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LA VERA STORIA DELLA BANDA DELLA MAGLIANA

Post n°229 pubblicato il 07 Giugno 2011 da tignalucida

FRANCO GIUSEPPUCCI

FOTO DI FRANCO GIUSEPPUCCI AL MOMENTO DELL'ARRESTO NEL 1976 DETTO er negro.

 

Sulla banda della Magliana sono stati girati due film e delle fiction televisive di grande successo. Noi qui , attraverso una ricerca fatta sul web, cercheremo di tracciare una fisionomia di questa organizzazione criminale , un sodalizio attivo a Roma tra la fine degli anni '70 e i primi '90. Giovani, spietati, incoscienti: i ragazzi della Banda sono questo. Amici goliardici un attimo prima e precisi killer subito dopo. La storia della Banda della Magliana passa per i leader che ne hanno segnato gli alti e i bassi, cercando di prendere il sopravvento sugli altri, ma finendo inevitabilmente con l'essere eliminati: dall'ispiratore Franco Giuseppucci fino al discusso "Renatino" De Pedis. Il nome attribuito a quella che è considerata la più potente organizzazione criminale che abbia mai operato a Roma. Il nome deriva da quello del quartiere Magliana nel quale risiedevano molti dei componenti. A questo gruppo criminale vennero attribuiti legami con diversi tipi di organizzazioni quali Cosa Nostra, Camorra, 'Ndrangheta, ma anche con esponenti del mondo della politica, della massoneria come Licio Gelli e la Loggia P2, nonché con esponenti dell'estrema destra, con i servizi segreti e anche con settori della finanza vaticana (IOR) in special modo nella persona di Monsignor Marcinkus. Questi legami, sotterranei rispetto alle normali attività criminose della banda (traffico di droga, sequestri e scommesse ippiche) e spesso non chiariti, hanno fatto balzare il gruppo alle cronache storiche degli anni di piombo, legandone le sorti ad alcuni casi della cronaca nera italiana. ANTEFATTO Fino ai primi anni Settanta la malavita romana era ancora strutturata in piccoli gruppi, ognuno padrone del proprio territorio. Vivevano di furti, gioco d’azzardo, sfruttamento della prostituzione e contrabbando di sigarette. Le grandi rapine avvenivano quasi esclusivamente nel Nord Italia, ad opera di bande preparate dal punto di vista militare. Nella Capitale durava ancora una sorta di “età dell’innocenza”. È la mala descritta in film come “I soliti ignoti”, o raccontata nei primi romanzi di Pasolini. Tutto cambia all’inizio degli anni Settanta. A Roma arriva l’eroina, fino ad allora diffusa soprattutto nel milanese. I piccoli boss romani fiutano l’affare.Non è esatto parlare di “Banda della Magliana”. In realtà, a Roma si tratta di un’alleanza tra bande (chiamate in gergo “paranze” o “batterie”) di vari quartieri: Trastevere, Testaccio, Ostiense e, appunto, Magliana. Fino ad allora i padroni del crimine erano stati i marsigliesi.Gli arresti dei boss Maffeo Bellicini, Albert Bergamelli e Jacques Berenguer creano un vuoto di potere inaspettato.

 

 

 

 
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VALLANZASCA

Post n°217 pubblicato il 31 Maggio 2011 da tignalucida

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Post n°216 pubblicato il 31 Maggio 2011 da tignalucida

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Tante le armi in loro possesso, un vero e proprio arsenale da combattimento impiegato per rapine e assalti a blindati: P38, pistole semiautomatiche e a tamburo con matricola abrasa, fucili semiautomatici con caricatori, mitragliatori AK 47, kalashnikov, silenziatori, bombe a mano, detonatori elettrici e a miccia, esplosivo al plastico. In aula il pm Renza Cescon ha sollecitato l’acquisizione del verbale di prove già assunte nel precedente processo. Tra queste, anche l’interrogatorio-fiume del pentito veneziano Stefano Galletto, coautore con Batacchi del clamoroso furto della reliquia del Santo il 10 ottobre 1991, e le testimonianze degli investigatori della Squadra mobile come Alessandro Giuliano e Fulvio Filocamo. La prossima udienza è stata fissata per mercoledì alle 8.15 quando i giudici si decider anno sulla richiesta.

