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STORIA DELLA MALAVITA MESSINESE 3

Post n°207 pubblicato il 25 Maggio 2011 da tignalucida

Nel corso dell’esame, assunto all’udienza del 30 aprile 1999 in seguito ad un provvedimento di ammissione ai sensi dell’art. 507 c. p. p., FERRARA Carmelo ha sostanzialmente ribadito il contenuto di queste dichiarazioni, aggiungendo che: l’omicidio era avvenuto nel maggio 1991; il nome di Messina, come affiliato al gruppo “Mancuso” e quindi potenziale vittima della rappresaglia, era stato fatto nel corso delle riunioni successive all’omicidio Di Blasi; il Messina stava facendo un trasloco quando era stato visto da LAGANÀ; il gesto che il Messina aveva rivolto con le mani al LAGANÀ era inequivocabilmente ostile; l’estorsione da cui era nato il contrasto tra SALVO e Messina riguardava un rivenditore ambulante di granite, inteso il tedesco, che lavorava sul viale Europa; FERRARA Carmelo, così come il fratello Sebastiano, non era presente nel momento in cui SALVO e SANTORO erano partiti per uccidere il Messina, in quanto aveva fatto ingresso in casa per discutere con un amico catanese che gli aveva appena venduto l’arredamento di qualche camera; LAGANÀ si era allontanato subito dopo avere riferito che c’era il Messina; gli esecutori avevano due pistole calibro 9 ´ 21 che TURRISI aveva prelevato dalla stalla; TURRISI si era inoltre disfatto di un giubbotto rosso e della pistola utilizzati da SALVO; quest’ultimo, dopo l’omicidio di Letterio Rizzo, era stato ospitato al villaggio CEP e durante il giorno stava a casa di Carmelo FERRARA, mentre dormiva a casa di DI DIO Domenico, o meglio al piano sottostante anch’esso di proprietà del DI DIO. Con riferimento all’episodio in esame era stata altresì disposta la citazione di Viena Antonello, già collaboratore di giustizia che avrebbe dovuto essere sentito con le garanzie di cui all’art. 210 c. p. p., ma che all’udienza del 29 novembre 1997 si è avvalso della facoltà di non rispondere. Richiamato all’udienza del 30 aprile 1999, alla luce della nuova versione dell’art. 513 c. p. p. determinata dall’intervento della Corte costituzionale e delle diverse conseguenze legate all’esercizio della facoltà di astenersi dal deporre per le categorie di soggetti processuali indicati dalla norma, il Viena si è ulteriormente avvalso della facoltà di non rispondere ed il Pubblico Ministero gli ha contestato il contenuto di un verbale del 28 dicembre 1993, allorché il Viena aveva accusato SALVO Giovanni di essere l’autore materiale dell’omicidio di Messina Giovanni, come lo stesso SALVO gli aveva confidato nell’estate del 1992 in occasione di un incontro per la consegna di qualche grammo di cocaina che il SALVO aveva chiesto al Viena. Alla luce dell’articolato complesso delle risultanze dibattimentali di cui è stato in dettaglio illustrato il contenuto si impone l’affermazione della responsabilità degli imputati SALVO Giovanni, SANTORO Angelo, LONGO Luigi, FERRARA Sebastiano, FERRARA Carmelo, MANGANARO Salvatore, MARCHESE Mario e LAGANÀ Gianfranco. Vi è assoluta convergenza delle fonti di accusa più significative ed affidabili sulla indicazione del movente dell’omicidio e dell’identità dei due principali esecutori materiali. Al di là di ogni ragionevole dubbio il dibattimento ha attestato l’appartenenza di Messina Giovanni al gruppo di MANCUSO Giorgio, ed anche quest’ultimo lo ha indicato come un suo affiliato, che era stato coinvolto nei contrasti con il gruppo “Ferrara” precedenti all’omicidio Di Blasi e la cui eliminazione andava essere sicuramente ricondotta alla reazione degli altri gruppi alla uccisione di Occhi ‘i bozza (“… La morte di Messina invece fu direttamente, partì direttamente dal gruppo “Ferrara”, che vi era un contributo anche a questa situazione, tanto con Messina ce l’avevano pure per altre situazioni, delle estorsioni ed altro …”). È perciò plausibile, al di là della questione