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L’INDUSTRIA DELLA DISTILLAZIONE A SAN CESARIO DI LECCE E IL COSTITUENDO MUSEO DELL’ALCOL Antonio Monte*, Andrea Romano**, Lorena Sambati* * AIPAI – Sezione Regionale per la Puglia **Assessore del Comune di San Cesario di Lecce La storia della distillazione a San Cesario di Lecce ha inizio con Carmine De Bonis, proprietario di un mulino a vapore ubicato in via Umberto I; probabilmente comprese la buona opportunità che poteva sfruttare affiancando la distillazione alla sua attività principale. La sua scelta fu di certo quella di investire nella nuova attività che aveva avviato non tanto potenziandola quanto insegnando la tecnica della distillazione ai suoi parenti più stretti. Lavorarono con lui Vito De Giorgi con il figlio Nicola, Pietro Pistilli, e i nipoti Carmelo, Francesco e Luigi. Vito aveva sposato una figlia di Carmine, Addolorata; Pietro la figlia Marianna. Vito e Nicola De Giorgi nei primi anni del Novecento acquistarono dei terreni e un immobile in via V. Emanuele III, dove poi tra il 1917 e il 1920 crearono un vero e proprio stabilimento industriale. Le prime distillerie di San Cesario erano di modeste dimensioni, probabilmente dotate di un semplice alambicco. Nel 1910 erano quattro: quella gestita insieme da Carmine De Bonis e da Pietro Pistilli, quella di Nicola De Giorgi e quella di Luigi Laudisa, in via Inshaò. Pietro Pistilli, divenuto proprietario sia del mulino che della distilleria del suocero nel 1912, prova anche ad investire nella vinificazione; così anche Nicola De Giorgi. Solo negli anni Venti, forse dopo che i parenti di De Bonis avevano acquisito una certa esperienza nel settore e magari avevano anche guadagnato sufficientemente con l’attività non sempre condotta in modo legale Alambicco della distilleria De Giorgi (pratica diffusa era il contrabbando di alcol), decidono di investire trasformando le loro distillerie in veri e propri stabilimenti industriali. Pietro Pistilli chiude il mulino e lo stabilimento vinicolo e investe esclusivamente nella distillazione. Così anche Nicola De Giorgi. Da distillatori diventano industriali. Mentre l’attività distillatoria dei fratelli De Bonis cessava verso la fine degli anni Venti, anche a causa di un incidente che causò la morte di Luigi, ed anche la distilleria Laudisa restò un’attività quasi artigianale (produceva alcol grezzo con alambicco), Riccardo Pistilli, figlio di Pietro, realizzava il terzo stabilimento industriale di San Cesario. Tra il 1940 e il 1950 i tre industriali investono ulteriormente nella loro attività ampliando i loro stabilimenti e dotandoli di impianti dalla maggiore produttività. Carmelo Pistilli si specializza nella produzione sia di alcol che di cognac, seguendo quello che già era stata la scelta del padre Pietro; Nicola De Giorgi preferisce specializzarsi nella produzione di alcol grezzo, di tartrato di calcio, liquori e persino profumi; Riccardo Pistilli punta esclusivamente nella produzione di alcol da vendere all’ingrosso ad aziende siciliane, milanesi e campane. La “Ditta Nicola De Giorni” è stata presente sui mercati per circa novant’anni ed i suoi prodotti erano noti a livello nazionale ed internazionale. Il liquore che più la rese famosa fu l’“Anisetta” già prodotta sin dal 1919, tanto che nel 1920 il re Vittorio Emanuele III concesse alla Ditta De Giorgi il Brevetto della Real Casa (20 luglio 1920). Nicola De Giorgi possedeva altre due grandi distillerie: una a San Pietro Vernotico (costruita nel 1936 e demolita nel 1984), e una a Squinzano (costruita tra il 1938 e il 1940 e in parte demolita nel 1971 circa) Manifesto pubblicitario dell’Anisetta Etichetta dell’Anisetta Negli anni Sessanta fallisce la distilleria di Carmelo Pistilli, che probabilmente non riesce a recuperare i tanti investimenti effettuati negli anni precedenti, e fu acquistata e gestita da Mario Cappello, proveniente da una famiglia di liquoristi. La Ditta Cappello inizia la sua attività, come liquorificio, nel 1949 con lo stabilimento ubicato a Lecce. Nel 1963, Mario Cappello insieme al figlio Antonio, costruì