 
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MALA DEL BRENTA SENTENZA ANNULLATA

Post n°215 pubblicato il 31 Maggio 2011 da tignalucida

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Mala del Brenta, sentenza annullata

Processo da rifare, almeno per una (piccola) parte. Colpa di una dimenticanza: alcuni lotti di armi da guerra, la cui illegittima detenzione era stata contestata, non appare nel dispositivo della sentenza. Sentenza che non ne fa menzione né in termini assolutori né di condanna. Da qui il parziale annullamento della sentenza per omessa pronuncia da parte della Corte d’appello di Venezia che ha di nuovo trasmesso gli atti al tribunale di Padova. Così, davanti a un nuovo collegio di giudici (presidente Maria Carla Majolino, giudici a latere Domenica Gambardella ed Elena Lazzarin), sono tornati sul banco degli imputati «soldati» e «colonnelli» della cosiddetta Mala del Brenta guidata da Felice Maniero, tutti già condannati con sentenza di primo grado il 5 giugno 2008: Luciano Bacco 58 anni di Sesto San Giovanni; Andrea Batacchi, detto il Bacalon, 48 anni di Padova, cui furono inflitti 30 anni di carcere; Marino Bonaldo, 59 anni di Padova; Mariano Magro, 47 di Legnaro; Angelo Meneghetti, 45 di Bovolenta; il fratello Fabiano Meneghetti 35 pure di Bovolenta; Roberto Mengardo, 37 di Brugine; il giostraio Nazzareno Pevarello, 37 di Castelfranco Veneto, pure condannato a 30 anni; Achille Pozzi, 53 di Padova; Daniele Sarto, 45 di Fossò e Giuseppe Zampieri, 60 di Legnaro.

 
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SE CONTINUA COSI RITORNEREMO COME NEGLI ANNI 70-80

Post n°214 pubblicato il 31 Maggio 2011 da tignalucida

A

Roma 2011 sembra la fotocopia dei poliziotteschi degl’anni 70. Se non imperasse la tecnologia degli ipad, ipod e smartphone di ultima generazione, non si faticherebbe a riconoscere dai titoli dei giornali gli stessi modus operandi della criminalità che ha terrorizzato Roma e l’Italia nel periodo della guerra fredda. Niente di strano, la criminalità non ha scadenza e le rapine sono all’ordine del giorno. Anche se i dati del Ministero assicurano che c’è una diminuzione dei reati. Gambizzazioni, sparatorie, grandi retate di organizzazioni criminali dedite agli stupefacenti, rapine ai portavalori….era da tempo che la capitale non viveva una serie di fatti così cruenti in così breve tempo. Di furti e omicidi ne sono sempre successi, purtroppo è nella natura dell’uomo e la crisi economica apre sempre nuove frontiere alla follia. Quello che mi domando è: ci sarà un ispettore Betti, interpretato da Maurizio Merli, che riuscirà a chiudere questo cerchio di violenza?

 
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DOVETE STARE ATTENTI AI GRATTA E VINCI

