Creato da lascuolaoggi il 17/05/2013

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indiscrezioni di un osservatore

 

 

Liceo scientifico.Mappa concettuale d'esame:per ogni materia il nome di un fiore

Post n°10 pubblicato il 20 Maggio 2013 da lascuolaoggi
 
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Il contributo di Francesca M.

Relativismo e discrezionalità sono le parole più adatte a descrivere ciò che penso di alcune rinomate sezioni del liceo scientifico della mia zona. Per carità, sono una precaria, faccio saltuariamente supplenze per la cattedra di italiano e latino,ma ho anch’io una laurea oltre che un faticoso percorso di dottorato alle spalle, che, come scrivete voi del blog, ho ottenuto “senza calci”, ma anche “senza borsa”. Sono giovane, per cui non ho l’esperienza di una lunga docenza, però ricordo ancora nitidamente il mio personale percorso da liceale e la classe in cui ero. Lo scorso anno mi è capitato un completamento orario in una quinta di liceo scientifico, prossima alla maturità e alle prese con la mappa concettuale da discutere in sede d’esame. Ero di passaggio, sarei rimasta un solo mese, ma ho comunque avuto modo di percepire come è cambiata la scuola superiore ed in poco tempo. Non voglio dire che ci sia un abisso, ma di sicuro sono rimasta stupita dall’idea di competenza, che si ha oggi, anzi che hanno oggi i miei colleghi. Mi vengono presentati gli allievi della classe, tra di essi i vari candidati al cento/centesimi. Sono consapevole del fatto che ad un liceo scientifico la matematica e la fisica rivestano un ruolo egemone nella formulazione dei giudizi degli studenti, malgrado ciò pensavo che italiano, latino e filosofia continuassero ad essere discipline portanti. Gli allievi di cui parlo, i candidati a cento, scrivevano in modo stentato e scarno, non c’era profondità nei loro testi, non avevano assolutamente la capacità di fare riferimento alle altre discipline nelle loro esposizioni orali; la filosofia, che da studentessa mi aveva aperto scenari di riflessione inediti, era studiata come una poesia. Le mie aspettative erano alte, ero in un liceo scientifico, ma quello che mi ha colpita particolarmente era la mappa concettuale della studentessa più brava della classe. I collegamenti non erano strutturati sui contenuti, ma ogni materia era un fiore: matematica-rosa, italiano-giglio etc etc. Ricordo che da liceale feci il medesimo esame, cioè con tutte le materie, però i titoli e la struttura dei nostri lavori partivano dalle contrapposizioni fra filosofi, ricondotte a tutte le materie, oppure da un esperimento di fisica come chiave dei lettura della tesina. I lavori erano corposi,complessi, intrecciati. Avevamo la sensazione di dover discutere una tesi di laurea più che una tesina, e l’estate di quell’anno fu lunghissima. Di sicuro quella studentessa avrà avuto il voto che aspettava come tanti altri della sua classe. A me è rimasto lo stupore.

 

 
 
 

Il temutissimo professor Graziano è temibile?

Post n°9 pubblicato il 20 Maggio 2013 da lascuolaoggi
 
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Graziano è un ricercatore con un notevole curriculum alle spalle. Le discipline di cui si occupa sono considerate complicatissime dagli studenti che, di volta in volta, frequentano il corso di laurea. La sua fama lo precede. E’ considerato una vipera, uno che boccia, uno che insulta, uno che pretende troppo. Dai suoi corsisti esige diligenza, assiduità oltre che conoscenze approfondite. Non si ferma alla “pappardella” mandata giù a memoria, ma va dritto alla comprensione. Se hai capito, bene, se non hai capito, ritenta. Per accedere agli esami richiede un elaborato scritto da inviargli prima della seduta, su cui formulerà un giudizio. Comincia la seduta d’esame. “Signorina X, mi scusi, ma guardi che obiettivo si scrive con una b, a meno che lei non sia un fotografo”, e ancora: “Guardi, signorina Y che nello scritto formale, in uno scritto d’esame, non si può adoperare l’italiano parlato, non sta scrivendo una lettera a sua sorella” , oppure: “Avete mai sentito parlare di linguaggio specialistico?, Ecco, la vostra prova richiedeva l’uso del linguaggio della disciplina in questione. Dove lo trovate questo linguaggio?, Nel testo che si presume abbiate studiato”, infine : “Signorina Z, se non ha compreso la differenza fra questi due fondamentali concetti, perché non ha chiesto spiegazioni?,Non c’era al corso?”. Più o meno così per gli elaborati scritti, per gli orali le cose non sono molto diverse. In effetti, sembrerebbe che si consideri esigente un docente che fa delle richieste alquanto scontate in un contesto dove non è assurdo farle, in quanto si è all’università. Quindi la domanda potrebbe essere un’altra. Con che bagaglio si arriva all’università?