relativa al mancato svolgimento di una riunione specificamente dedicata alla deliberazione ed organizzazione dell’omicidio (e la risposta negativa a questo interrogativo, nonostante le ripetute sollecitazioni, è un dato su cui le fonti di accusa convergono), che il nome di Messina Giovanni, o lo pseudonimo con cui era conosciuto nell’ambiente (menza molla), sia circolato fin dalle primissime riunioni successive all’omicidio Di Blasi e la sua persona, come un potenziale obiettivo della rappresaglia, trattandosi di uno degli elementi più vicini a MANCUSO Giorgio, abbia attirato l’attenzione dapprima di uno dei gruppi di fuoco composto da elementi del clan “Sparacio” (quello di CARIOLO, VENTURA e GUARNERA), e poi del gruppo “Ferrara”, a cui non era sfuggito che il Messina stava per traslocare dal quartiere Camaro nella casa di Contesse che gli era stata ceduta in affitto da Aliquò Ignazio: quest’ultimo era un altro personaggio ritenuto vicino a MANCUSO Giorgio e RIZZO Rosario, i cui movimenti, per questa ragione, erano oggetto di particolare ed interessata attenzione in un momento in cui l’obiettivo primario restava ancora la scoperta del nascondiglio di MANCUSO, resosi irreperibile dopo l’omicidio Di Blasi, ed era considerata a tal fine di particolare importanza l’individuazione di quanti appoggiavano concretamente la sua latitanza. È infatti evidente che, al di là della questione della natura del ruolo assunto da LAGANÀ Gianfranco nella vicenda e della sua partecipazione al delitto, in ordine alla quale sarà doveroso un attento riesame critico delle fonti di prova, quale che sia stato il contenuto e la valenza della “segnalazione” del LAGANÀ, la presenza del Messina in un quartiere diverso da quello da lui abitato e solitamente frequentato non costituiva una sorpresa per FERRARA Sebastiano ed i suoi uomini. La successione degli eventi così come concordemente riferita da tutti i protagonisti attesta senza alcuna ombra di dubbio che costoro erano ben consapevoli del fatto che la presenza di Messina non era frutto di un puro caso e che il giovane si sarebbe verosimilmente trattenuto nella zona in cui era stato avvistato da LAGANÀ per il tempo necessario a quest’ultimo a raggiungere il vicino villaggio CEP ed ai killer per organizzarsi e compiere armati il percorso inverso: che vi fosse un interesse del Messina a fermarsi presso l’appartamento ubicato nei pressi del pastificio Triolo di cui aveva recentemente acquisito la disponibilità, per seguire i lavori di rifacimento o il trasloco di mobili che precedevano il suo trasferimento in compagnia della convivente, è circostanza confermata da diversi collaboratori di giustizia e che giustifica la condotta di SALVO e SANTORO, i quali si andarono a posizionare nelle vicinanze del palazzo “Mangano” certi che il Messina vi si sarebbe trovato ancora dopo l’incontro con LAGANÀ; la conoscenza delle ragioni che avrebbero indotto probabilmente il Messina a trattenersi in zona vale a spiegare inoltre il motivo per cui, anche per coloro secondo i quali il LAGANÀ diede il “segnale” per la consumazione dell’omicidio, egli si limitò a comunicare di avere incontrato il Messina, senza nulla aggiungere. Per quanto la sua conoscenza dei fatti appaia per altri versi parziale, sono sul punto significative le dichiarazioni di LEO Roberto che, nel quadro della rete di contatti e scambi di informazioni attivata in seguito all’omicidio Di Blasi e relativa ai movimenti degli esponenti del gruppo “Mancuso – Rizzo”, ha inserito un proprio intervento personale diretto a rendere noto al cugino LEO Domenico che il Messina aveva da poco preso in affitto un appartamento a Contesse; ed ha altresì affermato che l’omicidio era avvenuto pochissimo tempo dopo questa sua segnalazione e che FERRARA Sebastiano aveva prima fatto accertare la veridicità dell’indicazione, verificando la presenza del camion da cui venivano scaricati i mobili destinati ad arredare