Post n°213 pubblicato il 29 Maggio 2011 da tignalucida

gcc

DOVETE STARE ATTENTI QUANDO ACQUISTATE DEI GRATTA E VINCI DI QUALSIASI MODO , TOCCATE LA CARTA E GUARDATE BENE SE C'è QUALCOSA DI ANORMALE SE NON VI PIACE DITELO SUBITO AL NEGOZIANTE PERCHè STANNO GIRANDO DEI GRATTA E VINCI FALSIFICATI E MESSI IN VENDITA COME NORMALI BIGLIETTI FATTI DAL MONOPOLIO ITALIANO , MA SE SONO VINCENTI NON VENGONO CAMBIATI PERCHè VI DICONO CHE SONO COME LE BANCONOTE E VI FANNO L'ESEMPIO TIPO SE VOI AVETE CENTO EURO FALSI ED ANDATE IN BANCA OPPURE ALLA POSTA PER PAGARE UNA BOLLETTA O FARE UN VERSAMENTO IL CASSIERE NON VI ACCETTA LA BANCONOTA E SIETE FORTUNATI SE NON CHIAMA LA POLIZIA PERCHè LA LEGGE DICE CHE NON AMMETTE IGNORANZA DUNQUE DOVETE GUARDARE BENE QUELLO CHE ACQUISTATE , VI DICO QUESTO PERCHè PROPRIO UNA SETTIMANA FA O ACQUISTATO UN MILARDARIO DA 5 EURO E GRATTANDO MI SONO ACCORTO CHE C'ERANO DIECI NUMERI VINCENTI DA 50 EURO CIASCUNO QUINDI IN TOTALE SONO 500 EURO ALLORA SONO ANDATO A CAMBIARLO E SE CI FATE CASO IL NEGOZIANTE A UNA MACCHINETTA CHE PASSANDOLA DOVE C'è IL CODICE INTERNO GLI RISULTA LA VINCITA , ALLORA MI HA DETTO CHE NON ERA BUONO E NON POTEVA CAMBIARLO , POTETE IMMAGINARE L'INCAZZATURA MIA , DICENDOGLI CHE IL PROBLEMA NON ERA IL MIO MA BENSI IL SUO CHE DEVE STARE ATTENTO A CHI GLI PORTA I BLOCCHETTI E QUINDI DOVEVA PAGARMI , ALLORA SONO ARRIVATI LE FORZE DELL'ORDINE HANNO GUARDATO IL BIGLIETTO SI SONO ACCORTI CHE ERA FALSO ALLORA HANNO CONTROLLATO IL BLOCCHETTO DEI BIGLIETTI ED ERANO FALSI SOLO IL BLOCCHETTO DEL MILARDIARIO DA 5 EURO MENTRE GLI ALTRI BIGLIETTI DI ALTRO GENERE ERANO BUONI, MA LA MIA RABBIA E STATA QUELLA CHE HANNO TROVATO UN ALTRO BLOCCHETTO DEI GRATTA E VINCI DEL MILARDIERIO DA 5 EURO BUONI ED ERANO MESSI DA PARTE , QUINDI LA MIA DOMANDA E SE IL NEGOZIANTE SAPEVA CHE ERANO FALSI VENDENDOLI LO STESSO GUADAGNANDO LA SOMMA INTERA SENZA PAGARE IL MONOPOLIO ESSENDO FALSI, ORA UN AMICO MI HA DETTO CHE QUESTI FALSARI DI GRATTA E VINCI SI SONO RAFFINATI , CIOè STAMPANO DEI GRATTA E VINCI SENZA VINCITE QUINDI NON POSSONO ESSERE SCOPERTI ESSENDO CHE NESSUNO VA A RECLAMARE SE NON CE LA VINCITA NON SI POSSONO SCOPRIRE I GRATTA E VINCI FALSI , QUINDI STATE ATTENTI CHE ORA ANCHE QUALCHE TABACCAIO SI E MESSO A GUADAGNARE VENDENDO I BIGLIETTI FALSI.

 
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STORIA DELLA MALAVITA MESSINESE 6