l'attuale opificio a San Cesario (strada statale LecceGalatina) dove trasferì tutta la produzione di liquori. Tra il 1968 e il 1969 acquistò la distilleria di Carmelo Pistilli; essa produsse alcol, per il liquorificio, sino al 1982 anno in cui i Cappello fecero smontare l'impianto di distillazione e lo trasferirono nell'attuale stabilimento che era già stato ampliato nel 1980. A partire dal 1982 sino al 1994, all’attività produttiva di liquorificio 1 Antonio Monte, di Cultura Salentina “lu Lampiune”, n°2 agosto, Lecce 1999, pp.8393; Idem, S distillazione a San Cesario di Lecce Antonio Monte, Anna Maria Stagira (a cura), Piero Manni Editore, 2003; Antonio Monte, Lorena Sambati, Convegno “Il patrimonio industriale della Puglia. Ricerche, progetti e realizzazioni”, Lecce 1112 marzo 2004 (in corso di stampa). venne affiancata anche quella di distillazione. Cessata l’attività di produzioni di alcol, Antonio Cappello continua quella di liquore; attualmente la Ditta mette sul mercato nazionale numerose qualità di prodotti. Tra i più noti citiamo l’anice, la sambuca, un liquore alla menta, al caffè, un fernet, un liquore d’oro, uno delle antille, il limoncino, uno cherry brandy, un amaro barocco, un vermouth rosso, ed altri Riccardo Pistilli si distingue per la sua figura di industriale e per il suo ambizioso sogno, realizzato solo in parte, di realizzare un complesso industriale, costituito dalla distilleria, dallo stabilimento vinicolo e da un oleificio (non realizzato) che creassero un circuito virtuoso che permettesse di rendere la distilleria autonoma da forniture esterne di materia prima, sfruttando esclusivamente scarti e prodotti degli altri due processi produttivi. Parallelamente alla distillazione e in rapporto con essa in San Cesario nascono numerosi liquorifici. Carmelo De Bonis aprirà negli anni Quaranta il suo stabilimento in via Ferrovia, dopo aver esercitato la sua attività in altre sedi. Roberto Vergallo sarà uno dei più noti liquoristi del paese (liquorificio in via IV Novembre). Etichetta dell’Anice prodotta dal liquorificio Cappello Anche Nicola De Giorgi e poi il figlio Arturo si specializzeranno nella produzione di liquori. Il fallimento della distilleria di Riccardo e del figlio Pierino Pistilli risale al 1980, probabilmente a causa di mancati pagamenti di commesse. Lo stabilimento De Giorgi è invece rimasto attivo fino al 1999. Le distillerie di San Cesario erano di certo di piccole dimensioni ma costituiscono un fenomeno originale e dinamico di industrializzazione in un piccolo comune. Per certi versi si può parlare di piccola imprenditoria esclusivamente legata ad una famiglia allargata che sceglie questo settore d’investimento e che riesce però a conquistare un mercato nazionale. La Distilleria Nicola De Giorgi e il costituendo Museo dell’alcol Nicola De Giorgi svolse i primissimi anni di attività in un piccolo locale nella piazza di San Cesario; nel 1906, si trasferì nell’edificio di via Vittorio Emanuele III costruito nella seconda metà dell’Ottocento, che viene considerato il primo nucleo della distilleria. Nel 1915, De Giorgi acquistò un immobile attiguo alla distilleria; egli aveva già comprato parte del terreno circostante nel 1913 e probabilmente questi acquisti furono determinati dall’esigenza di trasformare la piccola distilleria in un vero e proprio opificio industriale, più funzionale e consono a rispondere all’incremento della domanda di mercato. Lo stabilimento venne ampliato su progetto di Giovanbattista Forcignanò, ed i lavori che diedero vita alla nuova distilleria si conclusero tra il 1919 e il 1920. Grazie a questi interventi ed all’acquisto di altro terreno negli anni seguenti, l’opificio si presentava come un’importante struttura compresa tra via Vittorio Emanuele III e via Ferrovia, arrivando ad occupare l’intero isolato. 