la casa del Messina. Peraltro che quest’ultimo in quel periodo si trovasse di tanto in tanto nella zona e le ragioni per le quali ciò avveniva sono circostanze che, considerata anche la personalità della vittima e la sua notoria appartenenza ad un gruppo avversario, non potevano sfuggire a FERRARA Sebastiano ed ai suoi affiliati, il cui “quartiere generale” si trovava al villaggio CEP (distante appena qualche centinaio di metri dal luogo in cui fu consumato l’omicidio), e ciò appare perfettamente coerente con le risultanze dibattimentali: anche se non ha trovato conferma la circostanza che gli esecutori materiali fossero perfino a conoscenza dell’orario in cui il Messina avrebbe dovuto trovarsi sul posto in attesa dell’arrivo del camion da cui dovevano essere scaricati i suoi mobili (ha dichiarato in tal senso il solo LA TORRE, riferendo quanto avrebbe appreso da BONASERA Angelo), è poco plausibile che l’omicidio si sia verificato “casualmente” nel senso in cui ha cercato di far credere proprio FERRARA Sebastiano, sottolineando spontaneamente e a più riprese che era casuale la presenza di Messina e che era soprattutto casuale la presenza di LAGANÀ Gianfranco, e concludendo contraddittoriamente che l’omicidio era avvenuto “per caso”, pur rientrando nell’ambito della programmata eliminazione di tutti gli affiliati al gruppo “Mancuso – Rizzo”, e pur essendo venuto il suo gruppo a conoscenza che il Messina aveva preso in affitto una casa nella zona. È infatti verosimile che effettivamente non fosse prevista, nel pomeriggio del 21 maggio 1991, la visita del dott. Pafumi (convocato invano dalla Corte su richiesta della difesa di LAGANÀ, essendosi avvalso della facoltà di non rispondere: ud. 19.4.1999), e conseguentemente la presenza dell’imputato LAGANÀ (che accompagnò il primo presso un elettrauto) nella zona in cui si trovava anche il Messina: ma solo in questo limitato senso si può parlare di “occasionalità” dell’incontro e del successivo omicidio, perché è certo che in quel particolare momento gli spostamenti di un esponente di primo piano del gruppo “Mancuso” non potevano passare inosservati (soprattutto in una zona rigidamente assoggettata al controllo di uno dei gruppi più attivi nell’esecuzione della strategia adottata), ed il suo omicidio apparteneva già all’orizzonte programmatico scelto dagli uomini di vertice degli altri gruppi e fatto proprio dagli affiliati. Una ricostruzione di questo tipo privilegia evidentemente la causale riconducibile alla deliberazione della “guerra” contro il gruppo “Mancuso – Rizzo”, non apparendo quella connessa ai presunti contrasti per una estorsione contesa al gruppo “Marchese”, e a SALVO Giovanni in particolare, sufficientemente suffragata ed essendo stata espressamente smentita dallo stesso SALVO; ma la prospettazione giustifica al contempo, in generale, la contestazione delle due circostanze aggravanti che accomunano quello in esame a molti degli altri reati esaminati nell’ambito di questo procedimento, e cioè la premeditazione e l’aggravante specifica di cui all’art. 7 del d. l. n. 152/91. Sotto il primo profilo, richiamate in questa sede le considerazioni di carattere generale in ordine agli elementi costitutivi della circostanza e alle relative difficoltà di accertamento consistendo essa in un dolo di particolare intensità e quindi in un fatto spiccatamente interiore, va ricordato l’orientamento costante secondo il quale l’occasionalità della consumazione del delitto non esclude la premeditazione: il Messina era un elemento di primo piano del gruppo “Mancuso” e la sua uccisione è certamente riconducibile alle deliberazioni adottate dopo l’omicidio Di Blasi, tanto che lo stesso Messina era probabilmente l’obiettivo (mancato) del primo agguato successivo all’omicidio Di Blasi. La presenza di SALVO tra gli esecutori materiali (e con un ruolo determinante) rafforza queste considerazioni, perché attesta un interesse