Post n°210 pubblicato il 25 Maggio 2011 da tignalucida

La vicenda esaminata non impone pertanto la rinuncia alle fonti di prova costituite dalle dichiarazioni dei soggetti coinvolti, ma deve semplicemente indurre ad una accresciuta cautela nell’esame dei relativi contenuti, nella consapevolezza che il rischio di manipolazioni non è comunque mai del tutto eliminabile e unico antidoto, in definitiva, rimane un equilibrato uso delle facoltà di critica e di discernimento. Ritornando all’esame della vicenda dell’omicidio di Messina Giovanni, va rilevato che l’essere stato LAGANÀ Gianfranco uno dei beneficiari del tentativo di manipolazione posto in essere da FERRARA Sebastiano, e proprio con riferimento al ruolo che l’imputato avrebbe avuto nella consumazione del delitto in questione, getta ombre di sospetto sulle insistenti affermazioni tanto di FERRARA Sebastiano che del fratello Carmelo (mai sentito nel corso delle indagini preliminari ed allineato in dibattimento alle posizioni del congiunto) in ordine alla pretesa accidentalità della condotta dell’imputato, come se, ha osservato acutamente il Pubblico Ministero, sfumato il tentativo di tacere del tutto il nome di LAGANÀ Gianfranco, si sia cercato di privare la sua presenza ed il suo intervento di qualsiasi significato penalmente rilevante, confinando l’una e l’altro nell’ambito degli antefatti e privandoli di concreta valenza causale sulla condotta degli autori dell’omicidio. Autorizza tale conclusione l’esame della stessa versione proposta da FERRARA Sebastiano, ed in particolare il suo tentativo di accreditare dubbi circa la sua stessa presenza nel momento in cui SALVO e SANTORO andarono a commettere l’omicidio, dubbi che il FERRARA ha esternato più di una volta non già per negare il proprio personale coinvolgimento (ammesso senza alcuna riserva) ma più verosimilmente proprio per continuare a negare il ruolo di LAGANÀ senza correre il rischio di mettere in discussione la propria credibilità (stante il fatto che il FERRARA, quando LAGANÀ si era presentato riferendo di avere incontrato il Messina, non era presente). Dei protagonisti della vicenda l’unico ad esternare il dubbio che FERRARA Sebastiano possa essere arrivato in un secondo momento, quando SALVO e SANTORO si erano già allontanati, è stato TURRISI Antonino (il primo destinatario del tentativo di inquinamento posto in essere da FERRARA Sebastiano), il quale tuttavia è stato molto esplicito nell’attribuire al LAGANÀ piena consapevolezza del valore che la sua segnalazione avrebbe avuto. Sorge poi spontaneo l’interrogativo circa le ragioni per le quali il FERRARA, che non ha ovviamente smentito di averlo fatto, si sarebbe affannato a suggerire di non coinvolgere LAGANÀ Gianfranco, di non rivelare che era stato lui a “portare il segnale”, ove tale condotta fosse del tutto estranea al meccanismo causale che è sfociato nella consumazione del delitto. Si potrebbero citare gli elementi di prova che smentiscono l’assunto dei fratelli FERRARA (e le dichiarazioni di TURRISI Antonino sono fra quelli), non tanto in ordine alla occasionalità della presenza di Messina e LAGANÀ (che è circostanza su cui si può senz’altro convenire), quanto alla assenza di consapevolezza da parte di quest’ultimo, essendo desumibile il contrario dalle dichiarazioni di SANTORO Angelo e SALVO Giovanni, appartenente quest’ultimo ad un contesto associativo diverso da quello degli altri imputati e per questa ragione sicuramente immune dai tentativi di manipolazione del FERRARA: ma è certamente più utile affidarsi alla logica concatenazione delle altre risultanze dibattimentali e verificare come essa, in ogni caso, orienti verso l’affermazione della responsabilità dell’imputato. Il dato certo, evidenziato anche da FERRARA Sebastiano, è che il LAGANÀ era inserito nel gruppo, ed è plausibile ritenere, attesa anche la particolare compattezza che caratterizzava il sodalizio del villaggio CEP rispetto agli altri operanti in quel periodo nella stessa realtà cittadina, che ne condividesse iniziative e strategie. Pensare che in un momento così delicato uno degli affiliati ignorasse che il suo