2 Proprio la vicinanza alla ferrovia fu un ulteriore vantaggio per il trasporto dei fusti di alcol i quali potevano essere fatti rotolare sino al vagone merci, rendendo così più agevole e veloce il trasporto sia della materia prima che dei prodotti finiti. A partire dalla metà degli anni Quaranta e sino ai primi anni Cinquanta, furono realizzati importanti ampliamenti predisposto il nuovo reparto per la lavorazione delle fecce e quindi acquistato un altro apparecchio per la distillazione; Foto d’epoca della distilleria De Giorgi vennero costruiti la falegnameria, l’officina di manutenzione, il reparto di fermentazione, la sala per la caldaia a vapore, la sala denaturazione e, infine, fu sopraelevata la torre di distillazione. Dopo questi ampliamenti e modifiche, il complesso industriale aveva già assunto l’aspetto che presenta ancora oggi. Esso era distribuito in due zone: una destinata ad abitazione, uffici ed altre attività dello stabilimento, l’altra alle numerose fasi del processo di produzione dell’alcol e alle varie attività di manutenzione di tutti gli impianti. Foto d’epoca dell’interno della distilleria De Giorgi 3 Tali ampliamenti avvenivano conseguentemente alle integrazioni di nuovi impianti: Il primo apparecchio di distillazione, tipo Egrot, fu integrato con una colonna verticale tipo Giannazza – Egrot, per la distillazione del vino e vinello. Il 10 ottobre 1968 moriva Nicola De Giorgi e lo stabilimento venne ereditato dal figlio Arturo che lo trasformò in “Arturo De Giorgi & s.a.s.”. Questi, nel 1971, progettò l’ampliamento dell’azienda, con il fine di produrre alcol per il consumo proprio e per venderlo a terzi. Infatti, l’anno successivo fu acquistato un nuovo impianto per la distillazione delle vinacce; inoltre furono necessarie opere di ristrutturazione sia per adeguare lo stabilimento alle norme per la depurazione delle acque di scarico industriale, sia per la necessità di ammodernare gli impianti. La distilleria De Giorgi distillò fino al 1987. L’opificio è ubicato su via Vittorio Emanuele III e su via Ferrovia; il prospetto principale presenta una sobria facciata di gusto eclettico, mentre l’ingresso posteriore, direttamente collegato con la linea ferrata esibisce una facciata con due grandi aperture (di cui una murata) con archi a sesto ribassato, che richiamano quelli presenti sul prospetto principale. Il complesso industriale è diviso in due parti: una destinata ad abitazione e ad attività specifiche dello stabilimento, quale era la fabbrica di liquori, l’altra invece destinata alle numerose fasi della produzione La prima zona è divisa su due livelli: al primo piano, attualmente vi è l’abitazione del proprietario, mentre, al piano terra troviamo, sul lato sinistro gli uffici e la segreteria; sul lato destro, separati da un androne, era ubicata la fabbrica di liquori, le sale per l’imbottigliamento, per l’esposizione e la vendita dei prodotti. Dopo aver varcato l’androne d’ingresso, il cortile ed un passaggio coperto, si accede alla seconda parte Prospetto principale della distilleria destinata alle varie funzioni della distilleria; si scorgono infatti, l’imponente torre di distillazione e l’alta ciminiera (25 metri circa) della caldaia a vapore. Vi sono inoltre, numerosi vani dove sono ubicate: la macchina per la depurazione dell’acqua, la caldaia a vapore, le colonne per la demineralizzazione dell’acqua, il nastro trasportatore, i silos per la conservazione delle materie prime, ventiquattro vasche per i vari lavaggi, la falegnameria per la costruzione delle botti, l’officina di manutenzione, i magazzini fiduciari. All’interno della torre di distillazione, a pianta quadrata, vi è ancora montato l’impianto che distillava le vinacce, costituito da quattro colonne verticali, i cui piani intermedi sono raggiungibili con delle scale in ferro. L’imponente torre presenta due livelli, separati da una fascia marcapiano rettilinea, con alcune aperture e un coronamento con beccatelli e feritoie di forma rettangolare che servivano per l’aerazione del vano distilleria. Tutti i corpi di fabbrica della seconda zona si articolano attorno ad un ampio Impianto di distillazione all’interno della distilleria 4 La distilleria De Giorgi è stata studiata anche dal punto di vista del ciclo produttivo e della sua dotazione di impianti e macchine nell’ambito di questa esperienza di