Si potrebbe ipotizzare che la famosa creatività, inneggiata nei mirabili Programmi Didattici dell’85, nel tempo, sia stata oggetto di uno slittamento semantico, trasformandosi in lassismo, quello per cui tutti possono fare tutto senza zelo, e tutto ciò che si fa va bene, tanto è espressione della personale creatività. L’analisi diacronica potrebbe non essere inattuale o una forzatura, perché se dalla scuola primaria si dà inizio alla stagione dei vari “E tanto che fa?, Il bambino è creativo. Avrà modo di imparare. Gli metto eccellente lo stesso” diventa, poi, difficile fargli capire da studente delle medie inferiori e superiori che la professoressa di italiano non per forza lo ha preso in antipatia e lo odia. Difficilmente lo sfiorerà l’idea di imparare a mettersi in discussione, chiedendosi se ciò che ha fatto è abbastanza e rispetto a cosa. In questo modo, potrebbe precludersi, involontariamente, le possibilità di migliorarsi come studente, ma soprattutto come persona, in un vortice di deresponsabilizzazioni continue fra un ordine di scuola e l’altro. Ed ecco che lo studente, approdato all’università, non si pone proprio il problema dei prerequisiti richiesti dal nuovo contesto, in cui farà esperienza. Non gli balena nella mente l’idea che una prova scritta dovrebbe essere costruita con attenzione, seguendo un format, delle regole ed uno specifico linguaggio. Chi, invece, si pone in discussione, potrebbe avere, poi, difficoltà nella costruzione di un metodo efficace per studiare e rielaborare le informazioni, metodo che si insegna a cominciare dalla scuola primaria ed in continuità per gli ordini di scuola successivi. Arriva, infine, al cospetto del prof.Graziano e lo ritiene un pignolo, in fondo che importanza ha una “b” in più o in meno?  

 

 
 
 