gruppo era attivamente coinvolto nello scontro cruento con un gruppo avversario è certamente poco plausibile, anche in considerazione dei rapporti tutt’altro che buoni tra MANCUSO Giorgio e FERRARA Sebastiano già in epoca precedente all’omicidio Di Blasi. Proprio attribuendo a LAGANÀ questa consapevolezza legata alla sua appartenenza al gruppo “Ferrara”, può essere ipotizzata la spiegazione di una particolare circostanza su cui spesso ci si è soffermati, sia pure con esiti opposti a quello che l’analisi critica delle risultanze dibattimentali suggerisce come il più logico. Ci si riferisce al peculiare stato d’animo che il LAGANÀ avrebbe manifestato riferendo ai compagni la notizia della presenza del Messina, e cioè una grande preoccupazione o paura, determinata probabilmente anche da un gesto o da una espressione ostile rivoltogli dal Messina, ma legata in primo luogo alla piena consapevolezza del clima di sanguinosa contrapposizione che si viveva in quei giorni immediatamente successivi all’omicidio di Di Blasi Domenico, e della concreta minaccia per la stessa propria incolumità che la presenza di un esponente di spicco del gruppo “Mancuso” poteva rappresentare. In questo contesto, anche a non volere ipotizzare che il LAGANÀ fosse una delle vedette a cui il FERRARA aveva affidato il compito di registrare e comunicare fatti o circostanze rilevanti, è fin troppo ovvio che l’imputato, segnalando ai compagni, di cui ben conosceva le attitudini operative, la presenza di Messina Giovanni, era ben conscio di rivolgersi a chi avrebbe definitivamente rimosso la minaccia che quella presenza rappresentava, e di innescare in questo modo un meccanismo causale che avrebbe determinato, alla fine, la morte del Messina. Peraltro le peculiari modalità attraverso le quali la partecipazione al delitto di LAGANÀ Gianfranco si è esplicitata autorizzano ad escludere, in conformità alla richiesta finale del Pubblico Ministero, che sussista con riferimento alla sua posizione l’aggravante della premeditazione: non vi è prova di un proposito criminoso protratto nel tempo, perché tutte le fonti di accusa inducono ad affermare effettivamente l’accidentalità dell’avvistamento e della conseguente segnalazione da parte dell’imputato, e non è provata la sua partecipazione né alle fasi che immediatamente precedettero o seguirono la consumazione del delitto, né agli incontri in cui era stata decisa ed elaborata la strategia da attuare nei confronti del gruppo “Mancuso” e nel corso dei quali era stato probabilmente anche fatto il nome di Messina Giovanni, prova che legittimerebbe l’estensione dell’aggravante fondata sulla effettiva conoscenza dell’altrui premeditazione. La mancanza di contestazioni sul punto induce poi la Corte, in base agli elementi di giudizio in suo possesso, a ritenere che questo esito fosse pronosticabile già sulla scorta delle indagini preliminari, e che, in altri termini, fosse possibile già al momento della richiesta di rinvio a giudizio escludere per LAGANÀ Gianfranco la contestazione della premeditazione e non privarlo in tal modo della possibilità di accedere al giudizio abbreviato così come l’imputato ha tempestivamente ma inutilmente chiesto nel corso dell’udienza preliminare. È infatti noto che, in base al sistema venutosi a delineare prima dell’entrata in vigore della recente legge n. 479 del 1999, la giurisprudenza aveva accolto l’interpretazione secondo cui, “per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma secondo, ultimo periodo, c. p. p., il giudizio abbreviato non è più ammesso quando l'imputazione enunciata nella richiesta di rinvio a giudizio concerne un reato punibile con l'ergastolo”, difettando il giudice per le indagini preliminari del potere di definire il giudizio con le forme di cui agli artt. 441 e 442 c. p. p. anche ove ritenesse di irrogare una sanzione diversa dall’ergastolo[2]. E tuttavia la stessa giurisprudenza, dovendosi misurare con le concrete conseguenze della declaratoria di illegittimità costituzionale, è pervenuta a comprendere, nei casi di dissenso immotivatamente opposto dal Pubblico Ministero alla definizione del