stage dalla dr.ssa Anna Maria Stagira. spazio e sono delimitati, sul lato nord ovest da un giardino che originariamente era piantumato con alberi ed essenze pregiate, ora purtroppo non più esistenti. Tutti i fabbricati sono stati costruiti con materiali e tecniche costruttive di tipo tradizionale: la pietra locale, cioè il tufo e la pietra leccese, sono state utilizzate sia per le strutture verticali che per le volte (sia del tipo “a spigolo” che del tipo “a squadro”); per le coperture dei capannoni invece troviamo anche soluzioni con capriate in legno, capriate in ferro, e i più recenti solai laterocementizi. Lo stato di conservazione di tutto il complesso, che attualmente è in stato di abbandono, è discreto, poiché se si eccettuano le coperture dei capannoni, che presentano gli ovvi problemi di degrado connesse alle caratteristiche dei materiali stessi, quali il legno ed il ferro, il resto dei fabbricati non presenta problemi strutturali, ma soltanto uno stato di degrado diffuso dovuto all’abbandono. L’idea della creazione di un Museo dell’alcol a San Cesario di Lecce rappresenta un punto di arrivo di un lavoro di ricerca per la conoscenza, la catalogazione e la valorizzazione del patrimonio industriale avviato dal Comune di San Cesario; il Museo dell’alcol è una delle tappe di un percorso più ampio che ha l’obiettivo di sensibilizzare il territorio in tema di archeologia industriale e valorizzarlo nel pieno rispetto della sua identità storica, economica e sociale, ossia dal rapporto tra la fabbrica ed il contesto socioterritoriale, dalla conoscenza delle situazioni che hanno sotteso all’insediamento industriale. Il tema del recupero e del riuso di un sito industriale, qual’è il De Giorgi, va affrontato Pianta dello stabilimento con la distribuzione degli ambienti quindi prendendo in considerazione i fenomeni relativi alla diffusione delle innovazioni produttive industriali, il loro impatto sul sociale, la conoscenza del bene, così da conseguirne l’inserimento nel patrimonio culturale, salvaguardarlo nei suoi elementi più significativi e riutilizzarlo a fini museali, turistici e culturali. Una tappa importante e significativa della storia economica e sociale di San Cesario è rappresentata dall’industria della distillazione: essa è stata un elemento condizionante la vita materiale e culturale della piccola comunità salentina; non si può perciò pensare ad una storia ed un museo per la città senza offrire idonei strumenti per lo studio e la conoscenza della storia dell’industria della distillazione e dei rapporti che l’hanno legata allo sviluppo economico e sociale della città. Il Museo dell’alcol, oltre a ricostruire un pezzo di storia della città e a rappresentare il mondo complesso e variegato che stava dietro la produzione dell’alcol, vuole ora promuovere il rinnovamento culturale necessario per ridare significato al luogo del lavoro, convertendolo da luogo di produzione di beni materiali a luogo di produzione culturale. Prospetto principale della distilleria; disegno di rilievo Il moderno concetto di centro culturale che unisce la struttura espositiva ai laboratori didattici e di formazione come funzioni complementari, permette infatti di creare organismi volti alla conoscenza e alla conservazione del passato, ed al tempo stesso, alla diffusione della cultura contemporanea. Il progetto per la realizzazione del Museo prevede il mantenimento dell’assetto originario di tutti i corpi di fabbrica: la particolare disposizione planimetrica del complesso industriale ha sensibilmente orientato l’organizzazione del percorso espositivo. Lo schema di itinerario del Museo infatti, vuole proporre una lettura sincronica del materiale esposto ma anche del contenitore di archeologia industriale. I vari corpi di fabbrica sono organicamente distribuiti attorno a due “vuoti”: un ampio cortile ed un grande spazio aperto, collegati da un passaggio coperto. Sarà proprio questo l’asse ideale, lungo il quale si susseguono questi “vuoti”, e che realmente collegano i due ingressi alla distilleria, ad organizzare il percorso museale e la distribuzione