La vendicativa dottoranda legge le slides in calabrese

Post n°8 pubblicato il 20 Maggio 2013 da lascuolaoggi
 
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Primo giorno di università per Marika, primo corso: la frequenza è obbligatoria. In aula studenti di tutte le età,una cinquantina circa, con alle spalle diversi percorsi personali e scolastici. Qualcuno già lavora da precario, altri sono al secondo titolo, poche le matricole effettive. Il corso è di fondamentale importanza nel curriculum, è l’esame più difficile del piano di studi, perché la commissione pare sia molto esigente. Il professore, un uomo sulla cinquantina dallo stile un po’ country, arriva puntuale e si presenta alla classe, presenta anche le sue collaboratrici. Non si tratta di ricercatrici, ma di dottorande. Non è dato sapere su cosa si stiano specializzando le dottorande in questione, di certo sono molto giovani ma dimostrano subito di essere consapevoli del potere che hanno trovandosi in quell’aula. La classe è in religioso silenzio. Tutti sono in ascolto. Immediatamente, viene chiarito che gli esami saranno presieduti dalle dottorande (ma è legale?), accompagnate da alcuni ricercatori. Si fa, inoltre, presente alla platea che gli eventuali furbetti, quelli della serie “io firmo te, tu firmi me”, non saranno ammessi agli esami, perché tutti hanno l’obbligo della frequenza, anche se lavorano “in nero” ed il datore minaccia il licenziamento, anche se ci sono madri che dovranno pagare le baby sitter, anche se l’ateneo è lontano dal centro e, per raggiungerlo in auto o in pullman, i costi si aggirano intorno ai dieci euro al giorno. In fondo l’università non è un centro di accoglienza. Ma il titolo accademico in oggetto potrebbe dare immediati sbocchi lavorativi, quindi gli studenti abbandonano i propositi strategici e si organizzano per frequentare. Il docente introduce gli argomenti principali del corso e va via. Continua la lezione la prima dottoranda. Una giovane donna di bell’aspetto e dai capelli rossi, che sintetizza brevemente i primi capitoli del testo. Probabilmente, è alle prime armi e forse non ha mai avuto una classe di studenti già laureati,non più bravi di altri ma semplicemente più abili nell’organizzazione dello studio e nell’ottimizzazione dei tempi, molti dei quali, durante il viaggio, hanno già dato una lettura sommaria all’opera. Si tratta di un testo non semplice, la dottoranda si impegna al massimo ma la sua performance smbrerebbe palesare una formazione in ambito diverso. Poco dopo, tocca alla seconda dottoranda, una giovanissima blond girl che inserisce la penna usb nel pc e si collega alle slides. Ha inizio una lunga lettura di spezzoni ricopiati dal testo,alcune parole risultano incomprensibili perché la pronuncia è marcatamente regionale. Cominciano i vari “come?” e “può ripetere, per favore?”, e, con essi, le prime richieste di spiegazione. La giovane cammina su e giù nell’aula, a guardarla sembra quasi una soldatessa in marcia con le braccia adagiate dietro la schiena, ma non seguono risposte nè aggiunte da parte sua, salvo per incalzare con : “Ma non sa leggeRe, è scritto lì”, o per riaffermare il potere di cui è investita dicendo : “In sede d’esame sarRò io ad interrogaRvi e voglio che queste definizioni le sappiate peRfettamente, paRola per paRola”. Gli studenti sono attoniti: nelle slides non compaiono definizioni, ma estratti del testo,quindi, cosa avrebbe voluto dire quella sua affermazione così decisa?. Grazie al cielo qualcuno ha inventato Google, così, finito il corso ciascuno cerca informazioni sul percorso accademico di coloro che avrebbero potuto inficiare e rallentare la corsa agli esami. Si scoprono cose che è preferibile non riportare. Improvvisamente, però, la dottoranda-capò attira la benevolenza delle donne della prima fila. Le arriva una telefonata, la giovane si emoziona, arrossisce e scappa fuori dall’aula, ritornando felice ed ancora chiaramente emozionata. Dopo una decina di minuti, in cui lancia sorrisi da pace nel mondo, rammenta il suo ruolo ed il colorito ritorna grigio. “AlloRa, Ricominciamo la lezZione” dice e riprende a leggere le slides. Tuttavia, quel moto emozionale le ha attirato le simpatie delle altre donne che, ormai rassegnate all’idea di dover frequentare un corso di lettura al pc, smettono di porle domande, sperando almeno che la giovane dimostri riconoscenza in sede d’esame. E il giorno della temuta prova puntualmente arriva. La commissione è schierata a mo’ di falange oplitica; di fronte gli studenti,una ventina di temerari, abilmente nascosti dietro i libri. L’ansia sale, perché gli esami fanno paura ad ogni età, specie se la posta in gioco sembra così alta, specie se si spera di poter approdare ad un lavoro almeno dignitoso. La blond dottoranda, immemore della sorellanza ricevuta, chiede perfino la bibliografia del suo articolo. Guai allo sventurato che abbia osato distaccarsi dagli esempi del testo proponendone di propri, ma coerenti, su di lui si scagliano le ire della ragazza. Gli esempi da fare sono quelli del libro e basta. Anche con chi la asseconda obietta con un “non mi ha convinto completamente”o ancora con un “per me è diciotto”. Come è andata è intuibile. I venti studenti hanno “messo a libretto” l’esame, ma con voti stentati. Morale della favola: mai fare domande e chiedere spiegazioni ad un corso, se dall’altra parte c’è qualcuno che “hanno ben piazzato”.

  

 

 

 

 
 
 