alla eliminazione del Messina, quale affiliato al MANCUSO, che trascendeva il gruppo “Ferrara”, che pure aveva il monopolio organizzativo delle azioni che venivano commesse in quella zona della città, ed investiva anche gli altri gruppi tanto da indurre uno dei più agguerriti di essi, il gruppo “Marchese”, a “mettere a disposizione” un componente del proprio gruppo di fuoco per appoggiare le iniziative indicate. L’omicidio è stato poi consumato per agevolare un’associazione di stampo mafioso e, comunque, avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c. p., e ciò sia per le modalità esecutive (il fatto fu commesso a volto scoperto ed in pieno giorno, in una zona ad alta intensità di traffico veicolare e pedonale), sia per il movente che è riconducibile ai contrasti tra gruppi contrapposti e che ispira la consumazione dell’omicidio come strumento strategico diretto alla acquisizione di un ruolo egemonico nel panorama delle organizzazioni criminali attraverso la eliminazione dei capi e degli affiliati appartenenti ai clan rivali. Passando a considerare le posizioni dei singoli imputati, va innanzitutto affermata la responsabilità di coloro che, sia pure in maniera più o meno esplicita, hanno ammesso il proprio coinvolgimento nell’omicidio di Messina Giovanni, e cioè SALVO Giovanni, SANTORO Angelo, FERRARA Sebastiano, MARCHESE Mario, LONGO Luigi e FERRARA Carmelo. SALVO e SANTORO hanno riconosciuto apertamente e senza riserve le rispettive responsabilità quali esecutori materiali del delitto, fornendo una dettagliatissima descrizione dell’episodio e consentendo di ricostruire l’omicidio in maniera conforme anche alle risultanze della prova c. d. generica ed a quanto era emerso in occasione del primo processo (ad es. in ordine all’uso da parte del killer di un giubbotto di colore rosso o arancione). La conclusione non vale solo per il SALVO, che ha materialmente azionato il grilletto contro la vittima, ma anche per SANTORO, originariamente destinato ad affiancare il primo e successivamente rimasto ad una certa distanza a seguire la scena per evitare di essere riconosciuto. Natura indiscutibilmente concorsuale rivestono le condotte del SANTORO precedenti all’appostamento, peraltro comuni ad entrambi gli imputati, e reciprocamente dotate di efficacia rafforzatrice del rispettivo proposito criminoso (accettazione del mandato omicida, partecipazione ai preparativi, spostamento nella zona in cui avrebbe dovuto trovarsi la vittima designata). Ma anche quanto avvenuto successivamente attesta la partecipazione e la piena responsabilità di SANTORO Angelo, posto che l’imputato, secondo le sue stesse ammissioni, una volta comunicata al complice la propria volontà di non prendere direttamente parte all’esecuzione dell’omicidio, rimase nelle vicinanze e fornì al SALVO indicazioni concrete sulla posizione da assumere, verosimilmente perché in possesso di una migliore conoscenza dei luoghi e perciò in grado di interpretare adeguatamente la segnalazione di LAGANÀ (“Mi sono fermato lì io, però gli ho spiegato dove si poteva mettere lui, e lui ha atteso lì quando è uscito questo Mezza Molla, quando si è avvicinato con la motocicletta lui, Gianni SALVO gli ha sparato un paio di colpi di pistola …”); SANTORO cercò poi di favorire la fuga del SALVO, indicandogli la direzione migliore, e tentando invano di mantenere il contatto con il MANGANARO, al quale segnalò il percorso del SALVO: ovviamente che in concreto queste iniziative non abbiano sortito l’effetto sperato e che SALVO e SANTORO siano stati costretti ad allontanarsi a piedi ciascuno per proprio conto, senza incontrare la Y10 condotta da MANGANARO, non assume sotto questo aspetto alcun rilievo, trattandosi di anomalie della fase esecutiva che hanno impedito la piena riuscita del piano concordato ma che non privano le condotte dell’imputato di reale efficacia causale, quantomeno sotto il profilo del rafforzamento del proposito