delle nuove funzioni.L’accesso al complesso museale avverrà sia da via V. Emanuele, che da via Ferrovia, e ciò è dovuto alla destinazione d’uso dei vari edifici, studiata in modo tale da poter distinguere e quindi fruirne, tra aree museali ed aree polivalenti. Più precisamente, dalla via V. Emanuele, attraverso l’androne della vecchia fabbrica si accede al cortile e quindi all’area museale: al piano terra, sul lato sinistro verrà sistemato il boxoffice dell’informazione, la biglietteria, il bookshop per la vendita dei cataloghi e della documentazionemostre, mentre il lato destro, nei locali un tempo adibiti a fabbrica di liquori, ospiterà la sezione espositiva sull’industria della distillazione e sulla distilleria della “Ditta De Giorgi” (mq. 450 circa). Attraverso un passaggio coperto, che diventa quindi elemento di snodo di percorso e funzioni, si raggiunge l’area dove si trova una seconda area espositiva (mq. 500) sistemata in un vecchio capannone con la copertura a capriate di legno, che offrendo uno spazio flessibile ospiterà la sezione espositiva generale sull’industria della distillazione in Puglia e in particolare in Terra d’Otranto (le province di LE, BR e TA) e sulla storia dell’industria a San Cesario di Lecce. Interno della distilleria A questo punto del percorso museale, un grande atrio completamente vetrato (mq. 460), con la copertura in acciaio, dove verranno esposte alcune delle già esistenti macchine, introdurrà l’area polivalente: sul lato destro, la vecchia fabbrica di vermuth, costituita da due capannoni adiacenti di cui uno completamente privo della copertura, e da una parte con volte in muratura, sarà destinata a salaconvegni e sala proiezioni e manifestazioni culturali all’aperto, attrezzate con un punto ristorobar; gli ambienti sul lato sinistro invece, continueranno a conservare il vecchio impianto di distillazione, così come si presenta oggi, perfettamente integro. Questo grande atrio vetrato rimane comunque uno spazio dalla doppia valenza essendo dotato di grande flessibilità tale da consentire un massimo grado di articolazione di allestimenti. Pianta di progetto dell’istituendo museo con la distribuzione dei nuovi ambienti Sezione di progetto dell’istituendo museo Attraversato l’atrio si giunge nel grande cortile, dove in origine si smistavano tutte le attività propriamente produttive: oltre ad essere fortemente segnato dalla presenza dell’elegante torre distillazione (che conserva ancora in modo integro l’impianto in rame) e dalla sontuosa ciminiera, è caratterizzato dalla presenza di un giardino storico; da qui, proseguendo sono sistemati gli spazi assegnati alla sezione didattica ed al Centro di documentazione del patrimonio archeologico industriale pugliese (mq. 1000 circa): in questa sezione è prevista la collocazione di quelle funzioni di carattere didattico e formativo destinate a documentare, anche per via informatica, la storia della produzione industriale dell’alcol, con particolare attenzione riguardo il campo della ricerca e delle innovazioni: aula didattica, centro di documentazione e biblioteca. Infine, i vecchi capannoni un tempo destinati a deposito di vino, saranno adibiti a piccole botteghe per la produzione, l’esposizione e la vendita di artigianato di qualità; scelta questa, che permette di rendere ulteriormente attivo questo grosso complesso industriale ubicato nel cuore dell’abitato. Tutto il complesso sarà ovviamente dotato di tutti i necessari servizi, depositi, e aree a parcheggio, alle quali si accederà direttamente dall’ingresso di via Ferrovia.
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di Luigi Pascali
Mi capita di uscire per le vie di San Cesario a piedi e, confesso, lo faccio di rado… preso nella morsa dell’inspiegabile stupida fretta che ci costringe a girare sempre in macchina e che non ci consente di godere della semplice visione di questo o quell’angolo di strada o portone, o corte, rimasta immutata fin da quando eravamo ragazzini, quando giocavamo a bilie (a palline) o a scoppula contendendoci Mazzola, Rivera, Gigi Riva… (le figurine, si intende!).
