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C’è un principio di magia fra gli ostacoli del cuore
Che si attacca volentieri fra una sera che non muore
E una notte da scartare come un pacco di natale
C’è un principio di ironia nel tenere coccolati i pensieri più segreti
E trovarli già svelati e a parlare ero io
Sono io che gli ho prestati
Quante cose che non sai di me
Quante cose che non puoi sapere
Quante cose da buttare nel viaggio insieme
C’è un principio di allegria fra gli ostacoli del cuore
Che mi voglio meritare anche mentre guardo il mare
Mentre lascio naufragare un ridicolo pensiero
Quante cose che non sai di me
Quante cose che non puoi sapere
Quante cose da buttare nel viaggio insieme
Quante cose che non sai di me
Quante cose devi meritare
Quante cose da buttare nel viaggio insieme
C’è un principio di energia che mi spinge a dondolare
Fra il mio dire e il mio fare
E sentire fa rumore
Fa rumore camminare fra gli ostacoli del cuore
Quante cose che non sai di me
Quante cose che non puoi sapere
Quante cose da buttare nel viaggio insieme
Quante cose che non sai di me
Quante cose che non vuoi sapere
Quante cose da buttare nel viaggio insieme

 

immagine"Il tango ha la tristezza dei crepuscoli di Buenos Aires. Chi lo canta non ha mai fretta di finire, come se temesse una conclusione drammatica. Chi lo balla ne interpreta la languida malinconia. Chi lo suona trasforma in musica un repertorio caotico di sentimenti, solitudine, odio, burla, rancore, vendetta, desiderio, timore, ira, godimento sessuale, intrigo, felicità, vicissitudini di quartieri porteni, barrios, talvolta miserabili e malfamati."

"In ogni abbraccio c'è un racconto.
Ci sono le parole che non si ha avuto il coraggio di dire, e altre che non si vorrebbe mai dire".
 

 

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Post N° 91

Post n°91 pubblicato il 23 Febbraio 2006 da luz1969

da "Pappagalli Verdi" di Gino Strada

A volte, in televisione o durante le conferenze, ho fatto vedere qualche foto di feriti da mina. Perché, si dice, una foto vale spesso più di cento parole. A condizione, però, che la foto rappresenti la realtà. E non sempre è così.

Perché quel che si mostra non è la foto, ma quella foto, tra le tante possibili. E per varie ragioni, non  mi è stato mai possibile mostrare le fotografie più autentiche, quelle che meglio corrispondono a ciò che si osserva nella realtà.

Ragioni di opportunità, di tecnica di comunicazioni, paura di ottenere, come unico effetto, che la gente volti la testa  dall’altra parte e rimuova il problema. Così alla fine, il più delle volte si fa vedere quel che si può far vedere, e forse è anche giusto così […]

[…]Ricordo una delle tante pubblicità gratuite di EMERGENCY comparsa nel 1994 su alcuni quotidiani. Un massacro in Ruanda, e una didascalia per descrivere la foto nei dettagli, parole per trasmettere gli orrori della guerra. Sennonché la foto non c’era più, era stata sostituita da un  grande rettangolo  tutto nero. E il titolo diceva, più o meno, “ I medici di EMERGENCY, quello che vedono te lo risparmiano”.[…]

[…]Così ho pensato che descriverla, una ferita da mina, senza farla vedere, possa essere lecito, più accettabile, di certo, meno traumatizzante anche perché è difficile immaginarla, senza averne viste dal vero…

Ogni venti minuti, in qualche parte del mondo, si ripete il rito macabro: scoppia una mina, un altro ferito, un altro mutilato, non di rado un altro morto.

Cambiano i paesi, i nomi, il colore della pelle, ma la storia di questi sventurati è tragicamente simile. C’è chi sta camminando in un prato, chi gioca nel cortile di casa o sta seguendo le capre al pascolo, chi zappa la terra o ne raccoglie i frutti.

Poi lo scoppio.

Abduraham ha detto di aver sentito la terra esplodergli dentro. Djamila ha sentito un clic metallico sotto il piede[…]

[…]Molti altri, come Esfandyar, non ricordano nulla. Un rumore assordante, e sono stati scaraventati a terra, in una strana poltiglia di polvere, sangue e carne bruciata.

Il piede calpesta una placca di gomma, o la gamba urta un filo metallico che attiva il detonatore.

Il detonatore è un piccolo oggetto, grande come il cappuccio di una biro, fatto di esplosivo di alta qualità che fa scoppiare tutto il resto.

Meccanismo di attivazione, detonatore, carica principale. Tutto così asettico, per tecnici e militari. La chiamano “la catena esplosiva”. Dimenticando però che alla fine della catena chi è esploso è Esfandyar, bambino di dodici anni.

L’esplosione ha la forma di cono rovescio, che sale verso l’alto. Il piede si disintegra, le ossa diventano frammenti, i muscoli si spappolano, la carne brucia.[…]

[…] Il padre di Esfandyar ha sentito il botto, e ha capito subito. Ha il coraggio, o l’istinto, di correre giù per il pendio, di entrare in quel campo minato, per andare a prendere il figlio. Si è tolto il turbante, glielo ha fasciato intorno alla coscia e ha preso in braccio quel bambino in fin di vita, maciullato. È tornato sui suoi passi urlando a chiamare aiuto, ed è iniziata la ricerca disperata di un mezzo di trasporto, uno qualsiasi, per raggiungere l’ospedale.

Hanno avvolto Esfandyar in un grande lenzuolo, subito diventato rosso, e l’hanno caricato sul retro di un automezzo agricolo. Cosa avrà pensato suo padre, durante quel viaggio disperato, procedendo lentamente per strade sterrate verso Suleimania, lontana ancora diverse ore?

Esfandyar non si è lamentato, ci ha detto il padre, né  per il dolore né  per la strada dissestata, era come addormentato.

Ed era in quello stato soporoso, quando è arrivato al pronto soccorso del nostro ospedale. Braccio e gamba destra completamente spappolati, una lesione penetrante all’occhio sinistro, altre ferite al volto.[…]

[…]Avrà pensato qualcosa Esfandyar, nel vedere da sotto facce strane, deformi. Gente con la maschera ed il cappello verde che gli infilavano aghi e cateteri, che gli tagliavano i vestiti sporchi e stracciati?

Per un attimo ha cercato la forza di sollevarsi, di mettersi semiseduto e guardare…Per fortuna sua non ce l’ha fatta, non ha visto il proprio corpo straziato, è ricaduto sul tavolo operatorio e l’anestesia ha fatto il suo effetto.

Si è svegliato diverso Esfandyar, senza un braccio e senza una gamba, e resterà diverso, handicappato in un paese così povero da non poter badare a lui.

Gli faranno l’elemosina, certo, ma ben difficilmente potranno dargli speranze, progetti sogni. Per lui il peggio non è ancora passato, il difficile comincia adesso.

E quel ragazzo smilzo, che ora cammina nel cortile dell’ospedale con stampelle un po’ speciali, ha davvero bisogno di futuro, di sognare qualcosa di diverso da assordanti esplosioni.

In Marzo abbiamo aperto una nuova sezione dell’ospedale.

Esfandyar ha tenuto il discorso di inaugurazione, di fronte a tanta gente e alle autorità. Ha detto di star bene, di essere felice in questo ospedale, ha detto che tornerà presto a casa, ha ringraziato tutti, ha lanciato in aria una colomba bianca.

Abbiamo tante sue foto di quel giorno. Queste si possono far vedere, perché racchiudono in se la speranza.

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volandfarm
volandfarm il 25/03/09 alle 08:41 via WEB
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