criminoso del SALVO. Analogamente LONGO Luigi ha ammesso di avere fatto parte del gruppo di persone riunite nelle vicinanze della casa di FERRARA Carmelo ed avvisate da LAGANÀ della presenza di Messina. Ricordando di essere stato designato in un primo momento da FERRARA Sebastiano per la consumazione dell’omicidio (a cui si era sottratto in quanto troppo conosciuto nella zona), l’imputato ha conseguentemente ammesso di essere stato presente nel momento in cui il mandato omicida fu accettato da SALVO e SANTORO. Va in proposito rilevato, sviluppando un argomento destinato a valere anche per le posizioni di alcuni degli altri imputati, che tale presenza non è un dato penalisticamente neutro o indifferente, poiché essa esprime, per il contesto in cui si colloca, la condivisione di un programma, l’accettazione delle sue conseguenze, e, soprattutto, la disponibilità a darvi il proprio contributo, e per queste ragioni determina negli altri partecipanti il legittimo convincimento di potere contare sull’adesione e sulla collaborazione di un altro concorrente. Nell’ambito della disamina delle risultanze relative al capo 19 è stato già richiamato l’orientamento giurisprudenziale più rigoroso, secondo cui “in materia di concorso nel reato, potendosi questo configurare anche quando si manifesti nella forma di semplice adesione, comunque espressa, ad un proposito criminoso da altri concepito (e poi in effetti realizzato), deve affermarsi la riconoscibilità di siffatta adesione anche nel comportamento di chi, partecipando a riunioni di soggetti appositamente convocati per essere messi al corrente di iniziative criminose altrui (la cui realizzazione chiederà poi la collaborazione di quei medesimi soggetti o, almeno, di una parte di essi), mostri, sia pure con il silenzio, di approvare le dette iniziative e di essere pronto a dare la propria collaborazione”[1]. Nel caso di specie, pur non essendo emerso con certezza in dibattimento che l’omicidio sia stato preceduto da una fase organizzativa più articolata, caratterizzata, ad es., dalla divisione dei compiti (in presenza della quale l’affermazione di responsabilità sarebbe scontata), sembra difficile poter negare che una qualche intesa, facilitata dalla natura dei rapporti intercorrenti tra i vari concorrenti, nei fatti vi sia stata, avendo i presenti aderito, eventualmente anche per facta concludentia, alla volontà omicida esternata da FERRARA Sebastiano, abituato per il ruolo rivestito a non discutere le proprie decisioni con gli affiliati e a pretenderne l’esecuzione in tempi ristretti (secondo quanto incisivamente riferito da SALVO Giovanni non ci fu neanche il tempo di pensare, anche se lo stesso imputato fa cenno ad una assegnazione di ruoli da parte di FERRARA Sebastiano). Che anche il LONGO, venuto a conoscenza dell’omicidio che stava per essere consumato, si sia messo a disposizione per la buona riuscita della missione, probabilmente secondo un meccanismo collaudato da un periodo più o meno ampio di comune militanza associativa (l’imputato ha dichiarato di essere entrato nel clan “Ferrara” dopo un periodo di “rodaggio” alla fine del 1990), è ampiamente confermato dalle sue condotte successive alla consumazione del delitto, che esprimono non già una mera cooperazione post delictum, ma la preventiva e spontanea adesione al programma e l’assunzione di un ruolo di supporto, eventualmente anche generico in attesa delle specificazioni imposte dallo sviluppo degli eventi. Per sua stessa ammissione l’imputato ha infatti recuperato la pistola che dopo l’omicidio il SANTORO aveva nascosto, per occultarla a sua volta presso la stalla di FERRARA, ed ha poi prelevato il SALVO per condurlo presso l’appartamento di DI DIO e poi, come hanno riferito anche FERRARA Sebastiano, SANTORO Angelo e lo stesso SALVO Giovanni, presso il MARCHESE che si trovava nella zona di Giostra.

 
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