Non c’è più quel tabacchino dove si potevano acquistare le nazionali senza filtro sfuse, confezionate in una minuscola bustina di carta velina, fumate seduti sui sassi di pietra viva o conci di tufo, nelle stanze di case in costruzione, che ci facevano sentire “grandi”, forse, di sicuro ci causavano colpi di tosse fino a farci uscire gli occhi dalle orbite.
Non c’è più la Putea te la Nina dove acquistare, con le ultime dieci lire rimaste, le cingomme alla fragola, estremo tentativo di coprire l’odore del fumo da un alito che puntualmente ci tradiva, a casa, facendoci dire la solita, penosa bugia “li amici mei fumanu”, estremo tentativo di sottrarci all’immancabile bbinchiata te mazzate con predicozzo finale te fasce male, magari fatto mentre papà fumava la sua esportazione con filtro, raro trofeo di quando dimenticava il pacchetto sul buffet della cucina, ma solo quando era pieno, “senò se n’accorge”. Eh sì!... ci si divertiva con poco, ma ci si divertiva tanto e davvero!
Uno dei nostri passatempi preferiti erano poi gli scrufulaturi su cui consumavamo non solo i pantaloni ma talvolta anche le natiche, a furia di scivolare su quelle improvvisate giostre che altro non erano che le alette in cemento ai lati della scaletta d’ingresso della Scuola Elementare “Damiano Chiesa” su Via A. Russo, all’ombra dei pini che ancora oggi avvolgono le auto in sosta, su quello che era un grande marciapiede che ci accoglieva pomeriggi interi.
Ginocchia sbucciate, tasche sfondate da mazzi di giocatori tenuti insieme da elastici ricavati da una vecchia camera d’aria, divoravamo ore e ore di giochi semplici e spensierati, scrufulando su quegli scivoli levigati da noi stessi, dalle nostre chiappe passate e ripassate su quel metro di lastra di cemento “in discesa”.
All’imbrunire, quasi buio, comparivano all’angolo, stagliate dai lampioni, le figure di questa o quella mamma, mani ai fianchi minacciose, che si limitavano a urlare “Ha rriatu sirda!” e all’improvviso un brulicare di ragazzini che si affrettavano a rientrare.
Mi ritrovavo solo, a trascinare le scarpe consumate sulle punte, a pensare se dire, una volta a casa, “Allu catechisimu, su’ statu!” oppure “M’aggiu fatti li compiti a casa a n’amicu!”.
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di Luigi Pascali
Abbiamo appena “archiviato” l’ultima edizione della festa di San Giseppu te la stiddhra e a parte il personale compiacimento per le condizioni atmosferiche, che ci hanno consentito finalmente di godere pienamente della tradizionale festa, dopo diverse edizioni con freddo, pioggia e vento, non posso nascondere un pizzico di disappunto.
Non per la festa, ovviamente, che ritengo perfettamente riuscita, ma per l’approccio che noi tutti ormai abbiamo nei confronti di una tradizione antica che non sentiamo più nostra, finiti come siamo nella tramoggia del “progresso”, in virtù del quale tutto ci scivola addosso, senza lasciare più segno alcuno.
E allora appaiono lontanissimi i tempi in cui la Fera te la stiddhra segnava inequivocabilmente il passaggio dall’inverno alla bella stagione, e gli acquisti in occasione te la fèra ne scandivano il tempo, poichè l’assenza assoluta di supermercati ne faceva occasione rara di poter trovare, senza spostarsi dal proprio paese (con il biròcciu, lu sciarabbà o la trainella), arnesi e stoviglie che si sarebbero utilizzati di lì a poco: scale a pioli, sitèlle e farnàri, secchi, vaschette e menze di latta zincata, zappe, rastrelli, sarchiùddhre e ratapièlli, tricacarne a manovella (la carne per le polpette si macinava in casa) e la fatidica machinetta pe’ li prummitòri. E ancora animali, dalla puddhràscia alla sciumènta, per rimpinguare o rinnovare il cortile o la stalla.