procedimento nelle forme del giudizio abbreviato, le ipotesi in cui alla fine del dibattimento sia esclusa la premeditazione e ciò fosse possibile senza la celebrazione del dibattimento, sicché possa qualificarsi erronea, anche se non necessariamente arbitraria, la contestazione dell’aggravante preclusiva della scelta del rito alternativo[3]. Ciò si traduce nel diritto dell’imputato alla riduzione di un terzo della pena così come determinata in seguito alle operazioni di commisurazione e alla concessione delle circostanze attenuanti generiche da ritenersi prevalenti sulle altre aggravanti comuni contestate. La marginalità del coinvolgimento del LAGANÀ, limitatosi alla segnalazione della presenza di Messina Giovanni, senza alcun ulteriore intervento che precedesse o seguisse la consumazione dell’omicidio, giustifica la concessione del beneficio nella massima misura consentita. Analoghe considerazioni giustificano la concessione dello stesso beneficio a FERRARA Carmelo e MANGANARO Salvatore, il primo coinvolto esclusivamente nella fase deliberativa ed organizzativa dell’omicidio, oltre ad essere tra coloro che fornivano ospitalità a SALVO Giovanni (la cui presenza al villaggio CEP aveva il significato già più volte evidenziato), il secondo coinvolto nella stessa misura ed inoltre incaricato, secondo la unanime indicazione delle fonti di accusa, del compito di prelevare i killer dopo l’omicidio: la circostanza che il MANGANARO non sia riuscito ad incontrare SALVO e SANTORO, rendendone meno agevole l’allontanamento dal luogo dell’omicidio, non ha alcuna incidenza sotto il profilo dell’affermazione della responsabilità, ma la mancata concretizzazione del contributo giustifica la concessione anche a MANGANARO per questo capo di imputazione delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle altre aggravanti contestate, ad eccezione di quella di cui all’art. 7 del d. l. n. 152/91. Le circostanze attenuanti generiche, da dichiararsi equivalenti alle aggravanti contestate, devono poi essere concesse anche a FERRARA Sebastiano. Sebbene nel contesto di un contributo che nel caso specifico è stato tutt’altro che lineare (v. anche ciò che si rileverà con riferimento alle accuse mosse a DI DIO Domenico), in quanto il FERRARA è sembrato fortemente condizionato dal bisogno di conciliare il desiderio di apparire collaboratore credibile e l’esigenza di non smentire del tutto la sua versione iniziale dei fatti, l’imputato ha ammesso senza riserve le proprie responsabilità, offrendo una adeguata spiegazione del contesto nel quale l’omicidio di Messina Giovanni è maturato e manifestando una aperta dissociazione rispetto a quella realtà di gruppo di cui per anni aveva costituito il vertice indiscusso. Pur non consentendo le ragioni indicate la concessione, limitatamente a questa imputazione, dell’attenuante speciale di cui all’art. 8, gli elementi evidenziati giustificano ampiamente il riconoscimento a FERRA Sebastiano del beneficio di cui all’art. 62 bis del codice penale. L’attenuante speciale negata a FERRARA Sebastiano compete invece a tutti gli altri imputati condannati, i collaboratori di giustizia SALVO Giovanni, SANTORO Angelo, LONGO Luigi e MARCHESE Mario, e comporta per essi l’esclusione della operatività della corrispondente aggravante di cui all’art. 7 del d. l. n. 152/91. Le dichiarazioni di ciascuno di essi si inseriscono in un atteggiamento di aperta e completa dissociazione dalle loro pregresse appartenenze, ed esprimono l’abbandono di tutto ciò che tale militanza comportava. Al di là poi della diversità di sfumature o del livello variabile di approfondimento delle rispettive ricostruzioni, connessi l’una e l’altro al ruolo rivestito in generale e rispetto all’episodio specifico da ciascuno dei dichiaranti, il contributo da essi fornito è apparso decisivo per la ricostruzione dei fatti, o quantomeno di quel segmento della vicenda di volta in volta caratterizzato dal coinvolgimento di ognuno degli imputati, maggiormente informato circa l’uno o l’altro aspetto a seconda del ruolo e del tipo di partecipazione avuta dal dichiarante nella ideazione e consumazione