrebbe fatto lui il palo e senza diritto di veto. Così era stato deciso dai “tre” fondatori del piano. A. pretendeva di controllare assieme a me sotto il letto, volevo anche lui vedere un fucile dal “vivo”. Per non perdere tempo, ho accettato senza intavolare un dibattito. Iniziai ad infilare la testa sotto il letto, iniziai ad allungare la mano per capire cos’era quella valigia. Iniziai ad estrarre la valigia quando S. inizio a strepitare dicendo che stava arrivando qualcuno. L’unica via di uscita era la porta e dovevamo sparire prima che quel qualcuno entrasse nel corridoio. Ci siamo precipitati tutti i quattro in bagno, per fortuna attiguo alla camera da letto, ci siamo chiusi dentro e abbiamo smesso di respirare. A. guardava dal buco della serratura: è mamma, disse sussurrando. Siamo rimasti in silenzio per un lasso di tempo che sembrava infinito. Alla fine siamo usciti e lei, mia madre, ci aspettava oltre il corridoio. Ovviamente, aveva capito tutto. Ovviamente, ci ha fatto un discorso sugli obblighi che avevamo nei confronti del nostro ospite, sul fatto che non si doveva entrare nelle stanze altrui e così via.

Non abbiamo mai saputo se c’era un fucile sotto il letto, ma che ci fosse una valigia quello sì, l’avevo visto con i miei occhi, o meglio sentita con la mia mano. Se poi fosse piena di soldi, nemmeno quello abbiamo mai saputo.

Abbiamo saputo, dai miei genitori, che era un possidente terriero per eredità: la sua famiglia era sempre stata molto agiata. La più agiata del paese. Erano anni che era solo. Abbiamo anche saputo che era un lontano cugino di mio padre.

L’estate finì, il Portogallo non fu invaso dai comunisti, il cugino non subì l’esproprio della sua immensa proprietà (quinta, come si dice in portoghese) ma l’anno successivo abbiamo avuto un’altra sorpresa: parte della casa che consideravamo, ormai, “nostra” era occupata da uno zio, una zia, due cugini e una cugina. Erano appena sbarcati dall’Angola, scappati da una guerra civile che aveva visto i miei due cugini combattere su fronti opposti. Scappati da un paese che lottava per la sua indipendenza. Zii e cugini di cui io apprendevo l’esistenza proprio quell’estate. Lo stesso anno avrei saputo che il marito di una mia zia, sorella minore di mia madre, era stato nella PIDE, polizia portoghese, nella sezione più temuta per la sua violenza e considerata "segreta".

La rivoluzione era giovane, ma sulle sue spalle gravava il peso del passato personale di ognuno: solo in quei momenti ci si accorse dei microcosmi umani che mai conosciuti prima, diventavano parte di noi.






 
 
 
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