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dal libro: UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA di Tiziano Terzani - Ed Longanesi Milano

Post n°211 pubblicato il 31 Maggio 2016 da loredanafina1964

OTTAVA PUBBLICAZIONE 

Pag. 44

Il secondo giorno fu impiegato a ripetere gli esercizi del primo e ad assistere ad alcuni "miracoli" del Maestro che l'imbonitore italiano mi aveva preannunciato. Il Maestro mettera una persona seduta su una seggiola e le misurava la pressione. Poi si metteva dietro, faceva i suoi esercizi, le trasferiva la sua energia e le rimisurava la pressione per far vedere che era calata.

Io non riuscivo a togliere gli occhi di dosso alla piccola donna magra e pallida nell'angolo della stanza poco lontano da me che, come in trance, seguiva ogni gesto del Maestro nelle cui mani aveva risposto la sua vita. Era la sua vita e aveva il diritto di scegliere come viverla o terminarla, ma era libera? Non avesse avuto quella possibilità, quella "alternativa" sarebbe certo andata da un chirurgo, avrebbe fatto la chemioterapia e forsa ora sarebbe di nuovo a correre in un parco.

Colpa del qi gong? Ovviamente no. Il qi gong era saggio, c'era qualcosa di sano, di vero, di antico in quel prendere in mano il proprio respiro, nel fare "l'esercizio della palla", nell'immaginarsi con la testa fra le nuvole, e forse in quel cercare di aiutare qualcuno trasmettendogli le proprie energie o semplicemente calmandolo. Quel che era insopportabile - almeno per me - era il suo essere fuori luogo, quell'essere trapiantato dal mondo di un altro, quell'essere isolato dal suo contesto, quell'essere diventato una merce da supermercato con tanto di pamphlet pubblicitario e l'elenco di tutte le malattie, "acute e croniche", che Master Hu col suo qi gong prometteva di trattare con successo. 

A Pechino, nel parco della Terrazza del Cielo, quei gesti fatti, al levar del sole da vecchi cinesi con le loro ciabatte di stoffa, al canto dei loro usignoli nelle belle gabbie appese ai salici piangenti, avevano un senso; in un loft di New York, nessuno. Lì, Master Hu stesso, mi pareva a disagio.

Tutte le antiche civiltà hanno studiato il potere del respiro e hanno intravisto il rapporto tra il respiro e la mente, e forse l'anima. Alcune, come quella indiana, hanno pensato che è possibile, usando il respiro, prendere consapevolezza di quella forza che sostiene l'intero universo e di cui il respiro è l'espressione più grossolana. Gli yogi, avendo notato che certi animali capaci di respirare lentamente, come l'elefante e il serpente, vivono molto più a lungo di quelli , come il cane o la scimmia, che invece respirano velocemente, hanno speso anni a escogitare specialissimi esercizi intesi a rallentare il ritmo della propria respirazione, prolungando così - si dice - la propria vita fino a centocinquanta, duecento anni. 

L'altra idea, anche questa molto indiana, è che il tempo assegnatoci dal destino non si misura in anni, giorni e ore - dopo tutto queste sono nostre invenzioni - ma in respiri. In altre parole, non nasceremmo coi giorni, ma coi respiri contati. E siccome un uomo respira normalmente 21.000 volte al giorno, 63.000 volte al mese e circa sette milioni e mezzo di volte all'anno, rallentare questo ritmo significherebbe allungarsi la vita. Basterebbe impratichirsi! 

Pag. 47

A volte, alzandomi, la mattina sentivo in agguato l'ombra della depressione: Ma era solo una sfumatura scura che presto passava, non quell'orribile buco nero nel quale mi pareva di cadere ogni giorno in Giappone, mai quel peso del mondo sulle spalle, quella ossessione di inutilità. Ora era piuttosto un senso di distanza che mi rendeva il mondo irrilevante, non più tanto interessante da volerci vivere dento. Così, anche il cancro non era affatto un dramma. Un giorno, in un film alla televisione sentii una frase su cui in altri tempi non mi sarei soffermato: "So che morirò, ma non so quando, e questo mi uccide". La notai e mi venne da sorridere. "Morire? Non mi preoccupa. Vorrei solo non esserci quando avviene". 

Un altro aspetto interessante in quel mio nuovo stato era il diverso rapporto che avevo col tempo. Affascinato, come sono sempre stato, dalla ricca certezza del passato, e confuso dall'incertezza del futuro con le sue troppe possibilità, avevo preso il presente colo come materiale di cui godere una volta che fosse diventato passato. E così il presente m'era spesso sfuggito. Adesso non più. Godevo del presente, ora per ora, giorno dopo giorno, senza troppe aspettative, senza piani.

Se ero stanco, dormivo, leggevo, guardavo semplicemente fuori dalla finestra. Godevo quella mia esistenza miniaturizzata, come se tutto quel che succedeva fuori da quelle quattro mura non avesse sapore, odore, come se tutto il resto non avesse alcuna importanza. Leggevo il New York Times che ogni mattina veniva infilato sotto la mia porta con lo stesso distacco con cui l'avrebbe letto una formica o un'ape. Il mondo di cui parlava mi era lontanissimo.

In ogni paese avevo avuto un mio modo di leggere i giornali. In Cina cominciavo con l'editoriale, perchè avevo imparato che lì erano le novità. In Giappone, dove mi ero messo a giocare in Borsa, leggevo innanzi tutto le pagine economiche. A New york mi scoprii a guardare con curiosità le pagine che non esistono più nei giornali europei: quelle dei necrologi, gli articoli con cui la comunità ogni giorno fa il bilancio delle persone, note nel bene o nel male, che hanno lasciato questo mondo. Mi incouriosiva l'insistenza giornalistica con cui la morte di ognuno veniva attribuita a una causa specifica. Di nessuno si scriveva: "E' moro perchè è nato".

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ciao, bel post, complimenti. Ti auguro una dolce notte....
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Il verso della lepre o il raglio dell'asino invece non...
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