del delitto. Rinviando come di consueto alla parte conclusiva della motivazione per la concreta commisurazione delle pene inflitte agli imputati condannati, resta da prendere in considerazione la posizione di DI DIO Domenico, l’unico tra gli imputati dell’omicidio di Messina Giovanni che la Corte ha assolto per non avere commesso il fatto, disponendo al contempo la sua remissione in libertà, essendo stato il medesimo assolto anche dai reati di cui al capo 31 per i quali si trovava sottoposto agli arresti domiciliari dal 7 novembre 1996. Il GIP aveva infatti respinto la richiesta di cattura di DI DIO Domenico per l’omicidio di Messina Giovanni (ma anche per l’attività di istigazione relativa agli agguati contro MANCUSO e RIZZO precedenti all’omicidio Di Blasi), rilevando l’impossibilità di individuare un contributo causale efficiente, di ordine psicologico o materiale, alla produzione dell’evento, e non potendo considerarsi tale l’ospitalità concessa a SALVO Giovanni nel periodo in cui fu commesso l’omicidio e specificamente subito dopo l’uccisione del Messina. E il dibattimento non ha di molto modificato il quadro, palesando piuttosto la debolezza della prospettazione accusatoria che aveva indotto il GIP a respingere la richiesta della misura cautelare. A prescindere dalla accusa generica di essere il mandante dell’omicidio rivolta all’imputato senza alcuna ulteriore specificazione da LEO Roberto, il DI DIO viene effettivamente indicato da tutte le fonti come colui che ospitava in una casa di sua proprietà il SALVO a villaggio CEP e che diede ospitalità al SALVO anche nelle ore immediatamente successive all’omicidio, prima che il killer rientrasse nel rione Giostra per incontrare MARCHESE Mario. I soli SANTORO Angelo e TURRISI Antonino lo indicano poi tra i presenti nel momento in cui il LAGANÀ venne a riferire di avere incontrato Messina Giovanni, senza tuttavia attribuirgli specificamente alcun ruolo o iniziativa, mentre più esplicitamente FERRARA Sebastiano, dopo averlo indicato tra coloro che erano presenti quando SALVO e SANTORO si organizzarono per consumare l’omicidio, gli attribuisce con certezza la paternità del delitto, descrivendolo come una persona a lui molto vicina, il suo autentico braccio destro, incaricato di tenere le fila del gruppo e di provvedere al pagamento dello “stipendio” agli affiliati. È evidente che l’assegnazione di tali compiti, in mancanza di ulteriori specificazioni, poco influisce sulla specifica questione del coinvolgimento di DI DIO Domenico nell’omicidio di Messina Giovanni, poiché, al di là del rapporto con il SALVO, non si intende quale sia stato sul piano organizzativo il contributo del DI DIO ed in che termini si sia esplicata la sua adesione alla determinazione omicida, posto che, ad es., l’eventuale utilizzazione di una autovettura che era nella sua disponibilità non assume rilievo dimostrativo, essendo emerso che la Y10 con cui il MANGANARO avrebbe dovuto prelevare i killer era in un certo senso a disposizione di tutti e l’utilizzazione da parte di uno degli affiliati non richiedeva particolari esigenze o richieste. Va invece rilevato, in ordine alle accuse di FERRARA a DI DIO Domenico, che le medesime, in base a quanto emerso nel corso del controesame, non caratterizzano in maniera uniforme il contributo di FERRARA Sebastiano relativamente all’omicidio di Messina Giovanni durante le indagini preliminari e successivamente, perché in occasione di un primo interrogatorio (19.10.1994) il collaboratore si limitò ad indicare il DI DIO come colui presso la cui abitazione uno dei responsabili del delitto era andato a rifugiarsi, mentre durante una sua seconda audizione (19.4.1995), pur ricostruendo in dettaglio l’episodio, omise del tutto di menzionare il DI DIO. Il FERRARA, nella difficoltà di trovare una risposta plausibile, in dibattimento si è limitato a ribadire il coinvolgimento di DI DIO nei termini illustrati, ma ha dovuto ammettere l’esistenza di concrete ragioni di astio nei confronti del DI DIO che impongono la massima cautela nella verifica dell’attendibilità delle sue accuse. Ha infatti affermato il FERRARA