Se dico "Cucciolo", ti distruggo un mese di attività didattica

Post n°7 pubblicato il 20 Maggio 2013 da lascuolaoggi
 
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Stefania segue un bambino affetto da un disturbo di iperattività. Quando lo ha incontrato a scuola, a novembre, ha capito che l’iperattività è un problema più serio di quanto dai libri avesse potuto intuire. Armata di buona volontà, ha acquistato dei testi sull’argomento (se potesse, direbbe a Dario Ianes : “maestro, fa’ di me quel che vuoi”), li ha approfonditi, ha somministrato test d’ingresso per poi costruire un percorso personalizzato, centrato sull’autonomia e sulle competenze (che parolone). Cosa vuol dire?. Semplicemente che si è chiesta come fossero le performance del bambino rispetto alle abilità previste per la sua fascia d’età. Ha optato, quindi, per una didattica per immagini e per stimoli differenziati,costanti,di breve durata cominciando, parallelamente, a costruire una buona relazione educativa, fondata sul riconoscimento reciproco. Il bambino era lontano dall’essere scolarizzato, trascorreva i suoi giorni nei corridoi o in bagno, andava a zonzo, assumeva un atteggiamento provocatorio, era maleducato. Stefania, come la sua indole le suggeriva, non ha voluto porsi secondo il modello della maestra-mamma, tanto gettonato nella scuola primaria, ma ha tentato di fare l’educatrice, cosa ben più complessa da riuscire a porre in atto. Per assumere il ruolo dell’educatrice ci vuole, infatti, spessore culturale, professionalità,conoscenza disciplinare e buonsenso, perché in ogni momento bisogna ritornare sul contenuto, sul metodo, sulla relazione educativa, sottolineando i ruoli, i doveri ed i diritti di docente e discente. Non è stato facile per lei. Non appena il suo tono di voce si faceva più severo, le colleghe la guardavano con disapprovazione. Eppure, erano le stesse colleghe che avevano consentito ad un bambino, un minore, di aggirarsi da solo, e senza controllo, nei corridoi della scuola. Le stesse che lo avevano esonerato dall’apprendimento, perché “il bambino è difficile, è aggressivo”, privandolo, in questo modo, del diritto di imparare. “Non è dolce, è troppo severa”, le sentiva bisbigliare nei loro consuetudinari incontri di compresenza, rigorosamente tenuti in corridoio. Ma Stefania le ignorava, in fondo erano le stesse persone che non avevano neppure saputo presentarle l’allievo, potenzialità e lacune, e che, in assenza della docente di sostegno, lo avevano abbandonato a se stesso, facendo semplicemente il gioco dello scarica barile, fino ad arrivare “a quell’asina di maestra che aveva in prima elementare”. Durante una faticosa sessione di matematica,mentre maestra e allievo erano alle prese con il materiale multi-base, i regoli, i colori, gli insiemi, per riscoprire insieme il concetto di quantità, il bambino si è alzato ed ha cominciato la sua solita danza nel corridoio. Tutto normale per un bambino iperattivo. Stefania lo rimprovera e gli dice che dopo la matematica avrebbe avuto i suoi dieci minuti di svago. Ma la maestra di religione non ne può più e interviene: “Cucciolo, vieni qui, vieni in classe mia, stai un poco con me”. Il bambino ovviamente accetta l’invito con entusiasmo (quale bambino può preferire le decine e le unità alla religione?). “Vorrà dire che i tuoi dieci minuti di svago li farai studiando la religione?” aggiunge Stefania. L’allievo trascorre la successiva mezz’ora con la maestra di religione,seduto accanto a lei  a godersi il dolce far niente, proprio come lei. Per non sollevare un polverone, Stefania non reagisce come vorrebbe,non fa notare alla collega quanto sia stato diseducativo oltre che irrispettoso il suo comportamento. Si limita a dire che l’appuntamento con la matematica è solo rimandato. Episodi del genere si sono verificati spesso, ma chi crede in ciò che fa difficilmente si arrende. Oggi, a distanza di mesi, l’allievo di Stefania svolge da solo gli esercizi di italiano, matematica e inglese, ovviamente costruiti su obiettivi minimi; quando sente la necessità di svagarsi gli è concesso di passeggiare, ma per pochi minuti e sotto il controllo della docente, chiede il permesso per allontanarsi, ma soprattutto abbraccia con calore la maestra che gli ha insegnato a contare con pazienza senza saltare le cifre, che gli ha insegnato a chiedere il permesso, che lo ha trattato come un qualunque altro bambino.

 
 
 

All'università. La portaborse di storia.