Un capitolo a parte meritano le famose còtume di terracotta, poichè ancora oggi resistono e insistono in tutti i mercati, anzi, sono assurte al rango di “oggettistica” tanto da divenire delle vere e proprie “opere d’arte ceramica”.
Tra queste, spicca nella tradizione de La Stiddhra il campanellino te crita. Ma non tutti sanno che anticamente, i giovanotti usavano regalare uno di questi campanelli alla ragazza che intendevano corteggiare, chiedendole “sona buenu, stu campanieddhru? ” se la fanciulla faceva tintinnare il campanellino, rispondendo “si, me piace, sona buenu! ” era quello il segno che era interessata al giovanotto e quindi accettava non solo l’omaggio, ma anche la corte. Se invece non lasciava suonare il campanello, tenendone fermo il piccolo batacchio, e passandolo nelle mani di un’amica rispondendo evasivamente, era il segno inequivocabile che il giovanotto non era di suo gradimento. A questi non restava che sospirare e cercare un’altra damigella a cui far “tintinnare” il campanello.
Anche quest’anno ho comprato uno di questi graziosi campanelli, ma solo per riporlo, insieme agli altri, sulla mensola di casa, poiché alla mia età, ho già “tintinnato” abbastanza.
Ogni tanto, guardo i campanelli, penso agli odierni messaggi sms e sospiro anch’io, ma di nostalgia!
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di Luigi Pascali
Quando imperversa la calùra estiva, uno dei rituali più diffusi si consuma nell’assoluta naturalezza, quasi come fosse un gesto automatico, istintivo (grattarsi il mento, stropicciare gli occhi appena svegli).
Compiamo tutti un gesto a cui non attribuiamo alcuna importanza, come se fosse qualcosa di dovuto: apriamo il frigorifero.
Qualcuno di voi avrà già detto “Meh!? E cce b’ole quistu!” domanda legittima, soprattutto per i più giovani, ai quali appare del tutto scontato aprire il frigo e tracannare qualsiasi cosa di fresco che oggi possiamo trovare in questo comunissimo elettrodomestico, per attenuare l’arsura. Ma chi, come me, ha qualche anno in più, ha già sicuramente cominciato a ricordare il tempo in cui i frigoriferi non esistevano oppure erano rari, e la quasi totalità delle famiglie non ne possedeva. I più fortunati disponevano della famosa ghiacciaia una sorta di mobiletto con cerniere e maniglie pesanti, con chiusura a guarnizioni ermetiche, con tanto di scomparto per il “vano ghiaccio”.
Erano rivestite internamente di lamiera zincata, con saldature a stagno. Vi si poneva mezzo blocco di ghiaccio o uno intero tagliato a metà nelle più grandi, e vi si tenevano gli alimenti e soprattutto le bevande a ‘nfriscu addirittura per alcuni giorni, fino allo scioglimento completo del ghiaccio, che veniva rimpiazzato con blocchi nuovi.
L’acqua veniva raccolta in apposita vaschetta estraibile e veniva periodicamente vuotata, in genere per ‘ndacquare le raste.
I blocchi venivano acquistati nelle frabbeche te lu jacciu. Una di queste, a S. Cesario, si trovava in Via Mazzini, tra la chiesta dei Sacri Cuori e le attuali Sale Parrocchiali. Da bambino mi recavo spesso ad acquistare ’nu quartu te bloccu poiché la nostra ghiacciaia era piccolina, ed il vano-ghiaccio non poteva contenerne di più. Ricordo un frastuono infernale, delle grandi vasche con contenitori metallici e bracci meccanici, tubi in gomma e questi enormi blocchi che venivano scaricati su dei nastri con tubi cilindrici per far scorrere i blocchi e riporli in una specie di cella frigorifera.
L’uomo spezzava sapientemente la misura richiesta, riscuoteva le 20 o 50 lire ed io avvolgevo il mio ghiaccio in un sacco di juta, lo legavo dietro la mia “Graziella” (la bicicletta nuova) e pedalavo di gran lena, per non far sciogliere il ghiaccio sotto il sole, lasciandomi dietro una scia d’acqua che disegnava sull’asfalto l’andatura incerta e scanzonata della pedalata.