che il DI DIO, abusando della sua posizione privilegiata all’interno del gruppo, durante la latitanza di FERRARA avrebbe rivolto a proprio personale profitto i cospicui proventi di un’attività estorsiva condotta dal clan nei confronti di alcune grosse imprese che stavano realizzando un nuovo stadio nella zona di S. Filippo, costruendosi una villa con il ricavato ed inducendo FERRARA, informato della situazione da affiliati più fedeli (specificamente LONGO Luigi), a progettare l’uccisione del DI DIO, da cui l’aveva dissuaso solamente il pensiero della sorte dei figli della vittima predestinata a cui FERRARA ha ricordato di essere particolarmente affezionato. A questa si aggiunge poi una ulteriore ragione di risentimento, relativa alle circostanze dell’arresto del FERRARA, posto che il collaboratore, escludendo che la sua cattura sia scaturita da un preventivo accordo con le forze dell’ordine, ha affermato di avere saputo dai poliziotti del Commissariato “Duomo” che lo avevano arrestato che era stato il DI DIO a rivelare confidenzialmente il suo nascondiglio e ad interrompere la sua latitanza. Il collaboratore non ha poi saputo rispondere alla relativa sollecitazione del difensore, che gli chiedeva conferma di un riferimento particolare alla moglie di DI DIO effettivamente contenuto nel “monologo” registrato nella parte iniziale della nota cassetta, in cui il FERRARA, riferendosi ad una vicenda concernente verosimilmente un tentativo di rapina sfociato nel ferimento di tale Saro (diminutivo con cui tra gli affiliati veniva indicato Rosario TAMBURELLA), invitava TURRISI e LONGO a non fare menzione delle prestazioni professionali rese dal dottore Pafumi, suggerendo di indicare in sua vece la moglie di DI DIO Domenico (“Nuccio e Luigi sentite una cosa: per quanto riguarda il fatto quando Carmelo e Saro gli stavano prendendo la pistola a Gianni Mangano, dite la verità su questo fatto, nominate anche a Carmelo e a Saro, non ce n’è problema, nominateli, però non nominate il dottore Pafumi. Dovete dire solo che si è interessato Mimmo DI DIO attraverso sua moglie, essendo che sua moglie lavora all’ortopedico di Ganzirri, e l’ingessatura ce l’ha fatta la moglie di DI DIO a Saro. Per quanto riguarda qualche medico fu DI DIO stesso che si è interessato attraverso gente di ‘Mangialupi’, quando è stato il fatto che gli hanno fatto fare i raggi a Saro, non nominate però il dottore Pafumi, vi raccomando. ”). È evidente che, in presenza di un quadro probatorio intrinsecamente assai debole, il raggiungimento della positiva dimostrazione della sussistenza di ragioni di rancore da parte di FERRARA Sebastiano, le cui dichiarazioni dovrebbero costituire la principale fonte di accusa a carico del DI DIO, sconsiglia di attribuire a tali dichiarazioni un grado di attendibilità compatibile con l’affermazione della responsabilità dell’imputato, ove si consideri anche la circostanza che tali accuse non caratterizzano con continuità la versione dei fatti riferita dal FERRARA, che nel corso delle indagini preliminari non si era espresso in proposito in termini così espliciti come ha ritenuto di potere fare in dibattimento: con la conseguenza che si alimenta ulteriormente il sospetto, ragionevolmente evidenziato dai difensori del DI DIO, che l’aggravamento successivo della posizione dell’imputato non sia il frutto di una più precisa sistemazione dei ricordi del collaboratore, ma possa anche rispondere, eventualmente, a ben altri ed inconfessabili fini. Va infine disposta in conformità alla richiesta del Pubblico Ministero la trasmissione al suo ufficio di copia degli atti relativi al capo di imputazione in esame per quanto concerne la posizione di LEO Domenico, indicato da più di una fonte di accusa come presente alle riunioni svoltesi al villaggio CEP, presente anche nel momento in cui il LAGANÀ riferì l’incontro con Messina Giovanni, e accusato addirittura dal cugino Roberto di avere avuto un ruolo della fase ideativa ed organizzativa del delitto come latore del messaggio relativo alla presenza nella zona di Messina Giovanni.

 
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