Post n°6 pubblicato il 19 Maggio 2013 da lascuolaoggi
 
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Sarà capitato anche voi di sperare in un’opportunità appena decente, dopo un lungo e lodevole percorso universitario. Sarà capitato anche voi di aver accettato l’idea di farvi sfruttare fino al midollo per continuare a studiare la disciplina, che amavate fin da bambina, per migliorarvi, per saperne di più, perché ci sono persone a cui piace sul serio fare ricerca, anche se non hanno contatti di prestigio, anche se non hanno calci, anche se non abbassano le braghe. Sarà capitato anche a voi in qualche altro contesto forse, alla nostra amica è accaduto all’università. Una giovane alla seconda laurea a ciclo unico ottenuta con successo, discutendo una tesi proprio in quella disciplina, su quel singolare modo di guardare l’esperienza umana, conosciuto come  “storia”. Armata di coraggio, l’aspirante studiosa si propone timidamente alla ricercatrice di storia, “strutturata” nell’ateneo (quindi, non precaria), con cui ha discusso la tesi. Si offre come portaborse, portacarte, porta-fogli, porta-penne, qualsiasi cosa pur di cominciare quella che sapeva poteva essere una lunghissima quanto inutile gavetta. Pensava, ingenua, che la docente, una volta accortasi delle sue qualità, avrebbe potuto aiutarla, in cambio di tutto il lavoro, che, prontamente, avrebbe fatto al posto suo, come scrivere gli abstract per gli articoli, improntare lezioni, correggere prove, sopportare gli insulti degli studenti, in sintesi per fare il lavoro sporco. In fondo, si ripeteva, non è così raro trovare negli atenei, specie nelle facoltà umanistiche, aspiranti studiosi o ricercatori, ex studenti, dal livello culturale estremamente basso, che sono là chissà perché e chissà per cosa. La competenza nello studio dovrà pur servire, seppur in minima parte, a farsi strada nel lungo periodo. La ricercatrice accetta e, dopo poche settimane, comincia con le promesse, del tipo “se mi aiuti con la costanza di oggi (e cioè full time, fino a tarda sera, ogni giorno, tutti i giorni), il primo assegno che riesco ad avere sarà per te”. Tuttavia, alla nostra amica basta poco per capire come realmente funzioni la ricerca, almeno in quella stanza del dipartimento di studi “ricopiati e male”. Le viene, infatti, chiesto, senza alcun pudore, di fare una ricerca on line su un preciso argomento, di cercare i lavori di altre persone, di discuterne con la ricercatrice e poi dare inizio ad un certosino lavoro di sostituzione dei termini con dei sinonimi e di ricostruzione dei periodi con “parole diverse”. Un plagio, insomma, ma a regola d’arte. Questa sarebbe stata la prova d’esame della nostra stupefatta amica. Suo malgrado, la nostra si presta al lavoro richiesto, scoprendosi abilissima nella manipolazione dei testi, ma ad un certo punto la sua curiosità viene fuori. La passione, strano fenomeno, la induce a svolgere delle ricerche bibliografiche per conto proprio e nella riscrittura dell’articolo comincia a intravedersi un’impronta malefica: la penna o firma, una qualità che solo la competenza può creare e rendere visibile. E’ la firma, implicita ovviamente, a rendere un lavoro originale e realmente “argomentato”. Si scatena il putiferio. La ricercatrice accusa l’aspirante studiosa di arroganza: come si era permessa una emerita nessuno di analizzare il fenomeno e di far trasparire la disamina nell’articolo?,L’intera comunità accademica, a suo dire, avrebbe bocciato una tale Ubris. E poi a che titolo una semplice dottoressa in nulla può spingersi a tanto?. Presto risulta chiaro che il problema non è tanto o solo la capacità, che qualcuno chiama semplicemente bravura, a creare astio: la tipica antipatia che solo chi sembra saper fare qualcosa può scatenare. Si è trattato probabilmente di uno scontro fra poteri: il potere dello status, e cioè di avere un contratto a tempo indeterminato per la cattedra di storia da un lato, e il potere del sapere dall’altro. Due entità che in un luogo deputato alla conoscenza come l’Università non dovrebbero competere, neanche in un universo parallelo. Eppure, la nostra amica è tenace, capisce che se vuole restare deve adattarsi alla nuova realtà. Decide, allora,di abbassare il tiro,di scrivere banalità, fare copie, non mostrarsi e ringraziare, per continuare il suo percorso. Si rincuora, pensando che, col tempo, una donna di 40 anni con uno status sociale riconosciuto, una donna che ha il privilegio di lavorare all’università, pur non avendo mai scritto uno straccio di monografia, una che bisognerebbe chiedersi solo chi cavolo l’ha piazzata in quel dipartimento, non potrà che avere con lei, giovane alle prime esperienze, un atteggiamento almeno adulto. Ma la ricercatrice non perdona. Le richieste di lavoro aumentano e con esse si fanno avanti anche i primi banalissimi tentativi di mobbing (perché è così che si chiama la mancanza di rispetto per chi lavora, anche se a nero). Si va a pranzo tutte insieme, ricercatrice e portaborse varie, ma stavolta lo strumento di vendetta è l’umiliazione condita con l' esclusione: ogni santo giorno c’è la borsa da prendere in auto, le sacche piene di libri da portare, l’esaltazione dell’altra, giusto per innescare le dovute rivalità fra “emerite nessuno”. L’altra in questione è una studentessa che non fa mistero del suo buon aggancio politico. L’espressione dei suoi occhi è astuta come Poldo in Braccio di Ferro, sostiene la mission filosofica dei Baci Perugina, parla come il santone del film “Grandi Magazzini”, ha raggranellato esami a suon di telefonate dall’alto, infine, ha la capacità dialogica di un tunisino che segue un corso di italiano L2 tenuto da un norvegese. Insomma, nulla di personale,ma indovinate chi delle due è rimasta in dipartimento?  


 

 
 
 
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