A casa, il premio era la rattata te jacciu eseguita con una specie di “pialla” d’alluminio, con un dente in ferro, con la quale mia madre riempiva dei grossi bicchieri, colorandola poi con essenza di menta, amarena oppure orzata. Lei, talvolta, vi versava un poco di caffè rimasto nella giocculatèra, ma non prima di aver riposto il “blocco” nella ghiacciaia e aver messo lu sargeniscu a ‘nfriscu.
Oggi, nelle sagre o feste paesane, rispunta qualche ambulante che offre la famosa rattata te jacciu ma non è nulla di più che una malinconica rievocazione, poiché quelle atmosfere non le potrà più ricreare nessuno.
Allora trovo molto più dolce un bel ricordo di una rattata all’amarena riciclata!
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di Luigi Pascali
Sabato pomeriggio, mentre ero seduto al mio computer, sentivo un allegro vociare di bambini, ragazzi e numerose signore: era quello il segnale che l’estate, nonostante la piacevole coda di bel tempo, è proprio finita; e insieme alle lezioni scolastiche sono riprese in pieno le attività della parrocchia, catechismo in testa.
Affacciandomi al balcone, vedevo che i ragazzi che frequentano la dottrina sono amabilmente accolti da uno stuolo di giovani e belle signorine (le catechiste), che scherzano e ridono con i loro allievi, i quali sono dotati di pubblicazioni ricchissime di immagini, e c’è chi ha portato persino chitarre per intonare canzoni e lodi al Signore: non c’è che dire, è una visione allegra e gioiosa del Cristianesimo.
Quel piacevole frastuono di mamme, bimbi e clacson (ora i bambini si accompagnano in macchina anche dal soggiorno al bagno, parcheggiando in veranda) mi ha riportato indietro di una quarantina d’anni, quando c’erano meno auto e più biciclette (e quella ce l’aveva papà al lavoro), per cui allu catechisimu, alla chiazza si andava rigorosamente a piedi, quasi sempre con le scarpe bucate in punta, poiché si tiravano calci a qualsiasi cosa si incontrasse: sassi, barattoli di latta, ecc.
Le “lezioni” si tenevano direttamente alla “Chiesa ranne” e consistevano nel ripetere fino alla nausea, tutti in coro, le preghiere fondamentali da conoscere a tutti i costi e sulle quali saremmo stati poi interrogati da Papa Carmelu, Papa Menotti, Papa Pippi o addirittura te l’arciprete Papa Ronzu!
Le imparavamo così bene, e all’unisono, che la Salve Regina e l’Atto di dolore sembravano uscire da un’unica voce... e guai a sbagliare! Le “docenti” Mescia ’Nzina, Mescia Teresina e Mescia Cecilia erano severissime!
Tutte e tre in avanti con gli anni, signorine per vocazione, erano le colonne portanti delle attività della Parrocchia, profonde conoscitrici di innumerevoli suppliche in un latino incomprensibile e maccheronico: “te cinfi ciamus remissionemum Crtistu perandumu Cristu Domine nostru amme” (tantu ci lu capìa!) si occupavano anche della nostra catechesi, preparandoci alla prima comunione e alla cresima.
Il ricordo più vivo di donna Cecilia, una donnina piccola, tarchiatella, con capelli bianchissimi raccolti a tarallo dietro la nuca, è il suo modo di indicare di fare silenzio: appuntiva all’inverosimile le labbra rugose, sormontate da una non leggera peluria irta e bianca, su cui poggiava il dito indice, premendo con il polpastrello, reclinando leggermente il capo all’insù, come per sembrare più alta!
Mescia Teresina era un po’ gregaria di sua sorella, Mescia ’Nzina. Entrambe vestite di nero, comprese le calze, molto spesse, anche d’estate.
Il viso incavato nel fazzoletto legato sotto il mento, dal quale spuntavano ciuffi ribelli di capelli bianchi, che incorniciavano occhi incavati ma vispi, come due tizzoni.
Il ricordo più vivo (e più doloroso) sono gli schiaffi ad ogni errore, e le pezzecàte te Mescia ’Nzina quando eravamo irrequieti: “Statte sòtu!”.
Così, tra uno sguardo fulminante e ’na scoddhratùra te ricchie, imparavamo Le cose te Diu!
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