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ma nostalgia
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Il caso Wikileaks: la democrazia ed il controllo del potere ai tempi di Internet

Post n°1662 pubblicato il 28 Luglio 2010 da massimocoppa
 

La pubblicazione on line di 92mila documenti segreti
sull’impegno americano in Afghanistan è destinata
a diventare un caso emblematico dell’utilità e dei problemi
del web
IL CASO WIKILEAKS: LA DEMOCRAZIA
ED IL CONTROLLO DEL POTERE AI TEMPI
DI INTERNET

In Italia la questione non ha fatto molto rumore, forse anche perché siamo degli irriducibili provinciali, a partire dai nostri mass media; ma negli Stati Uniti e, in generale, in Occidente, sono ormai diversi giorni che infuria la vicenda “Wikileaks”.
Wikileaks è un sito Internet d’informazione alternativa praticamente impossibile da neutralizzare: contro di esso nulla possono né gli hacker né iniziative giudiziarie. E’ infatti messo on line da numerosi server dislocati in tutto il mondo e, di fatto, situati in località segrete, spesso in “paradisi” cibernetici dove non c’è legislazione internazionale che tenga: isole di libertà immuni da ogni possibile censura istituzionale.
Wikileaks è stato creato da un australiano di 39 anni, Julian Assange, un esperto di informatica ed ex hacker dalla visione anarchica e romantica della politica e della storia, che in effetti ben si sposa con la natura di Internet.
La ragion d’essere del sito è quella di ospitare la pubblicazione di documenti scottanti che vengono postati anonimamente. È il caso attuale dei 92mila documenti riservati americani relativi alla guerra in Afghanistan.
Il malloppo degli atti è presente, ovviamente in inglese, sul sito in questione, e la pubblicazione è avvenuta contestualmente ad un focus organizzato da Assange insieme al giornale americano “New York Times”, al “Guardian” inglese ed allo “Spiegel” tedesco: una specie di sinergia per consentire un’interpretazione almeno generale di una massa di documenti che schiaccerebbe chiunque.
La Casa Bianca, in un primo momento, ha reagito quasi istericamente, parlando di grave minaccia alla sicurezza nazionale e di necessità di reprimere il fenomeno. In effetti la quantità di dati venuti allo scoperto non ha precedenti nella storia americana e probabilmente mondiale. Qualcosa del genere era accaduto con i “Pentagon Papers”, atti del Pentagono pubblicati dal “New York Times” nel 1971 ed aventi ad oggetto l’impegno americano in Vietnam: ma la diffusione mondiale e l’accessibilità immediata a chiunque sia interessato sono la novità connessa al web. Una tecnologia che, così, dimostra di poter davvero essere un presidio di agibilità democratica e di trasparenza: il miglior Internet immaginabile, insomma.
Adesso, a distanza di qualche giorno, l’allarme sta scemando: com’era sembrato già dalle prime indiscrezioni, non sono stati rivelati fatti nuovi o scandalosi. Diciamo meglio: sono diventati di dominio pubblico documenti, analisi, rapporti, indagini, stime e valutazioni che confermano quanto già si sapeva; e cioè, in sintesi, che l’impegno in Afghanistan è lungi dal concludersi, che i talebani sono fortissimi, che il governo ufficiale di Kabul è debole e corrotto, che si sprecano un sacco di soldi in inefficienze, ruberie e corruzione, che il Pakistan è un alleato riottoso a cui piace il doppio gioco, e che aiuta i talebani segretamente.
Chiunque segua i problemi mediorientali ed asiatici conosce bene tutti questi aspetti: non sono una sorpresa. Certo, però, vedere confermati questi scenari dai rapporti interni americani è abbastanza scioccante.
La vicenda è veramente interessante, ma probabilmente non per quello che si potrebbe immaginare di primo acchito; nel senso che non vi sono profili veramente scandalistici.
Innanzitutto la diffusione mondiale di questa mole di dati comporta la diffusione di conclusioni che possono anche essere errate. Il web amplifica le verità, ma anche i pettegolezzi, gli errori e le distorsioni. I documenti americani sono autentici, ma fallibili come tutte le cose umane, e spesso sono basati su impressioni, previsioni e, diciamolo francamente, dicerie. Peraltro i servizi d’informazione statunitensi sono famosi per l’elefantiasi organizzativa, per la credulità e per il profluvio di dossier inutili, ridondanti e confondenti che sono capaci di emanare pur di giustificare la propria esistenza.
L’estensione stessa della documentazione provoca la sua difficile leggibilità ed il suo problematico utilizzo. Siamo onesti: quale essere umano “normale” ha voglia di leggere 92mila documenti (a parte l’eventuale ostacolo della lingua)?
Da questa circostanza emerge inevitabilmente una considerazione: la mediazione giornalistica è ancora necessaria ed importante. Anche se viviamo in un’epoca di “giornalismo diffuso”, di “citizen journalism”, di grandi possibilità di testimonianza grazie alle tecnologie, c’è ancora bisogno di una professionalità in grado di intercettare, filtrare, digerire ed apparecchiare il flusso abnorme delle notizie che ci piovono addosso da tutto il mondo e che diventano, altrimenti e fatalmente, rumore. Anche per questo Julian Assange ha voluto coinvolgere nell’operazione tre media internazionali importanti.
La scomposta reazione iniziale di Washington ha del candore: non c’è alcuna “vera” scandalosa notizia in quella massa di cartacce; l’amministrazione Obama non cadrà per questo, e probabilmente non verrà silurato nemmeno un dirigente dei servizi segreti o del Pentagono. E del resto che effettiva capacità di circolazione può avere un pachiderma di centinaia di migliaia di pagine complessive?
A questo punto bisognerà basarsi sulle interpretazioni: che spesso saranno di parte; così gli stessi Stati Uniti potranno opporre ad esse interpretazioni opposte (come del resto hanno fatto per anni con l’Iraq). Le une e le altre avranno uguale cittadinanza, mancando umanamente la forza di poter valutare obiettivamente tutti questi dati. D’altro canto, questo non riesce a farlo nemmeno chi è pagato apposta allo scopo (e ritorna la questione della presenza di troppe “agenzie” americane ad occuparsi degli stessi argomenti), con frustrazione ed impotenza dei “decision makers”, che devono appunto prendere le decisioni.
Probabilmente tutte queste cose le sa pure il padre di Wikileaks. Allora che senso ha avuto tutta questa operazione? Voglia di ricordare ai governanti dei Paesi democratici che c’è un’opinione pubblica mondiale che controlla le loro azioni, che la verità (specialmente quella storica) è oggi più difficile da nascondere, che Internet è uno strumento formidabile se ben utilizzato e che, in effetti, non è tutt’oro quel che luccica: in Afghanistan le cose vanno malissimo e Washington ha buttato tempo, denaro e vite umane quasi per niente.

Mentre scrivevo queste note è giunta la notizia della
morte di altri due militari italiani in Afghanistan, spazzati via dalle vigliacche bombe dei talebani. Continua lo stillicidio di vite umane.

 
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